C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: io vivo altrove, e sento che sono intorno nate le viole
di Gino Strada,
dalla pagina fb.
«Forse ci siamo. Forse si riesce a sconfiggere questa epidemia. Il numero di nuovi casi sta diminuendo rapidamente ogni giorno, speriamo non si verifichino nuove impennate. Forse tra poco potremo dire che l’epidemia di Ebola è finita in Sierra Leone. Ma che fatica! E quanti miracoli ci sono voluti. Quando in agosto il Ministero della Sanità ci ha chiesto di aprire a Lakka un centro di isolamento per i casi sospetti, in sole tre settimane i nostri logisti hanno realizzato una struttura in tende per un totale di 22 letti, che presto si è trasformata anche in centro di trattamento: troppi pazienti, accasciati fuori dal cancello, prostrati dalla malattia e in attesa di un posto letto. Così è iniziata la corsa per metterci in condizione di curare i pazienti, non solo di isolarli e osservarli: assicurare acqua e energia elettrica, garantire procedure e percorsi di sicurezza, assicurare aria condizionata per diminuire la fatica fisica degli operatori rinchiusi in un caldissimo scafandro, e finalmente iniziare a curare i malati. Perché anche in assenza di una cura specifica per la malattia si possono salvare molte vite, se si riesce a capire qualcosa di questa grave malattia ancora in gran parte sconosciuta, se si hanno gli strumenti e i farmaci più adatti. Così un passo dopo l’altro, tra grandi difficoltà, abbiamo messo a punto un laboratorio di biochimica, poi uno di virologia, sono arrivati i monitor, le pompe per infusioni endovenose, un altro laboratorio per la virologia, i ventilatori per intubare i malati più critici, le macchine per la dialisi. In soli tre mesi siamo riusciti ad allestire una terapia intensiva come quelle che si trovano nei centri specializzati in Europa e in USA, che hanno trattato una trentina di pazienti con una mortalità inferiore al 30 per cento. Due pazienti su tre sono guariti nei paesi ricchi, due su tre sono morti nell’Africa povera. Per assenza di cure. Adesso le cose sono cambiate. Oggi siamo in grado, nel nuovo centro da 100 letti di Emergency a Goderich, di fornire qui in Sierra Leone quasi lo stesso livello di cure disponibili in Occidente. Abbiamo una terapia intensiva di alto livello, l’unica esistente nel Paese, che forse non servirà per molto tempo se l’epidemia di Ebola (come speriamo) si sta avviando alla conclusione. Ma servirà comunque, per la prossima volta, e per curare nel frattempo tanti malati gravi, fino a ieri incurabili. Ne siamo orgogliosi, perché abbiamo dimostrato che si può fare, anche qui in Africa. Perché abbiamo reso visibile, ancora una volta, che i pazienti non hanno colore, che sono persone con i nostri stessi diritti. Liberi e uguali, come noi tutti vorremo essere. Qualche mese fa dissi, un po’ frettolosamente, ”se mi ammalo di Ebola resto in Africa”. Oggi lo posso affermare con tranquillità e convinzione: mi farei curare nell’ ETC (Ebola Treatment Centre) di Emergency. Nel corso degli anni, dando vita a molti ospedali, ci siamo chiesti spesso “ma come deve essere un ospedale, in Iraq o in Centrafrica, in Sudan o in Afghanistan? Quali strutture, che equipaggiamento, quali terapie devono essere possibili?”. Abbiamo risposto nel modo più semplice, più umano: un ospedale è “di Emergency”, va bene per “loro”, se va bene anche per noi, per i nostri cari, per tutti noi. Perché l’eguaglianza è anche questo, condividere gli stessi diritti ed essere parte di un destino comune. Gino Freetown, Sierra Leone, 18 gennaio»”>dalla pagina fb di Gino Strada
«Forse ci siamo. Forse si riesce a sconfiggere questa epidemia. Il numero di nuovi casi sta diminuendo rapidamente ogni giorno, speriamo non si verifichino nuove impennate. Forse tra poco potremo dire che l’epidemia di Ebola è finita in Sierra Leone. Ma che fatica! E quanti miracoli ci sono voluti.
Quando in agosto il Ministero della Sanità ci ha chiesto di aprire a Lakka un centro di isolamento per i casi sospetti, in sole tre settimane i nostri logisti hanno realizzato una struttura in tende per un totale di 22 letti, che presto si è trasformata anche in centro di trattamento: troppi pazienti, accasciati fuori dal cancello, prostrati dalla malattia e in attesa di un posto letto. Così è iniziata la corsa per metterci in condizione di curare i pazienti, non solo di isolarli e osservarli: assicurare acqua e energia elettrica, garantire procedure e percorsi di sicurezza, assicurare aria condizionata per diminuire la fatica fisica degli operatori rinchiusi in un caldissimo scafandro, e finalmente iniziare a curare i malati. Perché anche in assenza di una cura specifica per la malattia si possono salvare molte vite, se si riesce a capire qualcosa di questa grave malattia ancora in gran parte sconosciuta, se si hanno gli strumenti e i farmaci più adatti. Così un passo dopo l’altro, tra grandi difficoltà, abbiamo messo a punto un laboratorio di biochimica, poi uno di virologia, sono arrivati i monitor, le pompe per infusioni endovenose, un altro laboratorio per la virologia, i ventilatori per intubare i malati più critici, le macchine per la dialisi. In soli tre mesi siamo riusciti ad allestire una terapia intensiva come quelle che si trovano nei centri specializzati in Europa e in USA, che hanno trattato una trentina di pazienti con una mortalità inferiore al 30 per cento. Due pazienti su tre sono guariti nei paesi ricchi, due su tre sono morti nell’Africa povera. Per assenza di cure.
