RIFLESSIONI sul CHE FARE in Italia, Europa, Sardegna
Alla Sardegna serve che chi fa politica sia immediatamente riconoscibile per valori, ideali, progetti e programmi che abbiano la dignità di strategie.
di Gesuino Muledda
La lunga età mi soccorre nel ricordare come nei momenti di grave crisi in Sardegna si siano tentate, con le migliori intenzioni, formule politiche di organizzazione delle rappresentanze che, alla fine del percorso però hanno lasciato le formule del buon tempo passato. E a dire la verità, senza lasciare grandi rimpianti. Io credo che alla Sardegna servano organizzazioni politiche, partiti e schieramenti, riconducibili alla sostanza delle idee che ognuno vuole rappresentare e per le quali intende muovere impegno di vita e di lotta politica. Serve che chi fa politica sia, nel suo dichiarato servizio della società, immediatamente riconoscibile per valori, ideali, progetti e che nella articolazione delle rappresentanze istituzionali i rappresentanti del popolo facilmente siano individuabili per essere espressione, appunto, di un progetto di società, dei programmi che abbiano la dignità di strategie e non solo di tattiche elettorali o di gestione del contingente. Perché agli elettori e alla società in genere bisogna dare parametri certi di valutazione perché possa dare consenso ma, anche, i parametri di giudizio dell’operato per le coerenze con i valori, gli ideali, i progetti che si sono proposti nel confronto democratico. E che di ciascuno determinano la evidente, piena soggettività. Come dice Luciano Uras, questa legislatura vive la prima esperienza di una maggioranza di centro sinistra e sovranista. Entro la quale convivono eccessiva frammentazione di sigle e una qualche confusione nelle strategie, derivante più da assenza di vero e costante confronto tra le sigle che per assenza di comuni obiettivi di governo. La presenza per la prima volta nel Consiglio Regionale di forze che sono di Sardegna, aperte al mondo, perfino internazionalisti, accanto a partiti che fanno parte di organizzazioni politiche italiane ed europee, pone la questione di definire, per ciascuno e per gli affini tra loro, la necessaria strategia, le linee di convergenza, la capacità di porsi come luoghi di una politica attrattiva e inclusiva. Per la contingenza che vede questa alleanza governare la Regione Autonoma, finora, non ci sono stati gravi problemi; anche perché tempo relativamente breve è trascorso. Ma se vogliamo parlare di strategie, cioè del modello di società che ciascuno vuole realizzare, torna evidente che le storie delle militanze, le radici delle storie personali, la comunanza di esperienze di lotta politica e di vita diventano determinanti nella scelta del legame di future organizzazioni politiche e partitiche. E tra partiti lealmente alleati, nella diversità delle strategie, accomunati da condiviso programma, si determineranno confronti franchi nella concorrenza dei diversi modelli di vita e di governo che ognuno vuole, legittimamente e doverosamente, affermare. Difficile prevedere, all’oggi, un orizzonte indipendentista per il partito di maggioranza relativa. Molto più facile accettare la sfida che ciclicamente viene avanzata di una sardizzazione di quel partito. Perché ho da ritenere che chi lo propone ne abbia piena convinzione. E, se i tempi della maturazione non saranno eccessivi, sarà sicuramente uno dei luoghi del confronto in quello che altre volte abbiamo indicato come percorso costituente della politica e delle rappresentanze sociali della Sardegna. Nel frattempo, nella normalità dei rapporti politici, e nella chiarezza dei riferimenti culturali, sociali e istituzionali, oggi, comunque, resta a portata di mano la organizzazione di un rapporto federativo tra i partiti della sinistra e quelli della sovranità che per cultura, progetti e programmi si rifanno a sardismo, socialismo e azionismo. E su questo progetto va innestato, eventualmente, un rapporto con altri di storia autonomista e sovranista che accettassero, senza visioni trasformiste, senza mitizzazioni leaderistiche, con cultura di governo e aspirazioni riformistiche, le coordinate di futuro che sopra ho voluto richiamare. I tempi sono maturi. Un partito della sinistra sovranista e indipendentista può nascere. Anche questo nuovo tratto di strada sarà tracciato dai nostri passi. Solo che lo vogliamo.
