Cari Parlamentari: se volete affrontare la ‘questione sarda’, siamo qui!
Candu si pesat su ‘entu est pretzisu bentualare di Salvatore Cubeddu
La ricerca di unità tra i parlamentari sardi a proposito di “salviamo la Sardegna!” (*) è un messaggio importante. Anche quella della solidarietà di taluni parlamentari italiani. Sappiamo farci anche degli amici, in Italia: basta sapere fino a dove e fino a quando intendano seguirci. Parliamone, anche per sfuggire a notizie meno consolanti: si concentra a Cagliari la sovrintendenza archeologia che a Sassari è stata cancellata, a Nuoro manca l’acqua da dieci giorni, i sindacalisti chimici insistono a chiedere all’Eni e al governo di riempirci di cardi le pianure. Visto che si scrive del maialetto sardo che non sarà protagonista all’Expò, paula majora canamus, parliamo di cose più serie.
«La Sardegna è trattata dal Governo come se fosse un’isola dispersa e tagliata fuori da tutti i piani strategici. L’isola non può essere più una terra di confine abbandonata al suo destino». Parlano i nostri parlamentari, sapendo quanto sia stato finora inutile il loro voto presso il Parlamento. Chiedono che finisca quello per cui la Sardegna esiste per l’Italia: sfruttamento e/o abbandono. Sono i caratteri delle terre colonizzate o, se lo si preferisce, di quelle ‘dipendenti’ e ‘subordinate’.
Con i Piemontesi (per stare agli ultimi tre secoli) e poi con l’Italia si è trattato di una situazione costante. Come ciclica è la reazione unificatrice dei nostri rappresentanti. Nel 1860 Giuseppe Mazzini parlava dei sardi come “ … un Popolo infelice, povero, abbandonato, al quale la fedeltà al Regno non ha fruttato che ingratitudine …”. Voglio solo ricordare che ‘l’Unione Sarda’ nasce nel 1875 come concorde associazione di parlamentari e movimento di popolo per portare a termine la ferrovia e, solo dopo, quel titolo fu esteso al giornale che i promotori di quel movimento fondarono e che ancora conosciamo. L’unione rappresenta il minimo comune denominatore della presenza dei sardi in Parlamento. Necessaria, ma non sufficiente.
Funzionò per ottenere leggi speciali per la Sardegna, allorchè dei parlamentari sardi influenti a Roma utilizzarono il costante malcontento dei loro concittadini per ottenere impegni da parte dello Stato. Francesco Cocco – Ortu inventò le leggi speciali (nel 1897 e nel 1907), con effetti limitati, che mantennero una certa efficacia solo quando lui stesso era ministro: la diga del Tirso rappresenta la realizzazione maggiore di un impegno iniziato trent’anni prima della sua conclusione.
La ‘legge del miliardo’ servì a Mussolini per non raffreddare troppo presto l’illusione dei sardo – fascisti, in modo che l’ulteriore loro ‘rinuncia al Regno’ ne fosse valsa la pena. Le realizzazioni fasciste in Sardegna trovarono in Carbonia il massimo del carico finanziario e della realizzazione dell’‘utopia’ sociale e urbanistica del regime.
I primi sardisti che entrarono nel Parlamento italiano reagirono al modo di grillini d’antan. Umberto Cao, docente universitario, uno dei primi teorici dell’autonomia sarda, eletto nel 1921, pose al congresso di Nuoro (il 28 ottobre 1922) la questione della presenza dei quattro deputati sardisti nel Parlamento italiano: “… i sei mesi che si passano a Roma non parranno sprecati in confronto all’opera di organizzazione che si potrebbe e dovrebbe fare nella massa dei sardi? I quattro perduti nella folla di più di 500 energumeni – di là del Mediterraneo silenzioso – non possono mettere a profitto quella energia che nel paese certo sarebbe più efficacemente impiegata?”.
Il Piano di Rinascita, nella versione L. 588/1962 e L. 268/1974, ha avuto in gestazione l’elaborazione tradita della prima giunta regionale DC – PSd’A e pure dei suoi antagonisti del Congresso del lavoro del 1950. Anche in questi casi – come nell’ultima parte dell’Ottocento – la protesta organizzata si è intersecata variamente con la vicenda della crisi agraria, con l’emigrazione e con il banditismo.