Adesso le cose sono cambiate. Oggi siamo in grado, nel nuovo centro da 100 letti di Emergency a Goderich, di fornire qui in Sierra Leone quasi lo stesso livello di cure disponibili in Occidente. Abbiamo una terapia intensiva di alto livello, l’unica esistente nel Paese, che forse non servirà per molto tempo se l’epidemia di Ebola (come speriamo) si sta avviando alla conclusione. Ma servirà comunque, per la prossima volta, e per curare nel frattempo tanti malati gravi, fino a ieri incurabili.
Ne siamo orgogliosi, perché abbiamo dimostrato che si può fare, anche qui in Africa. Perché abbiamo reso visibile, ancora una volta, che i pazienti non hanno colore, che sono persone con i nostri stessi diritti. Liberi e uguali, come noi tutti vorremo essere. Qualche mese fa dissi, un po’ frettolosamente, ”se mi ammalo di Ebola resto in Africa”. Oggi lo posso affermare con tranquillità e convinzione: mi farei curare nell’ ETC (Ebola Treatment Centre) di Emergency.
Nel corso degli anni, dando vita a molti ospedali, ci siamo chiesti spesso “ma come deve essere un ospedale, in Iraq o in Centrafrica, in Sudan o in Afghanistan? Quali strutture, che equipaggiamento, quali terapie devono essere possibili?”. Abbiamo risposto nel modo più semplice, più umano: un ospedale è “di Emergency”, va bene per “loro”, se va bene anche per noi, per i nostri cari, per tutti noi. Perché l’eguaglianza è anche questo, condividere gli stessi diritti ed essere parte di un destino comune.
Gino
Freetown, Sierra Leone, 18 gennaio»
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- Il titolo è tratto dall’incipit della poesia L’Aquilone di Giovanni Pascoli
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Dacci oggi il nostro rancore quotidiano
di Nicolò Migheli *
Greta e Vanessa sono tornate a casa in lacrime. La magistratura scoprirà se è stata solo incoscienza o se alle due giovani cooperanti è stata tesa una trappola. Se è stato pagato un riscatto non lo si saprà mai. Stato e servizi proteggono bene questi segreti. È bastato però l’annuncio della liberazione perché i professionisti della paura e del risentimento si lanciassero in una campagna forsennata contro le due ragazze e contro chi ha agito per la loro liberazione.
In questo si sono distinti Libero, Salvini e il presidente della regione Veneto, il quale vorrebbe obbligare le due cooperanti a rendere, non si sa come, la cifra eventualmente pagata. Agli occhi di Zaia, le parole dei predoni del deserto hanno più autorevolezza di qualsiasi dichiarazione che venga dalle istituzioni. Così sono gli uomini di Stato di questa becera destra. Avrebbero preferito che le due giovani fossero state decapitate in Siria e il video postato nel web? Ogni soluzione possibile avrebbe innescato il rancore e l’odio. Coperti da tanta autorevolezza i lupi da tastiera si sono scatenati. Commenti che è impossibile riportare per decenza. Una deriva che non risparmia neanche i luoghi della cosiddetta borghesia riflessiva.
Mi è capitato di sentire in un caffè à la page i discorsi di un gruppo di persone – cachemire e filo di perle, borse di nota marca francese – ammicare a supposte virilità orientali e augurare infibulazioni per le due povere vittime. No, non basta invocare l’eterna crisi, la folla solitaria, la scomparsa dei corpi intermedi che riuscivano a canalizzare la rabbia verso un progetto, la crisi della politica. Non spiega il fenomeno neanche il fatto che l’Italia sia un luogo dove la maggior parte degli abitanti non legge neanche un libro all’anno, o che nelle classifiche europee risulti la più ignorante insieme alla Polonia.
C’è qualcosa di più profondo. Una crisi che è sempre più culturale ma che investe la psicologia di massa. Un Paese che è diventato il luogo di elezione di Gustave Le Bon il fondatore della Psicologia delle folle e padre della manipolazione del pubblico. Vent’anni di predicazioni orrende hanno avuto il potere di liberare i verminai dell’anima e dare loro legittimità. Era stato così, si potrebbe dire, quando durante la guerra in Iraq vennero liberate le due Simona e Giuliana Sgrena, in quest’ultimo caso anche con la morte dell’agente dei servizi Calipari.
È stato così, solo che ora le reazioni sono più virulente e toccano fasce di popolazione che allora ne erano state indenni. Da crassi e cinici, a poveri e risentiti con le indignazioni a comando. Je souis Charlie e affermare nel contempo che se la sono andata a cercare. Una incoerenza che dimostra fragilità emotive, sottomissione alle tendenze virali omologanti, un sentirsi parte del peggio piacendosi. Impossibilitati ad una riflessione razionale ed autonoma. Nessuno che si sia chiesto, cosa avrei fatto se quelle due ragazze fossero state mie figlie o sorelle? Tutti preda dell’economicismo dominante, vittime dei conti della serva che riducono prestazioni sanitarie, istruzione pubblica, salvo poi a lamentarsene quando tocca pagare.
Un Paese privo ormai di qualsiasi empatia, disposto a trovare responsabilità in chiunque fuorché in se stesso. Ecco cosa siamo diventati. Ha vinto il forza leghismo, come diceva il povero Edmondo Berselli. Ha vinto non come condizione politica, ma come condizione culturale. Anche in Sardegna, anche qui. Se è vero che vi siano movimenti che si candidano ad essere i terminali di Salvini nell’isola. Tutti pronti a raccogliere i peggiori istinti che agitano le coscienze impaurite di molti sardi. Greta e Vanessa sono solo l’ultimo tassello di un percorso culturale di lunga durata.