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RIFLESSIONI. C’è un Tsipras in Italia?
di Andrea Pubusa
Esiste in Italia un Tsipras possibile? Questo, dopo l’esito delle elezioni in Gracia, è il quesito o, forse meglio, l’auspicio di molti nella sinistra dispersa, ma resistente in Italia. Non è facile rispondere e, a ben vedere, cimentarsi col quesito è un esercizio forse inutile, essendo la risposta rimessa ai processi sociali più che alle discettazioni astratte. Tuttavia, molti, dopo il voto, si sono proposti come versione nostrana di Syriza, ma non sono mancati i tentativi di emulazione già prima. C’è stata una lista Tsipras per le elezioni europee, formata da ottime persone, certamente esponenti di un’intellettualità alta della sinistra e del mondo democratico. Ma basta questo per formare un partito o un movimento politico con ambizioni di governo? Pur senza svalutare la serietà dell’impegno di questo movimento e dei suoi esponenti, si può e si deve ammettere che la loro azione è preziosa, ma funge più da stimolo verso le altre ben più corpose formazioni politiche che come soggetto capace di sviluppare una autonoma azione politica. Per farla breve, le avanguardie intellettuali sono sempre state il sale della terra, indispenabili per imprimere una dinamica sociale, politica e culturale, ma, per incidere nella politica, occorre ch’esse s’innervino in una forza organizzata con forte radicamento sociale. In mancanza, restano testimonianze importanti di processi mancati o che hanno preso altre strade.
Si può allora far riferimento ai piccoli gruppi della sinistra? Ai residui della grande storia della sinistra italiana? A quei cespugli divenuti minuscola ombra di ciò che è stato il PCI? Il discorso è necessariamente severo. Questi movimenti si sono ridotti all’inconsistenza non per la mancanza di possibili referenti sociali, ma perché si sono chiusi in un autoreferenzialismo estremo, che hanno declinato in un’azione rissosa, tutta giocata nella ricerca di posizioni di potere: elezione al parlamento o ai consigli regionali, partecipazione senza freni al sottopotere ove possibile. Hanno così mantenuto un astratto, quasi liturgico linguaggio di sinistra, ma pratica una incontrollata azione di destra, quella che un tempo si chiamava, negli aspetti deteriori, pratica democristiana, oggi, in modo più appropriato, berlusconiana. Il legame sociale è ormai nullo. E si badi, questo intreccio non solo non è voluto, ma è temuto, perché la dinamica sociale produce sempre nuovi protagonisti e muta continuamente le cose: questi signori-compagni, invece, vogliono mantenere il loro status a tutti i costi e a vita, anche perché un loro ritorno alla vita normale li condurrebbe alla totale inconsistenza sociale e professionale. Ognuno di noi può girarsi intorno e vedere cosa sarebbero sindaci, deputati, senatori di casa nostra, provenienti da questi cespugli, fuori dalla politica.
D’altronde, costoro l’occasione l’hanno avuta per crescere, ma se la sono giocata sull’altare della loro sete di carica. Non solo dopo la scomparsa del PCI, ma quando si è formato il PD, la fuoriuscita di un folto gruppo di iscritti (Sinistra Democratica) poteva addirittura contendere al PD i consenso a sinistra, solo che subito si fosse avviato un processo di unificazione con Rifondazione e i Comunisti italiani. E’ in quel momento che bisognava creare l’alternativa al nascente PD mediante la costituzione di un riferimento forte per chi non si riconosceva nella prevedibile deriva centrista del PD. Quell’occasione fu mancata e, siccome il treno della storia non passa a frequenza rapida, ognuno nella sua referenzialità si è ridotto all’osso, spesso a vivere da acaro di un corpo altrui, SEL verso il PD, ad esempio. Il contrario di quanto ha fatto Tsipras, passando in pochi anni dal 3 al 36%. Per questo l’ennesimo cantiere lanciato a Milano domenica da Vendola non incanta più nessuno.
