Tra storia e mito, il romanzo come opportunità

stendardo di LepantoLa Relazione è stata elaborata per l’iniziativa “Alla ricerca della storia perduta”. La storia vera di Diego Henares de Astorga di Nicolò Migheli Hombres Y Dinero di Pietro Maurandi Le Carte del re di Pietro Picciau sono i tre romanzi che hanno animato il II° secondo appuntamento organizzato dalla Delegazione e dal FAI Giovani di Cagliari con la Presidenza regionale FAI lunedì 2 marzo 2015 alla Fondazione Banco di Sardegna via S. Salvatore da Horta, Cagliari.

di Nicolò Migheli

Nell’incontro precedente “Alla ricerca della storia perduta”, Vindice Lecis sosteneva che spesso il romanzo storico si nutre di dettagli, di particolari che a volte vengono trascurati dagli storici di professione. Nel caso del mio romanzo cinquecentesco è stato così, però solo in parte. Proprio in questi giorni si celebra il centenario della costituzione della brigata Sassari, un reparto militare composto interamente da sardi che si sacrificò sui fronti della Prima Guerra Mondiale.

L’epica della Brigata ha avuto due ragioni, la prima trasformare lo stigma lombrosiano sui sardi da “etnia delinquente” in “etnia combattente”; la seconda come catalizzatore del nostro riconoscimento in nazione, diventando una delle ragioni principali delle rivendicazioni autonomistiche. Grande storia e storia locale che si intrecciano creando mito in cui riconoscersi. Prima della Brigata, un altro reparto ha segnato l’immaginario dei sardi, il tercio de Cerdeña. Secondo la tradizione unità militare composta interamente da sardi, con quattrocento archibugieri imbarcati nell’ammiraglia Real di don Juan de Austria, avrebbe guadagnato la vittoria contro Alì- Paschà a Lepanto nel 1571 determinando l’esito dello scontro. Battaglia a cui partecipò anche Cervantes riportandone un braccio dilaniato da una proiettile turco.

L’aver contribuito ad un evento epico per le sorti della cristianità nel Mediterraneo, l’aver bloccato il pericolo ottomano, fu motivo di orgoglio per le èlite sarde; quel fatto d’arme sconfessava ai loro occhi la loro marginalità percepita, e quella della Sardegna. I fatti sono riportati da Salvador Vidal nel 1636 in Annales Sardinae, riprendendo la cronica dello spagnolo Jeronimo de Costial, il quale riferì che nell’ottobre del 1571 la flotta spagnola di rientro da Lepanto fece tappa a Cagliari , e che un corteo di soldati sardi e di popolo, portò in trionfo nella chiesa di San Domenico la bandiera del tercio, deponendola nella cappella di Nostra Signora del Rosario. Stendardo oggi conservato nella sagrestia di quella chiesa.

Peccato che non sia una bandiera con le insegne di Filippo II, croce borgognona rossa in campo giallo, bensì uno stendardo con le barre catalane. – Visto che siamo ospiti di una fondazione bancaria, faccio appello affinché il Banco di Sardegna stanzi un finanziamento per il restauro di quelle insegne, oggi sono in condizioni pietose, esposte alla luce stanno per scomparire i colori ed il tessuto si sta stramando -

Il mito del primo tercio, percorse la storia sarda, ne parlarono lo stesso Lussu ed altri. Qualche anno fa Gian Paolo Tore dopo lunghe ricerche negli archivi di Madrid e Barcellona, pubblicò con il Cnr uno studio accurato sulle vicende di quel reparto che ebbe vita brevissima: dal 1565 al 1568. La ricerca rivelò che il tercio de Cerdeña, composto esclusivamente da soldati nativi di Spagna, aveva combattuto in Corsica, Malta e Fiandre e che poi era stato sciolto per ignominia dopo il saccheggio ed incendio di Jemmingen nei Paesi Bassi, villaggio forse protestante, ma facente parte dei domini di Filippo II.