L’anomia spinta e il cinismo diffuso non aspettano altro, pregano che ogni giorno venga dato loro un rancore quotidiano, così ci si sente nel mondo. Odio dunque sono. La politica che rimesta nel letame raccoglie consensi. Tempi orrendi. Si spera sempre che giunti al fondo del pozzo non ci venga detto di scavare ancora. L’ottimismo della ragione ora non consola il pessimismo delle emozioni.
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* Dacci oggi il nostro rancore quotidiano [di Nicolò Migheli]
By sardegnasoprattutto / 17 gennaio 2015/ Culture/
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GLI EDITORIALI PIU’ RECENTI
APPELLO AGLI INTELLETTUALI SARDI
La probabile scelta della Sardegna come sito e deposito nazionale della scorie nucleari pone inquietanti e drammatici interrogativi e problemi
La nostra Isola, per decenni è stata utilizzata come stazione di servizio per industrie nere e inquinanti che hanno devastato il territorio, inquinato l’ambiente e sconvolto antropologicamente la popolazione sarda. Senza peraltro apprezzabili “ritorni” dal punto di vista occupazionale ed economico, perché “Issos si pigant su ranu e a nois lassant sa palla”.
Ancora oggi è base e servitù militare per operazioni che niente hanno a che spartire con gli interessi e i bisogni dei Sardi: anzi, la loro presenza – che sequestra cospicue porzioni del nostro territorio, sottraendolo a usi civili e produttivi – inquina e minaccia la nostra vita e la nostra salute.
Aggiungere alla Sardegna una ulteriore servitù con il deposito di scorie nucleari sarebbe un colpo definitivo e in ogni caso mortale alla possibilità che l’Isola imbocchi la rotta della prosperità e del benessere attraverso uno sviluppo ecocompatibile, endogeno e identitario, che rompa finalmente con la spirale del sottosviluppo e del malessere.
Per questo invito gli intellettuali, gli scrittori, i giornalisti, gli artisti sardi liberi, perché si oppongano a questo disegno insano e ingiusto del Governo italiano, mobilitandosi e partecipando attivamente alle iniziative del Comitato no scorie e a tutte le lotte in grado di bloccarlo.
Francesco Casula
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DISCORSO DELLA LUNA
di Antonio Dessì
Va bene. Sono laico (anche ateo, ma questo non c’entra: dipende soprattutto dal fatto che una volta morto non vorrei più rotture di palle in qualsivoglia Altromondo). Valuto la Chiesa cattolica secondo parametri storici e ne conosco i tanti errori, alcuni perduranti. Sono pacifista e nonviolento (questa seconda qualità l’ho acquisita, spero, definitivamente, anche se talvolta mi si mette fin troppo alla prova). JesuisCharlie quel tanto che basta per non apprezzare che Giuliano Ferrara apra dibattiti sull’Islam nella prima pagina di un quotidiano isolano. Ma quando Papa Bergoglio dice che se a uno gli cercano la madre è istintivo che reagisca quantomeno tirando un cazzotto in faccia a chi gliel’ha cercata, rilevo che ha tradotto perfettamente un tipico modo di pensare sardo. Forse glielo ha suggerito proprio la Madonna di Bonaria, patrona della Sardegna e madrina onomastica della capitale argentina. E mi è più simpatico lui dei saccentoni e dei teologi mediatici vari che stanno imperversando in queste ore. Almeno, che bisogna dichiarare guerra all’Islam, chiudere le moschee in Italia, cacciare gli immigrati dal Paese, lasciare che due imprudenti ragazze restino prigioniere di qualche predone fanatico, lui non lo ha detto e non lo pensa.
Anzi, mi è venuto da immaginare Papa Francesco affacciarsi alla finestra dell’Angelus e parafrasare il “Discorso della Luna” di Papa Giovanni XXIII: “Questa sera, quando tornate a casa vostra, date un cazzotto a Salvini. Ditegli che è il cazzotto del Papa!”.
Sulle restanti questioni politiche lascio il commento alle vignette. Parce sepultis.
Ad amiche e amici buon pomeriggio e fin d’ora buon week end.
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Prima e dopo Parigi. Siamo tutti chiamati in causa. Che fare?