L’alternativa tuttavia non è impossibile a patto che si guardi ai movimenti sociali organizzati che in questi anni duri hanno tenuto il campo: la Fiom ed altri settori sindacali, Emergency, alcuni movimenti cattolici di base. Queste realtà sociali organizzate hanno espresso anche leader forti, affidabili, riconoscibili. Certamente Landini è uno di questi. E’ immediato, appassionato e certo suscita negli strati popolari e democratici una istintiva fiducia e simpatia. Ha le caratteristiche del leader, non è uomo da salotto, è uomo di lotta e di popolo, dovunque vada riempie le piazze. Si capisce che non teme il popolo, ma che lo vuole mobilitare e nobilitare. Niente è oiù lontano da lui del populismo, è sempre propositivo e, da ottimo sindacalista, non è per lo scontro fine a se stesso, indica sempre un punto di possibile accordo.
C’è poi il M5S, che la sinistra con la puzza sotto il naso non considera. Ma, se si guarda ai fatti, fa molte cose di sinistra: la rinuncia al finanziamento pubblico, l’autoriduzione delle indennità di carica, la richiesta del salario minimo garantito, la domanda di onestà, la difesa della Costituzione ed altre ancora. Certo, non è nelle corde della sinistra un partito telematico, preferiamo il contatto diretto, ci sono poi taluni eccessi e molte chiusure. Ma basta tutto questo per espungerlo da un disegno ricostruttivo di una sinistra di governo? Credo che sarebbe un errore grave, anche perché è un movimento che quasi vinceva le passate elezioni e comunque è sempre, a livello nazionale, intorno al 20% o, chissà, anche di più. Sol per questo è necessariamente un interlocutore nella ricostruzione della sinistra. Fra l’altro, sfrondato di molti frilli, che del resto, se ne stanno andando da soli affascinati dall’indennità di carica piena, c’è un gruppo di giovani, i Di Maio, i Di Battista per intenderci, di indubbio interesse e rilievo.
Insomma, se da Tsipras vogliamo trarre esempio, è qui, nel sociale, che dobbiamo pescare, come ha ben detto Rodotà l’altro giorno. La vecchia sinistra è morta, si è suicidata. Fuori, però, è cresciuta una nuova sinistra sociale, con alcune forti personalità, Landini fra tutti, su cui si può pensare a un nuovo inizio. Ci vuole però decisione. Anche questo Tsipras ci ha trasmesso. La storia necessita di levatrici.
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C’è un Tsipras in Italia? Andrea Pubusa su Democraziaoggi
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La divina sorpresa che viene da Atene
di Barbara Spinelli
Il Fatto Quotidiano del 27/01/2015. Nella storia francese, quel che è accaduto domenica in Grecia ha un nome: si chiama “divine surprise”. Il maggio 68 fu una divina sorpresa, e prima ancora – il termine fu coniato da Charles Maurras – l’ascesa al potere di Pétain. La storia inaspettatamente svolta, tutte le diagnosi della vigilia si disfano. Fino a ieri regnava l’ortodossia, il pensiero che non contempla devianze perché ritenuto l’unico giusto, diritto. L’incursione della sorpresa spezza l’ortodossia, apre spazi ad argomenti completamente diversi.
LA VITTORIA di Alexis Tsipras torce la storia allo stesso modo. Non è detto che l’impossibile diventi possibile, che l’Europa cambi rotta e si ricostruisca su nuove basi.
Non avendo la maggioranza assoluta, Syriza dovrà patteggiare con forze non omogenee alla propria linea. Ma da oggi ogni discorso che si fa a Bruxelles, o a Berlino, a Roma, a Parigi, sarà esaminato alla luce di quel che chiede la maggioranza dei greci: una fondamentale metamorfosi – nel governo nazionale e in Europa – delle politiche anti-crisi, dei modi di negoziare e parlarsi tra Stati membri, delle abitudini cittadine a fidarsi o non fidarsi dell’Unione. Ricominciare a sperare nell’Europa è possibile solo in un’esperienza di lotta alla degenerazione liberista, alla fuga dalla solidarietà, alla povertà generatrice di xenofobie: è quel che promette Tsipras.