In questa storia di attese, lotte e delusioni si rileva una costante ed una eccezione. Costante è l’attesa e la pretesa che sia lo Stato a creare posti di lavoro, soprattutto a partire dalla fondazione della Repubblica. L’eccezione è la vicenda degli ex-combattenti e del primo sardismo, quando lo sviluppo della Sardegna viene affidato, insieme alle opere pubbliche, alla diffusione delle cooperative dei pastori e dei contadini, quelle che il fascismo, ormai senza sardismo, fece smobilitare per favorire i caseari romani. Forse si trattò dell’ultimo tentativo autoctono di un ceto produttivo e borghese sardo.
E’ ora? La situazione si ripresenta drammatica, il documento dei parlamentari ne è consapevole. Vorremmo chiedere loro di osservare le impressionanti analogie di quanto loro descrivono con quanto avvenuto nel nostro Ottocento, con il peso delle troppe esperienze negative che ora ci condizionano scoraggiandoci.
“Chiediamo al Governo di intervenire subito per far fronte all’emergenza non con la solita assistenza ma con progetti e investimenti”, chiedono di nuovo oggi i parlamentari sardi. Visto che anche noi intendiamo collaborare con l’interessante nuovo raggruppamento unitario dei parlamentari, ci permettiamo di rivolgere loro alcuni interrogativi collegati alle relative osservazioni.
1. In Sardegna continuano a scorrazzare avventurieri dell’energia di ogni parte e tipo – in diretto contatto con i ministeri romani – che provocano la reazione delle istituzioni locali e delle comunità senza che si riveli una efficace contrapposizione delle istituzioni regionali e della rappresentanza parlamentare. Perché una legge costituzionale (il nuovo Statuto sardo) non sostituisce lo sforzo immane della nostra gente che difende il proprio territorio?
2. Da tempo in Italia non operano le Partecipazioni Statali: com’è che vi aspettate degli investimenti pubblici diretti? L’unica proposta possibile è quella derivata dalla logistica militare per il Salto di Quirra, che il governo ha però destinato altrove. A quali progetti, allora, vi riferite? Al momento siamo a conoscenza dei piani per il Sassarese e per il Sulcis: Matrica e Mossi- Ghisolfi, che occuperebbero il territorio agricolo dopo aver ben remunerato i proprietari dei terreni. Sindacati chimici e politici dei due territori vendono la cosa come fatta. La giunta Pigliaru, sulle canne del Sulcis e sul cardo di Sassari, pare stia solo aspettando che si calmino le acque. E’ immediatamente comprensibile a chiunque viva in Sardegna che tale follia economica e sociale scatenerebbe reazioni assolutamente prevedibili in un materiale evidentemente infiammabile. E’ questo l’obiettivo per il quale dovrebbero combattere i sardi uniti? Per avere negata anche la speranza di una prospera agricoltura e vedere nuovamente devastato il proprio territorio dalla monocoltura del biofuel?
3. Affermate: “E chiediamo anche ai presidenti dei due rami del Parlamento di portare la nostra vertenza nelle sedi più alte, non per avere privilegi ma diritti”. I nostri lo scrivevano anche nell’800, rivolgendosi al Re, con gli esiti che sappiamo. In Sardegna lo si fa costantemente, con i presidenti della Repubblica e con i Papi. Solo la perdita di memoria e l’ingenuità possono spiegare tale ricorrente e umiliante pietismo. Cari amici Parlamentari: ma ci credete sul serio che l’aiuto che chiedete per i casi della Sardegna, quasi sempre reso vano nei 150 anni di ‘italianità’, lo possiamo ottenere con atteggiamenti da ancien regime? Si può capire – ma rattrista – che degli operai disperati si rivolgano alla pietà delle istituzioni, ma non coloro che si sono assunti l’onore e il dovere di rappresentare i diritti del nostro popolo con intelligenza e saggezza, ma pure con senso della dignità. Dunque: se vogliamo farla, questa battaglia, facciamola sul serio, consapevoli di trovarci di fronte a un avversario che da tempo promette e non mantiene, blandisce e castiga, afferma e non realizza. Voi dovreste ben conoscerli, visto che li avete anche in Parlamento. Non c’è più spazio per la delega e per il lamento. Pensiamoci bene: quello che vi proponete è importante e doveroso, vi fa onore e spinge ogni sardo onesto a seguirvi. Candu si pesat su ‘entu est pretzisu bentualare. Poi il vento si spegne. La storia procede. E’ successo troppe volte!