di Vanni Tola
L’indignazione per gli atti terroristici compiuti a Parigi dall’estremismo islamico pone una serie di problemi e, tra questi la paura e la rabbia. Richiamano interrogativi inquietanti sul che fare da domani in poi per contrastare la violenza indiscriminata di coloro che, in nome di Dio, predicano e praticano l’eliminazione fisica di chi non la pensa come loro, degli infedeli. Ma è soprattutto la sfera privata di ciascuno di noi a essere chiamata in causa. Non basta indignarsi occorre agire, fare qualcosa, dare il nostro contributo di individui liberi, che vivono in regimi democratici, di componenti di Stati che direttamente o indirettamente hanno comunque grosse responsabilità nell’aver contribuito a generare le condizioni di ingiustizia, di diseguaglianza, di sottosviluppo economico e culturale che caratterizzano il nostro mondo. Torniamo alla sfera privata, personale. Che possiamo fare, qual è il nostro livello di conoscenza della realtà? Che cosa sappiamo dell’Iran e dell’Iraq? Quanti nomi di stati africani siamo in grado di ricordare senza l’aiuto di internet? A poche miglia dalle coste della Sicilia, in Libia, si sta materializzando uno stato islamico, un califfato, alle porte di casa nostra. Ma cos’è uno stato islamico? Esistono luoghi nei quali gli estremisti e integralisti mussulmani compiono azioni raccapriccianti e disumane. Anche l’occidente civilizzato ne ha compiute. Potremmo parlare a lungo dei bombardamenti al napalm in Vietnam, delle stragi in Palestina, dei bombardamenti in varie parti del mondo per “importare la democrazia”. Rimaniamo sull’attualità. Esistono luoghi geografici di quello che – in termini di comunicazione – McLuan definiva “villaggio globale”, del quale non sapremo indicare l’ubicazione neppure con una cartina geografica sotto il naso. Dov’è Maiduguri, capitale dello Stato di Borno? E Potiskum, principale centro economico dello Stato di Yobe, nella parte nord orientale della Nigeria? Cos’è Boko Haram, un profumo orientale, un piatto esotico o un gruppo fondamentalista sunnita che pratica il terrorismo per realizzare lo stato islamico in Africa con una strategia della tensione straordinariamente sanguinaria. Maiduguri e Posiskum sono le città nelle quali alcune giovanissime ragazze sono state costrette a diventare lo strumento di attentati tra la folla. Ragazze alle quali è stato collocato, sotto i vestiti, dell’esplosivo che doveva esplodere attivato da un telecomando. Bambina ridotte a brandelli umani insieme a tanti altri ignari passanti. Sono i luoghi nei quali oltre duecento studentesse vengono rapite in una scuola, colpevoli soltanto di frequentare appunto una scuola. Ragazze adolescenti costrette alla conversione all’Islam davanti ad una telecamera e destinate a essere vendute o donate ai miliziani combattenti come schiave sessuali o, peggio ancora, a essere utilizzate come “pacco bomba “ vivente per gli attentati. Sono ormai numerosi questi episodi, in Nigeria, quindi lontano dalle nostre case, secondo il nostro comune modo di intendere le vicende che non ci coinvolgono direttamente. Ma dopo le vicende di Parigi la prospettiva è cambiata. Nessuno potrà darci la certezza che episodi analoghi non possano accadere anche a casa nostra. Allora che possiamo fare? Non la guerra all’Islam predicata dalla “beata” Oriana Fallaci e prontamente sostenuta da inutili idioti di casa nostra. I nostri riferimenti ideologici, i nostri obiettivi devono essere l’istruzione, il confronto, l’integrazione, l’accoglienza, la lotta alla miseria e alle disuguaglianze che contrappongono a un mondo benestante e sprecone di beni e risorse l’indigenza di miliardi di persone. E quando parlo di istruzione, non mi riferisco soltanto all’istruzione degli altri, al diritto all’istruzione delle donne mussulmane. Parlo anche di noi, del nostro sistema di istruzione che attualmente non trasmette ai giovani le necessarie conoscenze per comprendere e interpretare l’attuale realtà geo-politica. Non sappiamo niente dell’Islam e della religione mussulmana, conosciamo poco delle vicende storiche che hanno condotto all’attuale divisione del mondo, ai conflitti in atto, alle contrapposizioni tra culture apparentemente diverse e lontane che magari hanno anche molti punti di vista comuni. Mandiamo le nostre truppe (e le nostre armi) in luoghi dei quali la maggior parti dei cittadini non conoscono neppure l’esistenza. “Siamo tutti Charlie”, bene. Ma non è soltanto una questione di vignette satiriche, non si tratta soltanto di difendere il sacrosanto diritto alla libertà di espressione e quindi anche di fare satira. Si tratta di cominciare a pensare a un nuovo mondo da costruire intorno ai valori del confronto, della tolleranza, della giustizia e della pace. Un compito immensamente difficile, certamente lungo e faticoso. Una scommessa affascinante per le giovani generazioni.
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Union sacrèe coi governi che attaccano i diritti?
di Andrea Pubusa, su Democraziaoggi
A Parigi domenica si sono riuniti quasi tutti i capi di governo responsabili dell’impoverimento generale dei popoli europei e insieme della insostenibile situazione delle masse del Medio Oriente e dell’Africa. Hanno capeggiato una grande manifestazione a difesa dei valori democratici dell’Occidente, mentre nei loro paesi e nell’UE, sotto la spinta del capitale finanziario, aggrediscono i diritti sociali, frutto delle Costituzioni nate dalla Resistenza al nazifascismo e delle lotte dei decenni successivi. Particolarmente visibile questo attacco sul fronte delle diseguagluanze, che prima si tendeva se non a colmare, almeno a temperare e da due decenni a questa parte hanno ripreso a crescere creando una forbice fra ricchi e poveri che ci riporta indietro più d’un secolo. Il punto di sfondamento è individuabile nel lavoro, il cui oggetto è ormai ridotto a mera merce, cancellando la soggettività, l’umanità di chi la produce, e dunque privando i lavoratori di qualsiasi diritto, anche di quello primario ad un salario che garantisca una vita libera e dignitosa, come dice la nostra Costituzione. Capeggiano questi signori la grande manifestazione in difesa delle libertà, ma disconosconoi la piena soggettività del lavoratore e riducono la massa a mera destinataria non solo dei poteri di governo, ma anche dell’informazione che dicono di voler difendere. Questa torna ad essere formalmente libera, ma nella sostanza è in mano a grandi potentati economici che formano un’opinione che distorce la realtà. Le leggi elettorali truffaldine, che limitano la rappresentanza fino a cancellarla, sono il risvolto di questa realtà a-democartica, dai Comuni al Parlamento. Capeggiano la manifestazione oceanica, ma calpestano la democrazia svuotandola di contenuto.
Quanto è accaduto in Afghanistan, in Irak e poi in Libia è il risvolto internazionale di questa politica. Invasioni violente, con massacri di massa, ammantate dalla missione impossibile di esportare la democrazia, in realtà espressione di una volontà aggressiva volta a far fuori governi, di cui spiace non tanto il carattere autocratico quanto la pretesa di gestione autonoma delle proprie risorse. Non è un caso che “il soccorso democratico” a suon di bombe è disposto solo in paesi ricchi di petrolio o in posizione strategica per il passaggio delle fonti energetiche. Le altre emergenze umanitarie sono dimenticate.