I tanti che vorrebbero perpetuare le pratiche di ieri proveranno a fare come se nulla fosse. I partiti di centrodestra e centrosinistra continueranno a patteggiare fra loro – son diventati agenzie di collocamento più che partiti – ma la loro natura apparirà d’un tratto stantia; per esempio in Italia apparirà obsoleto qualunque presidente della Repubblica, se i nomi vincenti sono quelli che circolano negli ultimi giorni.
Dopo le elezioni di Tsipras, anche qui sono attese divine sorprese che scompiglino i giochi tra partiti e oligarchie. Non si può naturalmente escludere che Tsipras possa deludere il proprio popolo, ma il pensiero nuovo che impersona è ormai sul palcoscenico ed è questo: non puoi, senza il consenso dei cittadini che più soffrono la crisi, decretare dall’alto – e in modo così drastico – il cambiamento in peggio della loro vita, dei loro redditi, dei servizi pubblici garantiti dallo Stato sociale. Non puoi continuare a castigare i poveri, e non far pagare i ricchi. Non esiste ancora una Costituzione europea che cominci, alla maniera di quella statunitense, con le parole “Noi, popoli d’Europa…”, ma quel che s’è fatto vivo domenica è il desiderio dei popoli di pesare, infine, su politiche abusivamente fatte in loro nome.
L’establishment che guida l’Unione è in stato di stupore. Meglio sarebbe stato, per lui, che tra i vincitori ci fosse solo l’estrema destra di Alba Dorata, e che Syriza avesse fatto un’altra campagna: annunciando l’uscita dall’Euro, dall’Unione. Non è così, per sfortuna di molti: sin dal 2012, Tsipras ha detto che in quest’Europa vuol restare, che la moneta unica non sarà rinnegata, ma che l’insieme della sua architettura deve mutare, politicizzarsi, “basarsi sulla dignità e sulla giustizia sociale”. La maggioranza di Syriza – da Tsipras a eurodeputati come Dimitrios Papadimoulis o Manolis Glezos – ha scelto come propria bandiera il Manifesto federalista di Ventotene. DICONO che Syriza sfascerà l’Unione, non pagando i debiti e demolendo le finanze europee.
Non è vero. Tsipras dice che Atene onorerà i debiti, purché una grossa porzione, dilatata dall’austerità, sia ristrutturata. Che gli Stati dell’Unione dovranno ridiscutere la questione del debito come avvenne nel ’53, quando furono condonati – anche con il contributo della Grecia, dell’Italia e della Spagna – i debiti di guerra della Germania (16 miliardi di marchi). Che l’Europa dovrà impegnarsi in un massiccio piano di investimenti comuni, finanziato dalla Banca europea degli investimenti, dal Fondo europeo degli investimenti, dalla Bce: è la “modesta proposta” di Yanis Varoufakis, l’economista candidato di Syriza in queste elezioni.
Quanto al dissesto propriamente greco, Tsipras ne ha indicate le radici anni fa: i veri mali che paralizzano la crescita ellenica sono la corruzione e l’evasione fiscale. “È un fatto che la nostra cleptocrazia ha stretto un’alleanza con le élite europee per propagare menzogne, sulla Grecia, convenienti per gli eurocrati ed eccellenti per le banche fallimentari” (Tsipras al Kreisky Forum di Vienna, 20-9-2013). Questi anni di crisi hanno trasformato l’Unione in una forza conflittuale, punitiva, misantropa. Hanno svuotato le Costituzioni nazionali, la Carta europea dei diritti fondamentali, lo stesso Trattato di Lisbona. Hanno trasformato i governi debitori in scolari minorenni: ogni tanto scalciano, ma interiorizzano la propria sottomissione a disciplinatori più forti, a ideologi che pur avendo fallito perseverano nella propria arroganza.