4. La Sardegna è già in fiamme, si levano tanti piccoli fuochi. Non c’è stato mattino della scorsa settimana che, da via Roma a viale Trento, non siano sfilati operai senza lavoro e/o senza stipendio, mamme con bambini e maestri che difendono le scuole, sindaci che gridano per la propri acqua, studenti che continuano a invocare scuole ‘non di classe’. Pigliaru non è da invidiare. Ma non è lì per sostituire i ragionieri e controllare i conti “per conto” di Roma. Non è un presidente di una regione qualsiasi, ha accettato di fare il capo di un Popolo. Oggi siamo costretti a decidere un progetto per la Sardegna del futuro. E’ obbligatorio averla, questa idea. O no?
5. Infine. Cari amici parlamentari: tra qualche mese ricorderemo ‘sa die de sa Sardigna’. Se non abbiamo capito male, chiedete ai Sardi di riconquistare quello spirito, quel coraggio, quel metodo.
“I Sardi dovranno capire che il divenir prosperi, felici, ricchi, non dipende che da loro medesimi, che se non vorranno divenirlo è tutta colpa propria”. L’affermazione è di Federico Fenu, teologo, nella pubblicazione: La Sardegna e la fusione del suo regime col sardo continentale, Cagliari, 1848. Sì, la data è quella giusta: 1848!
15 marzo 2015
(*) Il video della conferenza stampa di presentazione della mozione dei parlamentari sardi
(°°) Il testo della mozione sul sito della Camera dei Deputati (primo firmatario Roberto Cappelli).
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- L’articolo di Salvatore Cubeddu viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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Da La Nuova Sardegna on line di domenica 15 marzo 2015
Il fenomeno politico negli anni del primo dopoguerra
Lo studio di Mario Cubeddu in un libro edito da Condaghes
“Sardofascismo”, l’ascesa e la caduta tra Oristano e Seneghe
di Luciano Marrocu
Negli anni intorno alla prima guerra mondiale, Oristano ha ancora un’aria più da paese che da cittadina quale già aspirerebbe ad essere. Per dirne una, l’elenco degli abbonati al telefono, raggiunge nel 1922 appena le 20 unità, decisamente meno di Cagliari e a Sassari dove i possessori di un telefono sono, rispettivamente, 450 e 250. Di automobili neppure l’ombra, quasi. Gran parte del traffico, che pure è intenso lungo la strada provinciale, riguarda carri e carretti e c’è anche, a ricordare il secolo precedente, qualche carrozza. Eppure, se la si guarda meno in superficie, se si tengono presenti strutture produttive e forme della vita sociale, a Oristano non manca nulla per dirsi città, anche se piccola. Ciò che le dà una inaspettata vitalità non solo economica è il rapporto con il suo circondario, fatto in questo periodo da 105 villaggi, molti agricoli, altri agricoli e pastorali insieme. Le terre attraversate dall’ultimo corso Tirso sono rese fertilissime dai depositi alluvionali delle sue acque. Rispetto al circondario, Oristano funge, si direbbe oggi, da centro servizi. Servizi amministravi, prima di tutto; trasporti, con le corriere Satas che la collegano anche ai più lontani villaggi del circondario; una non insignificante industria alimentare (pomodori e pecorino); le sedi di alcune importanti cooperative. Compaiono in città le prime trebbiatrici meccaniche e non mancano, nell’immediata periferia, dimostrazioni di motoratura. Di Oristano e del suo circondario negli anni tra prima e seconda guerra mondiale racconta Mario Cubeddu in un libro recente, “Lontano dall’Italia. Storie di nazionalizzazione della Sardegna (1915-1940)” edito da Condaghes. Proprio questa, almeno sotto il profilo del metodo, sembra essere la novità più significativa della ricerca su cui il volume si basa: il fatto che al centro della narrazione non vi sia semplicemente un capoluogo, una città, ma che le vicende della città