I capi di governo di Parigi sono dunque la faccia principale della dissoluzione dei valori democratici ch’essi hanno imposto a livello interno e internazionale.
La ricomposizione non può dunque passare cementando una union sacrée fra masse e questi capi di governo, così come non può nell’altro versante formarsi attorno a capi integralisti e fascistoidi, che sono specularmente l’altra faccia della medaglia. E’ nella convergenza fra la lotta per i diritti dei popoli europei e quella dei paesi dell’altra sponda mediterranea che può poggiare una ripresa di valori democratici e di civiltà. Ma chi organizza questo progetto? La scomparsa della sinistra in Europa, e, per quanto ci riguarda, in Italia, rende difficile persino pensare ad una lotta di questa portata. Ma da qui bisogna ripartire. Qualche indicazione positiva viene da Syriza in Grecia. Ma in giro di Tsipras non se ne vedono altri. C’è molto da lavorare.
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- Qualche spiegazione per la scelta dell’illustrazione nella pagina fb di Tonino Dessì, che ringraziamo per la riflessione e la ricerca che ci offre.
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Distrazioni di massa
di Omar Onnis, su SardegnaMondo
I fatti di Parigi del 7 gennaio scorso hanno scosso l’opinione pubblica anche in Sardegna, com’è inevitabile. Ed anche in Sardegna si è scatenato il delirio anti-islamico e anti-immigrazione. L’episodio sconcertante dell’assessore alla cultura di Bonorva, che lancia proclami di odio via FB, è solo un sintomo. È il sintomo della pessima selezione della nostra classe politica (caso mai avessimo bisogno di conferme) ed anche della facilità con cui è possibile manipolare la percezione delle cose e la stessa emotività di grandi masse di cittadini.
Davanti a fatti così tragici e così simbolici assumere un atteggiamento distaccato è difficile per chiunque. Nondimeno è indispensabile cercare di dipanare la matassa complessa del nostro presente per non farsene soffocare. E che il rischio sia di soffocare è evidente. Soprattutto in un luogo impoverito e indebolito come la Sardegna di oggi.
Nel nostro caso, infatti, la funzione distraente delle narrazioni tendenziose ha una forza e una portata amplificate. L’analfabetismo funzionale di massa, le aspettative decrescenti, la rabbia diffusa sono un materiale facilmente malleabile nelle mani di chi dispone di conoscenze, risorse e obiettivi solidi da perseguire. Sappiamo come va, è già successo. Ci hanno fatto accettare fatti, scelte, condizioni che nessuno, nel pieno possesso delle proprie facoltà, accetterebbe mai. Ma manipolare delle masse è più facile che persuadere una persona singola. Soprattutto quando mancano i riferimenti culturali, quando le formazioni intermedie non solo non fanno da filtro e da aggregatrici di interessi e obiettivi, ma sono sostanzialmente al servizio della nostra sottomissione.
Mentre molti sardi si lasciano trascinare nella ventata d’odio contro i musulmani o contro gli immigrati in generale, i sindacati rilanciano l’idea della chimica verde nel nord dell’isola e delle coltivazioni estensive di canne nel sud. La classe politica amplifica il ricatto occupazionale e, anziché mettersi di buona lena a cercare soluzioni, si mette a disposizione di avventurieri e affaristi per assecondarne i piani. La scuola muore, l’università è in declino (e non certo per colpa dello stato patrigno, o almeno non solo), l’emigrazione riprende a ritmi crescenti, l’inquinamento non diminuisce affatto, l’agricoltura è allo sbando, il mondo della cultura è completamente abbandonato a se stesso. Ammetto che a volte la reazione a tante lamentele si riduce a una domanda: ma voi chi avete votato fin qui? Ma chiaramente non la si può fare così semplice.
Occorre tenere ben desta l’attenzione sulle questioni cruciali, senza farsi distrarre dalle ombre proiettate per confondere le menti. Davanti all’intolleranza e alla violenza, servono maggiore inclusività e compresione. Non integrazionismo a tutti i costi, ma capacità di rispettare gli altri per quello che sono, fintanto che rimangono nei limiti della legalità e della convivenza pacifica al cui rispetto siamo tenuti tutti. Per combattere l’impoverimento culturale, la debolezza economica, la disoccupazione, non servono fughe in avanti fantasiose, ma proposte concrete, investimenti pubblici mirati e ben pianificati, servono maggior istruzione, maggiore conoscenza strutturata, maggior senso di responsabilità verso la sfera pubblica. Prima di tutto da parte della classe politica.
Chi grida contro i musulmani e nel mentre fa spartizioni di sottogoverno, o fa accordi con il Qatar, è un nemico molto più pericoloso di qualsiasi immigrato. In questa fase risultano dunque ancor più inutili, se non strumentali allo status quo, i discorsi di tipo etnocentrico, discriminatorio, nostalgico.
Non è l’immigrazione a costituire un rischio, specie in una terra lanciata verso un futuro prossimo di spopolamento. Non è nemmeno l’islam, in Sardegna largamente minoritario. Evocare a questo proposito la minaccia araba e saracena dei secoli passati è una sciocchezza dovuta non solo al razzismo ma anche all’ignoranza. Se è per quello, ci sono stati nella nostra storia momenti difficili in cui con l’islam i Sardi avevano raggiunto una tregua (e forse anche una alleanza), per esempio tra VIII e IX secolo. Sappiamo bene che qualsiasi problema creato nel corso del tempo dalle scorribande dei mori (spesso guidate da sardi, per altro) è niente in confronto ai guasti prodotti dalle classi dominanti di turno, compresa quella attuale.