Quel che muove Tsipras è la convinzione che la crisi non sia di singoli Stati, ma sistemica: è crisi straordinaria dell’intera eurozona, bisognosa di misure non meno straordinarie. Tsipras rimette al centro la politica, il negoziato tra adulti dell’Unione, la perduta dialettica fra opposti schieramenti, il progresso sociale. L’accordo cui mira “deve essere vantaggioso per tutti”, e resuscitare l’idea postbellica di una diga contro ogni forma di dispotismo, di riforme strutturali imposte dall’alto, di lotte e falsi equilibri tra Stati centrali e periferici, tra Nord e Sud, tra creditori incensurati e debitori colpevoli.
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LA SCELTA CORAGGIOSA DEL GIOVANE ALEXIS
di Luciana Castellina, su il manifesto
Appena ricevuto l’incarico per formare il nuovo governo, Tsipras ha fatto due cose per niente formali: è andato a Kesarianì, dove, nel 1944 200 partigiani greci furono fucilati da fascisti e nazisti, e si è rifiutato — primo presidente del consiglio nella storia del paese – di baciare la Bibbia e inginocchiarsi davanti al capo della Chiesa Ortodossa. Tanto per chiarire gli equivoci che avrebbero potuto nascere sulla scelta compiuta: l’accordo con Panos Kammenos, leader di Anel, i greci indipendenti fuorusciti da «Nuova Democrazia», 13 deputati decisamente di destra e ossequienti alla religione.
Equivoci infatti nell’immediato ce ne sono stati. Quando la notizia della decisione ha cominciato a diffondersi ero ancora ad Atene e ho così potuto condividere con qualche compagno di Siryza le reazioni all’accaduto. Inutile negare: sorpresa, imbarazzo, anche incomprensione. Peggio quando ho incrociato gli italiani della Brigata Kalimera che si erano attardati a rientrare in patria dopo la festosa nottata di domenica. Dio mio, il patto del Nazareno?
Io credo che il nostro compagno Alexis abbia fatto la cosa giusta. E da quel che mi dicono al telefono gli stessi che lunedì mattina manifestavano le loro perplessità mi sembra che, nel suo insieme, il partito, passato il primo momento, abbia capito il senso della scelta compiuta da Tsipras-primo ministro. Che peraltro non tradisce il mandato del comitato centrale di Siryza, l’ultimo prima del voto: nessun compromesso con chi ha firmato l’odioso Memorandum della Troika. Gli unici a non averlo fatto – se si escludono i fascisti di Alba dorata – sono proprio quelli di Anel. Anche il Kke, naturalmente, che con i suoi ben 15 deputati avrebbe potuto costituire la più ovvia delle alleanze. Ma sapete tutti che gli ultimi filosovietici (chissà di quale Urss), sin dall’inizio hanno detto che non avrebbero mai collaborato con un governo di Siryza perché pro-europea. Salvo, subito dopo la sua clamorosa vittoria, aprire uno spiraglio ad un voto positivo su singoli provvedimenti che «il popolo» (cioè il Kke) giudicherà buoni. Troppo poco per formare il governo, che aveva bisogno, subito, di almeno altri due deputati, non male in prospettiva.
Lasciamo da parte l’equazione più assurda ( quella Tsipras = Renzi), pur evocata da qualche sconsiderato twitter, e per due buone ragioni: Siryza ha fatto una campagna elettorale in cui la sua identità di sinistra è stata sempre riaffermata con grande forza e , coerentemente, il suo programma è tutto mirato a dare rappresentanza agli interessi dei più poveri (il contrario del job act, come è stato scritto). Inoltre il compromesso con Anel è limpido e «di scopo»: chiaramente limitato alla durissima contrattazione con la troika.