acquistino il loro senso più profondo nel pulsante rapporto con i villaggi intorno. Cabras, San Vero Milis, Massama, Nurachi, Solarussa, la pianura cioè, sino alle alture del Montiferru, per dire Narbolia, Seneghe, Bonarcado, Santu Lussurgiu. Seneghe ha un posto speciale nel libro, per molti motivi il più importante dei quali è però la capacità di illustrare meglio di ogni altro il respiro comune con cui Oristano e i villaggi intorno affrontano gli appuntamenti più importanti. Già in altri saggi -largamente ripresi dalla più autorevole produzione storiografica nazionale sul fascismo- Mario Cubeddu aveva illustrato l’ascesa di due notevoli seneghesi, Paolo Pili e Antonio Putzolu. Nel secondo congresso del Partito Sardo d’Azione, il 29 gennaio 1922 ad Oristano, al teatro San Martino, Pili e Putzolu sono eletti direttore del Partito Sardo d’Azione e, rispettivamente, delegato regionale dell’Associazione Combattenti. Oristano è ormai il loro principale centro d’attività, ma la politica hanno iniziato a impararla a Seneghe e a Seneghe continuano a guardare con quotidiano interesse. Nello scontro col sindaco-padrone di Seneghe, Cicito Pischedda, uomo degli industriali caseari, uno che dice di essere lui la legge, Pili e Putzolu hanno elaborato i modi e le retoriche della nuova politica di massa. Sulla scena regionale – che è poi Oristano in questa fase – arrivano forti di un apprendistato tutto seneghese. Pili in particolare, che nello scontro con Cicito Pischedda ha messo a punto un armamentario di argomenti antimonopolistici, divenuto nel 1923 attraverso varie e complesse vicende il leader del fascismo sardo, si lancerà in un non ignobile tentativo di difendere gli interessi dei pastori. Saranno Pili e Putzolu, tra il 1923 e il 1926, protagonisti del “sardofascismo”. Se dopo il 1923, dopo l’ascesa di Pili alla carica di federale del Pnf della provincia di Cagliari, è la capitale dell’isola la sua base d’attività, Oristano offrirà lo scenario al suo apparente definitivo trionfo. Si tratta in realtà del prologo della caduta. Cubeddu lo rievoca in pagine di particolare efficacia. Ad Oristano, in piazza Eleonora, il 28 febbraio del 1926, i comuni della provincia di Cagliari e con essi i rappresentati delle organizzazioni del Pnf offrono a Pili una medaglia che testimoni l’affetto tributato a una personalità considerata da molti il capo del fascismo sardo. Migliaia di persone accorrono con tutti i mezzi da ogni angolo della provincia e alla fine c’è chi ne conterà in piazza circa 15mila. Al centro della manifestazione, naturalmente, Paolo Pili. Notevole che non vesta una divisa. Solo la camicia nera, su un abito grigio scuro, contraddetta per altro da un “morbido fiocco a farfalla”. Sarà il mancato adeguamento allo stile atteso da un federale, sarà il fatto che Pili ha ormai contro di sé gli industriali caseari, sarà la voce seneghese che attribuisce all’ex amico Antonio Putzolu “l’invidia della medaglia”, fatto sta che alla fine del 1926 la leadership di Pili è già fortemente in discussione e, l’anno successivo, colui che è stato l’onnipotente federale di Cagliari è costretto alle dimissioni. Putzolu avrebbe continuato a svolgere un ruolo di primo nel fascismo ma, dopo la caduta di Pili, nella quale Putzolu aveva avuto una parte, quella esperienza molto oristanese (e anche molto seneghese) passata alla storia come sardofascismo poteva considerarsi conclusa.
(La Nuova Sardegna on line 15 marzo 2015)
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(*) Il video della conferenza stampa dei parlamentari sardi
Prima riflessione. Ecco il testo della mozione, sul sito della Camera dei deputati: http://banchedati.camera.it/sindacatoispettivo_17/showXhtml.Asp?idAtto=30387&stile=7&highLight=1&paroleContenute=%27MOZIONE%27 .