La desertificazione culturale e l’ostinazione con cui la si persegue a livello politico non aiutano certo. Non è la cultura, a minacciarci, né la nostra né quella altrui. Caso mai la stupidità. Mi turba molto che in questi giorni in Sardegna vengano evocati maestri di pensiero equivoci come Oriana Fallaci o impresentabili cone Matteo Salvini. Abbiamo bisogno di questo? Di questo deve animarsi il nostro dibattito pubblico? Ricordiamoci che noi, prima di essere partecipi di un discorso razzista e di sopraffazione, ne siamo vittime. Questo dovrebbe esserci chiaro e dovrebbe anche insegnarci qualcosa.
Non c’è una sola ragione al mondo per cui la Sardegna debba essere una terra povera, spopolata e marginale. Se questa è la sua condizione, le cause sono storiche e storicamente determinabili. Se è vero che non esiste alcuna tara congenita, a spiegazione di questo stato di cose, non c’è però neanche una generica minaccia esterna ai nostri danni. Se pensassimo un po’ meno ai falsi bersagli additati da mass media e da gruppi di potere interessati e ci facessimo un bell’esame di coscienza quanto a ricerca di assistenzialismo, o di favori, quanto a noncuranza verso i nostri beni comuni, quanto a ignoranza di noi stessi, forse le cose per noi cambierebbero in meglio, senza bisogno di scomodare l’immigrazione, o l’islam, né Dio o chi per lui.
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L’importanza della luce quando siamo al buio
di Vanni Tola
“Se questo è un uomo”, già, se questo è un uomo. Come avrebbe commentato la strage di Parigi lo scrittore Primo Levi? Quali considerazioni avrebbe sviluppato sugli uomini che, in nome di Dio, hanno realizzato una strage di esseri umani per vendicare le offese al loro Profeta, realizzate con vignette satiriche? Se questo è un uomo. Come avrebbe descritto Primo Levi la barbarie di quei combattenti che, in nome della grandezza del loro Dio, hanno ripetutamente violato l’innocenza e l’integrità fisica di una bambina collocandole addosso un ordigno esplosivo per poi mandarla tra persone, anche esse innocenti, e farla esplodere come un pacco bomba, usando un telecomando? Che avranno pensato mentre, lontani dalla scena dell’attentato, la osservavano camminare verso i “nemici”? Che cosa le avranno raccontato per convincerla o indurla a recitare fino in fondo il terribile compito che le era stato assegnato? Che sensazioni avranno provato un attimo prima di attivare il comando elettronico che l’avrebbe ridotta in mille pezzi insieme a tante altre persone? E dopo, dopo, che sensazioni avranno provato? Si saranno sentiti eroi appagati per il loro eroico gesto o si saranno sentiti oppressi dal dubbio di aver compiuto una azione vigliacca quanto inutile e crudele? Non lo sapremo mai Primo Levi non c’è più. Nel cielo volano uccelli scuri, avvoltoi rapaci pronti a raccogliere brandelli di corpi innocenti per dare fiato ai loro propositi di guerre contro i diversi, guerre di “religione”, “guerre di civiltà”. Noi, i buoni, contro gli islamici, i cattivi. Niente di buono all’orizzonte. Dice una diciottenne Pakistana, il premio Nobel per la pace Malala Yousafzai, essa stessa vittima di un vile attentato degli estremisti islamici.
“Tutti ci rendiamo conto dell’importanza della luce quando ci troviamo al buio e tutti ci rendiamo conto dell’importanza della voce quando c`e il silenzio. Non odio neppure il Taliban che mi ha sparato. Anche se avessi una pistola in mano ed egli mi stesse davanti e stesse per spararmi, io non sparerei. Questa è la compassione che ho appreso da Mohamed, il profeta misericordioso, da Gesù Cristo e dal Buddha. Questo è il lascito che ho ricevuto da Martin Luther King, Nelson Mandela e Muhammed Ali Jinnah. Questa è la filosofia della non-violenza che ho appreso da Gandhi, Bacha Khan e Madre Teresa. E questo è il perdono che la mia anima mi dice: siate in pace e amatevi l’un l’altro. Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione ai mali del mondo. L’istruzione potrà salvare il mondo. I libri e le matite sono la nostra arma più formidabile, quella che potrà farci vincere la miseria e conquistare la pace”.
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“In Europa, per non dire dell’Italia, in questo momento c’è una deficienza paurosa di personale politico in grado di affrontare il problema. Qui non c’è un’Europa in guerra, ci sono conflitti da disinnescare anche con le armi dell’intelligenza. E con la consapevolezza che si tratta di un processo lungo, difficile, faticoso. Ma non c’è alternativa, altrimenti si va dritti verso quello scontro di civiltà a cui puntano proprio i terroristi” (Massimo Cacciari)
L’ambiguità delle piazze francesi
di Rossana Rossanda, su Sbilanciamoci.it
Non si possono portare avanti due politiche opposte – l’accarezzare vecchie e ingiustificabili tendenze coloniali e la difesa dei valori repubblicani – come ha fatto il governo socialista francese, nel tentativo di mettere in campo un diversivo allo scontento popolare in tema di diritti dei lavoratori e di politica economica
Le sole parole equilibrate nel diluvio di dichiarazioni di orrore e di angoscia anche della stampa italiana per l’assassinio dei disegnatori e del direttore di “Charlie Hebdo” le ha scritte Massimo Cacciari, riportando la questione alla sua dimensione temporale e politica. La grande emozione e protesta che ha subito riempito in modo spontaneo le piazze francesi non è mancata infatti di qualche ambiguità. Si è potuto manifestare legittimamente, e quasi accogliendo l’invito del presidente Holland, il rifiuto del fondamentalismo e la difesa della repubblica e il “no” ai problemi posti dalla grande immigrazione musulmana in Europa.