Il duca d’Alba, comandante dell’esercito imperiale, si vide costretto a punire il reparto e chi si era macchiato del delitto. Se sardi hanno combattuto a Lepanto, non potevano essere certo inquadrati in quel tercio. Vi fu un secondo tercio de Cerdeña, reclutato negli anni Trenta del Seicento dal marchese di Sedilo che operò in Fiandre, quello sì totalmente composto da sardi. L’unico contatto, oltre alla denominazione, tra il primo tercio e la nostra isola, è il suo acquartieramento nel’inverno del 1565 in Stampace. La permanenza non fu facile. I soldati spagnoli si rifiutarono di onorare i contratti di affitto delle case, pretesero sconti nell’acquisto dei viveri, spesso non pagandoli. Si ebbero scontri continui con gli stampacini che non faticarono molto a tenere alta la loro fama di essere “cucurus cotus”, teste calde incline alla rissa.

Il Cinquecento sardo non ha prodotto solo il mito del tercio, è anche fonte di uno stigma negativo diventato presto autostigma. È il noto “pocos locos y mal unidos”. Attribuito a Carlo V, in realtà forse scritto in una lettera ad un amico spagnolo dal vescovo di Cagliari Parraguez de Castellejo. Il prelato per ragioni politiche venne denunciato all’Inquisizione come protestante. Accusa da cui venne scagionato. Parraguez de Castellejo se mai scrisse quelle parole, si riferiva ai nobili di Cagliari, tutti di origine spagnola, non certo ai sardi naturals che ai suoi occhi, come a quelli di qualsiasi aristocratico del tempo, non contavano nulla. Potenza però delle parole, se ancora oggi in molti le vogliono come tratto caratteristico dell’essere sardi. In realtà noi non siamo né locos, né mal unidos, più di altri. Tutti i fenomeni di solidarietà reciproca e le iniziative comunitarie del nostro tempo lo dimostrano.

Scrivere romanzi storici è imbattersi nel mito, è far dialogare personaggi reali con quelli di finzione, con il risultato che anche chi è vissuto allora diventa personaggio da romanzo, e quello creato dallo scrittore personaggio “storico”. Entrambi protagonisti di vicende coeve. Nel caso del Cinquecento poi, la ricchezza di documentazione, gli studi fatti da storici di professione, permettono di calarsi anche nel loro pensiero; capirne la quotidianità, le relazioni, il loro porsi davanti al mondo. In fin dei conti erano moderni, non molto lontani da come siamo noi. Il romanzo permette di sfatare il luogo comune della marginalità della Sardegna allora facente parte dell’impero più grande del mondo, dove non tramontava mai il sole. Il racconto permette di capire che si era centrali, terra di confine nella faglia tra cristianesimo ed islam. Tema tragicamente d’attualità se, proprio oggi, Domenico Quirico sulla Stampa scrive dell’Isis intitolando l’articolo sul ritorno della Storia nel Mediterraneo.

La Sardegna di quegli anni era dentro il pensiero europeo, anche nella nostra terra vi era un piccolo movimento protestante, filiazione degli Alumbrados valenziani, bruciato dall’Inquisizione di Diego Calvo. Allo stesso tempo la tragica vicenda di Sigismondo Arquer rivela il suo legame con i circoli luterani di Basilea. Il filo rosso delle vicende di Diego Henares de Astorga è racconto di allora che serve all’oggi. Serve a capire ad esempio la multiculturalità, lo scontro tra classi, le forme del potere e del clientelismo. Temi del Cinquecento e temi di oggi. Se le vicende sono inserite in un romanzo d’avventura, un feuilleton scritto oggi, vi è anche la presunzione dell’autore che ricerche di carattere specialistico diventino accessibili anche al grande pubblico. In fin dei conti un tentativo di costruire un’epica per una terra che se n’è privata, una piccola pietra nell’edificio di un immaginario collettivo.