L’iniziativa non appare di grande respiro, tutta giocata all’interno del Palazzo, destinata quindi a probabile possibile sparizione nel tran tran istituzionale. Tuttavia va apprezzata se inserita nel contesto di un movimento generale, in grande parte da costruire/ricostituire, come peraltro esorta a fare Salvatore nel suo articolo. La Fondazione responsabilmente (anche disperatamente) si muove come elemento catalizzatore di una forte iniziativa di vertenzialità che passa in primo luogo per la consapevolezza dei sardi (quanti più possibile si riesca a coinvolgere) dentro e fuori le istituzioni. Quando parliamo di istituzioni non dobbiamo intendere solo quelle rappresentative ma anche le altre o comunque il mondo delle organizzazioni (l’Università, la Chiesa, le Autonomie, la Scuola, li sindacati dei lavoratori e le associazioni degli imprenditori, l’associazionismo professionale e del terzo settore e così via). A presti! (fm)
La Nuova Sardegna on line, lunedì 16 marzo 2015
FUGA di STATO
di Luca Rojch
SASSARI Una fuga silenziosa, sistematica, inesorabile. Pezzo dopo pezzo lo Stato smobilita. Va via senza far rumore. Un’operazione iniziata da qualche anno, subito dopo la crisi. Il dogma della spending review si è trasformato nell’isola in una cannibalizzazione di servizi, uffici, scuole, caserme, tribunali, istituzioni. Nell’asettico e paludato linguaggio della politica viene chiamato razionalizzazione, ma la grande fuga si concretizza un progressivo ridimensionamento dei servizi. L’ultimo allarme è la cancellazione dell’autorità portuale del nord Sardegna. Destinata a confluire in un’unica Autority. Un taglio che potrebbe penalizzare in modo ulteriore uno dei motori dell’economia. La fuga. Una doppia spirale che avvolge e soffoca i piccoli centri. Destinata a desertificare una grande fetta della Sardegna. Nei Comuni più piccoli i servizi vengono cancellati perché non c’è richiesta e dai piccoli centri si va via perché non ci sono i servizi. Il risultato è lo spopolamento. Il grande vuoto. La volontà di creare un’unica autorità portuale è un piccolo pezzo di un piano di progressivo arretramento dello Stato, che cancella i servizi. Via le Province, via la Banca d’Italia, la motorizzazione, le scuole, gli uffici postali, le caserme dei carabinieri dai piccoli paesi, i posti di polizia, gli uffici di Inps, Inail, le camere di commercio. È solo un piccolo elenco di un percorso progressivo. L’allarme arriva dai parlamentari sardi che sono pronti ad azioni forti di protesta contro il governo. Nel Nuorese e in Gallura l’addio a uffici e servizi è già realtà. Ora la razionalizzazione tocca anche il Sassarese. La cancellazione della Soprintendenza ne è una prova concreta. E anche il progetto di creare un’unica Autorità portuale rischia di penalizzare il nord dell’isola. Vertenza Sardegna. C’è anche chi ha messo nero su bianco le emergenze dell’isola e le distrazioni dello Stato. «Da tempo si porta avanti un discutibile piano di razionalizzazione – spiega il deputato del Centro Democratico Roberto Capelli –. Ma il governo è assente su un piano più vasto. Ecco perché con il senatore Luciano Uras e altri parlamentari abbiamo dato vita alla Vertenza Sardegna, in cui chiediamo che il governo rispetti gli impegni che ha con l’isola. E inizi per esempio con il trasferimento delle nostre risorse. Fino a quando non sarà fatta un’agenzia delle entrate sarde siamo costretti a passare da Roma. Ma non tutti i nostri soldi ci vengono restituiti. Ci sono altre emergenze che devono essere affrontate. Dai trasporti alla dismissione industriale. Porto Torres, Ottana, Portovesme, si può fare una carta delle aree critiche su cui lo Stato ha una responsabilità diretta. Ci sono anche il dimensionamento scolastico e la questione delle servitù militari». La rivolta. La protesta è trasversale. Il deputato di Forza Italia Settimo Nizzi da tempo ha lanciato l’allarme della fuga dello Stato. «Si parla di spending review – spiega Nizzi –, ma assistiamo al più grande piano di accentramento dei poteri mai realizzato. Non si tagliano gli sprechi dei ministeri, si preferisce cancellare i servizi nei territori. Servirebbe una rivisitazione della spesa, al contrario si tagliano uffici, scuole e servizi. Io sono del tutto contrario a questo tipo di scelta politica. Si abbandonano i territori e si porta avanti qualcosa di gravissimo. E a subire sono i cittadini». Le basi. Michele Piras, deputato di Sel, attacca subito con una battuta bruciante. «Lo Stato porta via tutto tranne le basi militari. E dovrebbe cancellare solo quelle». L’analisi di Piras mette insieme la soppressione dei servizi nei centri più piccoli e il loro spopolamento. «È in atto da anni una progressiva ritirata dello stato dai territori – dice Piras –. In modo particolare nei piccoli Comuni. Ne abbiamo tanti che sono abitati da poche persone. E qui lo Stato colpisce più duro. Le politiche di spending review hanno come effetto lo spopolamento di questi centri in cui non resta nessun servizio. Ci deve essere una inversione di rotta»