Facilitata in Francia dal troppo coltivato richiamo alla colonizzazione francese in Africa del Nord e nel Medio Oriente. Da molti decenni si è dimenticato che un accordo fra un alto funzionario inglese, Sykes, e uno francese, Picot, disegnò la spartizione dell’impero ottomano fra Francia e Gran Bretagna. La Gran Bretagna poi ha prevalso e ancora più recentemente hanno prevalso le politiche degli Stati Uniti. Ma le recenti scelte di Holland di intervento nel corno d’Africa e nell’Africa centrale hanno, senza volerlo, ripristinato l’immagine di una gloria coloniale che dà fiato a Marine Le Pen. Ugualmente le parole del presidente Holland subito dopo l’attentato, richiamando tutto il paese all’unità contro il terrorismo, sono parse legittimare la richiesta del Fronte nazionale di partecipare alla grande manifestazione ufficiale antifondamentalista di domenica prossima, che lo ha messo non poco in imbarazzo davanti allo slancio con il quale Marine Le Pen ha annunciato la sua partecipazione. Non si possono infatti portare avanti due politiche opposte – l’accarezzare vecchie e ingiustificabili tendenze coloniali e la difesa dei valori repubblicani – come ha fatto il governo socialista, nel tentativo di mettere in campo un diversivo allo scontento popolare in tema di diritti dei lavoratori e di politica economica.
Lo slogan “Je suis Charlie” manifestava efficacemente un appoggio a un giornale niente affatto di grandissima diffusione, che in generale non fa complimenti al Fronte Nazionale. Si può del resto discutere di un tema già volgarizzato in Italia come l’immunità politica della satira, oggi difesa apparentemente da tutti. Le famose vignette danesi contro Maometto sono state amplificate da Charlie Hebdo in un’accentuazione dell’ateismo fin troppo augurabile ma da non identificare col disprezzo di tutti i credenti: “Nel cesso tutte le religioni”, aveva scritto e pubblicato in prima pagina quel giornale. Alla incapacità della sinistra di portare argomenti laici alla ribalta dell’opinione pubblica, e di rispondere al richiamo oggi esercitato specie da alcuni monoteismi e dal buddismo, sia pure assai diversi, ha corrisposto l’indulgenza a forme facili di caricatura, che sicuramente hanno offeso i milioni di musulmani in Europa. Basti pensare a quale accoglienza avrebbero avuto se quelle vignette si fossero nominativamente applicate a Gesù Cristo. Non penso che sia utile lasciare ai caricaturisti un compito che per loro natura, volendo irridere a tutte le fedi, non possono esercitare: è come se gettassero un fiammifero in un barile di benzina. È proprio la debolezza della sinistra del dopo il 1989 a produrre questa rinascita in forza delle religioni.
Per quanto riguarda quella musulmana, come non chiedersi perché il suo fondamentalismo – che pareva essere escluso da una organizzazione non piramidale delle sue chiese – sia scoppiato in queste forme mortifere, particolarmente oggi. Maometto esiste dal Settimo secolo e da allora in poi l’atteggiamento dell’impero ottomano, per esempio nei confronti degli ebrei, è stato di gran lunga più tollerante e tendente all’assimilazione di quello della chiesa cattolica, che ha voluto le crociate e lo ha investito di maledizioni e improperi, senza che questi portassero a nessuna Jihad, anzi, il famoso “feroce Saladino” era un interessante pacifista. L’estremismo dell’ammazzare tutti i non fedeli al profeta appartiene ai nostri giorni, ed è molto più serio cercarne le origini nelle forme coloniali e non coloniali adottate dall’Occidente che in un passo o l’altro del Corano.
Un fenomeno non meno importante riguarda il fascino che forme estreme di milizia, che arrivano fino al mettere in conto la propria morte per “martirio”, abbiano sui giovanissimi occidentali che raggiungono la Siria o altri luoghi dove possono arruolarsi con i maestri del fondamentalismo. La tanto conclamata fine delle ideologie sembra aver lasciato in piedi soltanto l’assolutismo di alcune minoranze musulmane, come appunto la Jihad e in modo particolare il recente Daesh, cioè lo Stato islamico rappresentato dal cosiddetto Califfato di al Baghdadi.
Da noi già appare la voglia di condannare i rappers che sembrano ispirarsene: errore dal quale bisognerà guardarsi. Insomma, il fascino dell’islamismo radicale corrisponde alla stupidità con la quale la cultura predominante in Occidente sembra trattare il bisogno di un “senso” non riducibile ai soldi che gli aspetti ideologici della globalizzazione hanno tentato di offuscare dalle parti nostre. Grande problema del nostro tempo che è inutile esorcizzare.