Per fare ciò occorre anche demitizzare, dando ai fatti lettura positiva senza indulgere nella vanagloria, evitando comunque di accarezzare quei sentimenti di impotenza e di risentimento che sono da sempre così popolari tra di noi. Se il romanzo può essere utile, ben venga. È chiaro che sono di parte, ma è quel che penso indipendentemente dall’essere anche l’autore di La storia vera di Diego Henares de Astorga.

D’altronde il tempo degli intellettuali organici non è ancora tramontato sul Mar di Sardegna. Per fortuna.
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Sardegna-bomeluzo22
* L’articolo di Nicolò Migheli viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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bandiera tercio Lepanto San Domenico CA
Gabriele D’Annunzio – Merope (1911)

La canzone dei trofei

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O Pisa, or tu sei vedova del mare,
che stavi notte e dì per tener fronte
in Tersanaia a fare, a racconciare,

quando un bando di Chìnzica o di Ponte
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valeva a trarre in corso dai sessanta
scali ben unti le galere pronte!

Pende dal muro la catena infranta
nel chiostro dove Andrea pinse Rinieri
e i tuoi morti fiorìan la terra santa.

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La Porta a Mare è triste. Ma pur ieri
nel tuo Vescovo il cor di Daiberto
balzò, verso i trofei de’ Cavalieri.

O Salerno, nel duomo dove offerto
ti fu da Gian di Procita l’avorio
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e l’oro sovra i marmi di Ruberto,

nell’ombra dove il settimo Gregorio
grandeggia, non fanal di capitana,
non stendardo d’emiro pel mortorio,

non insegna, non spoglia musulmana
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hai, che tu orni in nome de’ tuoi grandi
al tuo giovine eroe la coltre vana?

Non egli è su la bara che inghirlandi;
ma tu lo vedi, quasi fosse apparso.
E lo chiami per nome e l’addimandi.

25
Verginità del primo sangue sparso!
Ne bevano le sabbie un più gran flutto;
ma pur quel primo che sembrò sì scarso

risplenderà sul giubilo e sul lutto
più vermiglio e più fervido a Colei
30
che sa pianger gli eroi con viso asciutto.

O Gaeta, se in Sant’Erasmo sei
a pregar pe’ tuoi morti, riconosci
il Vessillo di Pio ne’ tuoi trofei,

toglilo alla custodia perché scrosci
35
come al vento di Lepanto tra i dardi
d’Ali, mentre sul molo tristi e flosci

sbarcano i prigionieri che tu guardi
e che non puoi mettere al remo. O Cagliari,
i quattrocento archibusieri sardi,

40
che Don Giovanni d’Austria alla battaglia
sotto il Vessillo nella sua Reale
s’ebbe per incrollabile muraglia,

hanno veduto verso il mare australe
ardere il fuoco sopra Teulada

45
e nella sera accorrono al segnale;

ché vien pel mare d’Africa e dirada
l’ombra con la bellezza della morte
un che fu degno della lor masnada.

Egli ha per buon compagno, o Carloforte
50
che il ferro e il fuoco sai del predatore
e la sferza e la stanga e le ritorte,

un de’ tuoi figli che nel suo furore
se ne sovvenne e, per i mille schiavi
di quel settembre, ebbe di mille il cuore.

55
Marinai, marinai, sopra le navi
e dentro le trincere, a bordo e a terra,
in ogni rischio e con ogni arme bravi,

fatti dalla tempesta per la guerra,
nel silenzio mirabili e nel grido,
60
infaticati sempre, a bordo e a terra,

di voi s’irraggi e palpiti ogni lido
d’Italia mentre per la mia più grande
Italia qui la vostra gloria incido.