Si tratta di una scelta molto dura, coraggiosissima e anche rischiosa come tutto ciò che si fa per coraggio. Sarebbe stata più facile una prudente alleanza con i centristi, che avrebbero però condizionato il governo pesantemente, spingendolo ad una logorante mediazione, e poi a un parziale cedimento. Era quello che auspicava Bruxelles. Tsipras ha deciso invece di andare al braccio di ferro. Perchè quello che Siryza chiede non è un aggiustamento un po’ meno rigoroso, ma un mutamento sostanziale della linea di politica economica dell’Unione Europea. Per questo non si è limitata a chiedere una dilazione nel pagamento del proprio debito ma una Conferenza straordinaria che affronti il problema della crisi, non solo della Grecia, in tutta la sua complessità. Vale a dire l’occasione per affrontare non solo le magagne greche, ma anche quelle degli altri paesi, per varare regole nuove e diverse da quelle stabilite nel 2012 dal trattato sui bilanci. A cominciare da una unificazione della politica fiscale, per porre fine alla pratica del dumping allegramente usata dai più forti, e di un più intelligente rapporto fra livello del deficit e livello degli investimenti.
Il nuovo esecutivo non tradisce il mandato del comitato centrale della Sinistra Radicale greca che è: «Nessun compromesso con chi ha firmato l’odioso Memorandum della Troika»
È ben paradossale che la troika, e con lei tutti i c.d. benpensanti europeisti, stia facendo due cose assolutamente contraddittorie: accusare la Grecia di aver sperperato danaro e perfino di aver falsificato i propri bilanci e insieme auspicare che restino al comando proprio gli stessi colpevoli di questa bancarotta fraudolenta. Non potrebbe esserci prova migliore che quanto interessa Bruxelles non è la sorte dell’Europa, ma la salvaguardia degli interessi che difendono, gli stessi che serve Samaras e i governi che oggi dettano legge nell’Unione. I quali sono responsabili di gran parte del debito accumulato da Atene: la tragedia di Acebes, dove un F16 greco è precipitato producendo un disastro, è drammaticamente lì a ricordarcelo nel giorno in cui Alexis diventa primo ministro. Chi mai ha insistito perché quegli aerei venissero acquistati? La logica è sempre la stessa, da quando il problema del debito, negli anni ’80, è esploso in Africa e America latina: i governi occidentali hanno agito come i «puscher» con la droga, aprendo le loro borse al credito perché paesi che avevano ben altre priorità acquistassero merci e servizi superflui, impegnandosi il patrimonio pubblico. Ho detto che la scelta di non annacquare il confronto con Bruxelles è molto coraggiosa, perchè c’è da attendersi una risposta durissima. Le prove per Tsipras e l’intera sinistra greca saranno difficilissime e la nostra solidarietà — se saprà essere dettata dalla testa oltre che dal cuore — essenziale. Ben sapendo tutti che per vincere non basterà respingere il diktat della troika, ma avviare un modello di produzione, di consumo, di organizzazione della società diverso da quello attuale: una maggiore liquidità se si continueranno a fare le stesse cose — supermarket, speculazione edilizia, spreco — non servirà a molto. Per questo non basta invocare politiche keynesiane di intervento pubblico, occorre anche indicare quale e per quale tipo di sviluppo. A questo progetto Anel non servirà, ma c’è tempo per creare, nella società oltre che in parlamento, un consenso sui progetti di più lungo periodo. È un tema che dovrà essere al centro della riflessione di tutta «L’altra Europa», perché non riguarda solo la Grecia, ma tutti noi. Ne abbiamo abbastanza per i prossimi anni.
Intanto, forza compagni di Siryza, per ora si è almeno svelata la stupidità di Bruxelles che si comporta come Buridano (o Melchisedecco, non ricordo) col suo asino: «Che peccato — aveva esclamato — proprio ora che gli avevo insegnato a non mangiare, è morto».
P.S. Il ministero della difesa in mano ad Anel? Vista la tradizione greca, crearsi qualche punto d’appoggio contro eventuali avventure dei militari, non è un brutta idea.
da il manifesto del 28 gennaio 2015
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