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- Leggi i commenti; qui ne riportiamo solo uno (di Salvatore Annunziata)
Io vivo in Francia e mi occupo di disagio giovanile ad Avignone. L’articolo di Rossana Rossanda lo considero come il frutto di una persona colta, molto sensibile che legge quanto sta accadendo in Francia da mercoledi scorso con lenti inadeguate. In effetti è verissimo che chi ha decimato la redazione di Charlie Hebdo (che qui è vissuto come il residuo più autentico del maggio ’68) e assalito il supermarcato kascher è il frutto del passato coloniale della Francia e del fatto che la Francia, in quanto sistema paese, non ha acora fatto i conti col proprio passato di potenza coloniale. Potremmo dire che la Francia rapresenta, dal almeno due secoli e forse più, il paradosso già incarnato dalla civilissima ed europeissima Atene di Pericle, vale a dire paladina delle libertà e della democrazia per quelli civilizzati e l’esclusione, la schiavitù, la carità, la messa sotto curatela per quanti (e quante) considerati barbari (i popoli colonizzati) o inferiori (le donne e i minori). Allo stesso tempo però mi sembra che la Rossanda dimentichi un piccolo particolare e cioè che qui in Francia la gente “normale”, come me e qualche milione di persone, rischia di ritrovarsi stretta tra dei fascisti barbuti che non mangiano prodotti derivati da carne di maiale, che abbinano ostracismo verso la musica ma utilizzano internet e i GPS e che si dicono veri seguaci del Profeta e degli altri fascisti per lo più bianchi, che loro invece lo mangiano e lo amano il maiale (al punto di portare in piazza delle teste – vere o finte poco importa – alle manifestazioni), che negano la shoah, che gridano “la France aux français”, che si battono contro l’islamisazione dell’Europa. In breve, se vogliamo utilizzare come paragone quello che è successo nelle terre della morta Federazione Yugoslavia, potremmo dire che qui rischaimo di ritrovarci circondati tra Ustacha e Cetnici.
La grossa sfida che ci attende tutti e tutte, non solo in Francia ma in tutti i paesi europei, è di dare nuova linfa alla democrazia, all’accolgienza, al rispetto dell’alterità propria e altrui. Insomma, ci tocca fare la messa a punto del nostro referenziale culturale avendo come bussola non delle ideologie scollegate dalla vita, dalla storia di ognuno di noi, bensi la dichiarazione universale dei diritti umani secondo cui, art.1, ogni essere umano nasce uguale in diginità e diritti. Ecco i valori che dobbiano, con qualunque mezzo coerente a quest’obiettivo, promuovere e difendere.
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Strage Charlie Hebdo, Cacciari: “Politica di accoglienza o avremo il conflitto in Europa”
di Rodolfo Sala su Repubblica.it
MILANO – “I fatti orrendi di Parigi dovrebbero imporre a tutti noi di ragionare alla grande, ma in questo clima sono in pochi a ragionare, soprattutto in Italia. Il livello del dibattito è deprimente”. Lo dice il filosofo Massimo Cacciari.
E quale sarebbe, professore, la prima riflessione da fare?
“Negli ultimi venti-trent’anni abbiamo vissuto tutti nell’illusione che la storia potesse in qualche modo cancellare la propria dimensione tragica. Che la nostra Penisola potesse restare fuori dalle trasformazioni epocali che hanno rivoluzionato la geopolitica e prodotto una serie di conflitti (Afghanistan, Iraq, la questione irrisolta dei rapporti tra Israele e palestinesi) che anche per colpa dell’Occidente restano pesantemente irrisolti”.
Risultato?
“Vedo un rischio terribile e concreto. Il rischio di una guerra civile in Europa. Mi spiego: dobbiamo tenere presente che nel 2050 la metà della popolazione del nostro continente sarà di origine extracomunitaria, quindi è impensabile ritenerci in guerra, noi europei, con l’altra parte, con il mondo islamico. Per questo dico che bisogna ragionare alla grande. Il problema è con chi”.
A che cosa allude?
“In Europa, per non dire dell’Italia, in questo momento c’è una deficienza paurosa di personale politico in grado di affrontare il problema. Qui non c’è un’Europa in guerra, ci sono conflitti da disinnescare anche con le armi dell’intelligenza. E con la consapevolezza che si tratta di un processo lungo, difficile, faticoso. Ma non c’è alternativa, altrimenti si va dritti verso quello scontro di civiltà a cui puntano proprio i terroristi”.
Le armi dell’intelligenza, lei dice…
“Certo. Se durante il secondo conflitto mondiale ci fosse stato solo il generale Patton, e non anche la lungimiranza di leader come Churchill e Roosevelt, avrebbe vinto Hitler. Affontare il problema solo dal lato della semplice repressione non basta, non può bastare. Anche se questi islamisti hanno compiuto un indiscutibile salto di qualità”.
In che senso?
“Non siamo in presenza del kamikaze solitario, della bomba anonima. Le azioni come quella di Parigi sono programmate con una logica militare che punta, voglio ripeterlo, allo scontro di civiltà”.
Quindi?
“Fino a quando la nostra democrazia non dimostrerà di essere accogliente, e continuerà con le disuguaglianze, questo tipo di terrorismo troverà sempre terreno favorevole. Sullo scenario europeo, ora si pensa di far fuori la Grecia, mentre si allargano i confini dell’Unione alla Lituania: è pazzesco”.
Ma i toni salgono, Salvini dice che siamo in guerra…
“Una battuta che si commenta da sé, sotto il profilo culturale. Sarebbe un errore madornale additare nell’Islam il nemico, il modo per moltiplicare gli jihadisti”.
Aggiunge che il Papa non deve dialogare con l’Islam…
“Figuriamoci che cosa importa al Pontefice delle parole di Salvini. Che insieme alla Le Pen sta facendo di tutto per ostacolare il dialogo. Se si votasse domani la Lega e il Front national prenderebbero una valanga di voti. Sarebbe pericolosissimo, allora sì che saremmo in guerra. Certo, poi occorre realismo “.
E cioè?
“Riconoscere che fino a quando non sarà abbattuto lo Stato islamico dobbiamo aspettarci il peggio. Ma lo si abbatte solo se non si invoca il conflitto di civiltà. Purtroppo quando la storia appare tragica si fa molto fatica a ragionare. È del tutto logico, e porta anche voti: ma è anche pericolosissimo. Bisognerebbe fare un grande sforzo a partire da noi italiani, non credo sia inutile. In fin dei conti, con la storia che abbiamo, dovremmo essere vaccinati. Anche se adesso non pare così”.
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