Non le piagge che adorna di ghirlande
65
amare il flutto ove le sue melodi
Undulna dea dal piè d’argento scande,

ma oggi loderò con le mie lodi
l’acqua oleosa lungo le banchine
sonanti per gli imbarchi e per gli approdi,

70
l’acqua opaca ove colan le sentine
e nuotano i tritumi del carbone,
le fecce dei cavalli, le farine

delle sacca sventrate, il bariglione
rotto, la buccia putrida, la lorda
75
schiuma che ingialla il piede del pilone,

mentre alla gru che cigolando assorda
l’aria imbracato il bove da macello
pencola come botte che sciaborda.

Canto l’acqua dei porti. Odo l’appello
80
rude, il commiato, il grido. I reggimenti
partono. Ogni uomo armato è il mio fratello.

Veggo gli occhi brillare, veggo i denti
rilucere. Odo il lastrico del molo
rombar sotto la marcia. Sono ardenti

85
i vólti come se li ardesse un solo
riverbero, o il sorriso d’una sola
madre, di quella grande. Ogni figliuolo

oggi ha sol quella, e in cuore la parola
che alfine irruppe dalla bocca forte.
90
Guerra! È il croscio dell’Aquila che vola.

Guerra! Una gente balza dalla morte,
s’arma, s’assolve nell’eucaristia
del mare, e salpa verso la sua sorte.

Non più si volge indietro. Guerra! Sia
95
per giorni, sia per mesi, sia per anni
ella combatterà nella sua via.

Canto la libertà. Quali tiranni
furono uccisi? quali mostri vinti?
Qual forza li atterrò? di quanti inganni,

100
di che frodi senili erano cinti?
Chi diede al falso tempio il grande crollo?
Le colonne piegarono su i plinti.

Il precone stampato fu col bollo
rovente nella palma della mano
105
e nel dosso restìo, sino al midollo.

Strascicandosi contra l’uragano
gioioso che lo tratta come balla
di cenci, or vocia nella piazza in vano.

E marchiatelo ancóra su la spalla
110
e su la fronte! Poi gli sia concessa
la buona greppia nella buona stalla.

Altra parola è data, altra promessa.
Canto il domani e canto la canzone
dei secoli; ché l’anima è trasmessa.

115
A mira di balestra o di cannone
l’occhio è ben quello, che non batte ciglio.
Dritto è il silùro come lo sperone.

Canto la forza antica e nova, figlio
d’una carne vivente e d’infinita
120
progenie. O tu che m’odi, io ti somiglio.

Ma il balestriere, chino alla bastita
o alzato sul carroccio, anco in me vive.
L’anima eterna è il vaso della vita.

Canto le stive, le profonde stive
125
piene d’armi, di viveri, di tende,
di bottame; le maestranze attive

su i ponti apparecchiati ove risplende
forbito ogni metallo. I battaglioni
giungono. Il cielo è prode, con vicende

130
di nubi e di chiarìe, con padiglioni
immensi, con falangi impetuose.
E tutta la città par che si doni.

E diffuso è l’amore su le cose
come un ciel più vicino, simigliante
135
al vólto delle madri coraggiose.

Non sul vólto, nell’anima son piante
le lacrime divine e trionfali,
mentre il silenzio fa le labbra sante.

Gloria della città! Passano l’ali
140
ripiegate dell’uomo, i grandi ordegni
di Dedalo, le macchine campali

fatte di tesa canape e di legni
lievi, che porteran l’uomo e l’atroce
sua folgore su i fragili sostegni.

145
E le gole d’acciaio senza voce
passano, che laggiù nel lor linguaggio
conciso parleranno, dal veloce

affusto tratte al ciglio del villaggio,
lungo il palmeto, sopra le trincere,
150
davanti ai pozzi. Romba il carriaggio

su la selce. Seduto è l’artigliere
sul cofano. Conduce a coppia a coppia
i cavalli gagliardi il cavaliere.

L’applauso scroscia, un gran clamore scoppia.
155
Repente il sole batte su la faccia
giovenile, sul pezzo, su la doppia

groppa. E l’affusto trascinato a braccia
nella sabbia ove il mare s’impantana
vedo! Chi mai cancellerà la traccia

160
dentro le dune della Giuliana?
Il vento, il flutto, l’uomo, il tempo? È immota.
Gloria a te, batteria siciliana!

Canto il selvaggio anelito, la gota
che gronda, il lungo sforzo a testa bassa,
165
i polsi tra le razze della rota,

le spalle che sollevano la cassa
e la portano, l’ordine del fuoco,
la mira, il primo colpo nella massa

nemica, il suolo raso, l’urlo roco
170
delle strozze riarse ad ogni schiera
abbattuta, l’allegro ardor del gioco;

o Ameglio, e il ferro freddo; e la bandiera
tua vecchia, o Quarto Reggimento, issata
su la Berca nel soffio della sera.

175
Canto la Morte, alata e illuminata
come la prima legge della luce.
La vita è meno fertile. È rinata

da lei l’alta bellezza. Ella produce
le semenze che noi nella ruina
180
seminerem cantando. Ella conduce

le Muse, conduttrice più divina
d’Apollo. Non ha tombe ma trofei.
È tutt’avvolta d’aria mattutina

come la messaggera degli dei.
185
I più giovini eroi sono i suoi gigli.
O Gloria, ed ella è là dove tu sei.

O Primavera, e tu le rassomigli.
Mentre che soffia il vento del Deserto,
ella infiamma gli anemoni vermigli.

190
Canto la Gloria cerula, dal serto
alternato di rostri e di muraglie,
che ride se il combattimento è incerto.

Immune dall’orror delle battaglie,
è bella come Roma nel suo trono
195
e Siracusa nelle sue medaglie.

Come sul mar risponde il tuono al tuono,
il presente al passato in lei risponde;
e la mia corda duplice è il suo dono.

Conculcate le stirpi moribonde
200
ella fa dell’Italia dai tre mari
la grande Patria dalle quattro sponde.

Quando nei nostri porti gli alti fari
s’accendono, ella sfolgora da ostro
sola nelle foschie crepuscolari.

205
E, vòlto verso lei notturna, il nostro
sogno ansioso vigila il mattino.
E il mattino per noi sorge da ostro.

Sorge con uno strepito marino,
tra le grida gioiose dei messaggi
210
che gridano il gentil sangue latino:

gridano i reggimenti e gli equipaggi,
gridano i morti, gridano i feriti
le vittorie da’ bei nomi selvaggi,

gli eroi dai nomi oscuri ingigantiti.
215
Bu-Meliana, Sidi-Messri, Sciara-
Sciat, Henni! Par che al lauro si mariti

la palma. Tutta l’oasi è un’ara
fumante. Verri, Granafei, Briona,
Orst, Bertasso, Gangitano, Fara,

220
Moccagatta, Spinelli! Un nome suona
la morte, l’altro la vita. E la morte
e la vita son come una corona

sola composta di due fronde attorte.
Severo dal suo grande Arco sorride:
225
il battaglione è come la coorte.

Foss’io come colui che i nomi incide
col ferro aguzzo nella nuda stele
ad eternar la gesta ch’egli vide!

O Roma, almen quello del tuo fedele
230
inciderò nel fulvo travertino,
e il tuo modo: “Coi remi e con le vele”.

O Roma, e mentre al giovine Latino
“Velis remisque” nella pietra intaglio,
scorgo l’Ombra del grande suo vicino.

235
Guarda la fresca tomba l’Ammiraglio,
quegli che fece co’ suoi nervi soli
a San Giorgio di Lissa il suo travaglio.

“Gittai buon seme” ei dice. Si consoli
per quell’Ombra e s’inebrii del suo pianto
240
la madre di Riccardo Grazioli.

E tu resta, o Canzone, in camposanto.
Annotta. Sta fra l’una e l’altra tomba;
e veglia, incoronata d’amaranto.

Alla diana sonerai la tromba.

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