Il conflitto di civiltà è dentro di noi
La strage dei giornalisti e dipendenti di Charlie Hebdo ci interroga tutti e non solo sul supposto conflitto di civiltà tra l’Occidente e l’Islam. Di quella sparatoria non si conoscono ancora le ragioni profonde, forse non basta il colonialismo occidentale, il Medio Oriente è in fiamme dallo sterminio degli armeni del 1915, non basta la radicalizzazione di certo Islam politico e la spinta messianica che lo attraversa.
Non bastano perché, questa volta, come nel 1939 sono in gioco i nostri valori, il desiderio di vedere realizzata una società includente con pari diritti per tutti, libertà politiche e di fede garantite. Non basta perché l’attacco al Charlie è la cifra di una società che da sempre pencola tra oscurantismo e laicità. Tra libertà ed integralismo. I cittadini europei considerano chiuse le guerre di religione con la pace di Vestfalia del 1648, anche se la guerra jugoslava degli anni Novanta ha avuto anche aspetti di scontro tra cattolici e ortodossi, tra cristiani e mussulmani. La nostra laicità è figlia della riforma protestante e della rivoluzione francese.
Una libertà difficile, per dirla con Emanuel Lévinas. Uno scontro mai sopito tra diritti ed obblighi, tra la libertà di critica e di satira e rispetto per le fedi altrui. Basti ricordare il pregiudizio antiebraico, o quello reciproco tra cristiani di diversa confessione. L’illuminismo ha portato con sé la critica feconda sia dell’autorità religiosa che di quella monarchica. La caduta del principio di autorità ha permesso confutazioni prima impensabili. La secolarizzazione ha fatto il resto, nessuno può sottrarsi al diritto di critica e allo sberleffo altrui.
Oggi non è che con l’Islam europeo il panorama sia cambiato. No, si ripropone solo in maniera più virulenta. La modernità e le integrazioni labili favoriscono sensibilità che rivelano debolezze reciproche. Sono deboli gli occidentali impauriti da una diversità che non riconoscono ad altri, lo sono gli altri per i medesimi motivi. Uno scontro che in fin dei conti ha come oggetto quello che siamo, le nostre identità le appartenenze di gruppo e quello che vorremmo essere. Tante sono le domande che ci si pongono.
Si può irridere tutto, senza curarsi che quella parola o quel disegno provochino sofferenze in altri, in ciò che loro credono, del proprio stile di vita? Siamo sufficientemente liberi e nello stesso tempo accorti nell’accettare tutto, o c’è qualcosa che può fare scattare in noi una reazione forte ed inconsulta? La società americana aveva trovato la risposta con il politicamente corretto, una formula che garantisca la libertà di pensiero ma allo stesso tempo sia rispettosa delle diversità culturali e religiose. Non sempre però ci si riesce, il permanere del razzismo negli Usa è misura di come sia difficile contemplare entrambi gli atteggiamenti. In Europa dopo il 7 di gennaio parigino siamo di nuovo in mezzo al guado, dobbiamo trovare nuove modalità di confronto che contemplino la libertà di critica e sberleffo e allo stesso tempo non mortifichino ed offendano le credenze altrui.
È la sfida dei nostri tempi. Diritti, libertà e democrazia non sono acquisiti per sempre, sono conquista quotidiana difficile, ancor di più in tempi di confronti che diventano sempre più militari. Lo sottolinea Sandro Magister nel suo blog riportando un intervento del presidente egiziano Abdel Fattah El Sissi, tenuto il 3 di gennaio nella università di Al Azar, il “Vaticano sunnita”, davanti ai massimi esponenti di quella confessione: «Il mondo musulmano non può più essere percepito come “fonte di ansia, pericolo, morte e distruzione per il resto dell’umanità”. E le guide religiose dell’islam devono “uscire da loro stesse” e favorire una “rivoluzione religiosa” per sradicare il fanatismo e rimpiazzarlo con una “visione più illuminata del mondo”. Se non lo faranno, si assumeranno “davanti a Dio” la responsabilità per aver portato la comunità musulmana su cammini di rovina»
Noi non possiamo immaginare il nostro rapporto con l’Islam in termini di scontro violento, ma anche loro debbono smettere di desiderare che il resto del mondo si uniformi alle loro credenze. Lo diceva El Sissi nel discorso citato. Una mia amica mi raccontava di un ricercatore afghano che l’anno scorso frequentò un master di dottorato a Sassari. Alla sua domanda su come l’esperienza sassarese avesse influito su di lui, Abdullah rispose: “Non si può attraversare due volte lo stesso fiume, perché sei cambiato nel viaggio e perché l’acqua non è più la stessa”.
In questi anni abbiamo attraversato fiumi, la nostra società europea non è più la stessa dei nostri genitori e padri. Siamo già cambiati, il conflitto dentro di noi è quello antico con modalità nuove. Anche questa volta ce la faremo.
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* Da Sardegnasoprattutto
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La mattanza di Parigi: sacrosanta la condanna, e poi?
Andrea Pubusa **
Di fronte agli assassinii di Parigi viene anzitutto alla mente la viltà dei massacratori: una cosa è un’azione di guerra fra soggetti in guerra, altra la mattanza di persone inermi, colte alla sprovvista nella loro quotidianità. E non ci sono parole per la condanna. Non c’è causa che giustifichi queste azioni. Ma su questo molto si legge sulla stampa di tutte le tendenze, tanto si vede in TV. E poco o niente c’è da aggiungere.
Viene invece alla memoria la campagna scellerata, dopo l’attacco alle Torri gemelle, di George W. Bush e di Dick Cheney, col consenso di tutti i governi occidentali, che ha portato in breve tempo alla invasione dell’Irak. Giuliano Ferrara in un fondo dell’Unione sarda la assume a modello del trattamento ordinario verso gli islamici. Ma oggi chiunque abbia un barlume di ragionevolezza e di onestà intellettuale dovrebbe ammettere che si trattò di un madornale errore, di un’azione ingiustificata e, in fondo, suicida.
Saddam non era certo uno stinco di santo né un campione di democrazia, era tuttavia un laico che aveva, se non creato, ereditato e mantenuto un equilibrio fra le diverse componenti religiose, tant’è che il vice-presidente Tariq Aziz, venuto anche in visita in Italia e in Vaticano, era un cattolico-copto. D’altronde la dimensione non confessionale del partito Baath, di cui Saddam era in qualche modo erede, è sottolineata proprio dalla disomogeneità religiosa dei tre fondatori: alawita al-Arsūzī, cristiano ortodosso ʿAflaq e musulmano sunnita al-Bīṭār così come Akram el-Hurānī che più tardi raggiungerà il gruppo e sarà il promotore dell’aggiunta dell’aggettivo “socialista”. Saddam era, dunque, un esponente di quella generazione di politici del Baath, partito panarabo e con dimensione sovranazionale (Siria, Irak, Giordania), che, nel nome del nazionalismo arabo, hanno creato forse gli unici governi laici possibili a quelle latitudini e in quei contesti. Lo stesso dicasi per Gheddafi in Libia e Mubarak in Egitto. Certamente si tratta di regimi assai lontani dal modello angossassone o da quello europeo continentale d’occidente nato dalla Resistenza al nazifascismo, e sono sistemi distanti anche dalla prospettiva originaria del nazionalismo panarabo, ma è il sistema meno dannoso in quei contesti. Contrariamente a quanto dice Giuliano Ferrara e chi la pensa come lui, il moto pacifista e antiinvasione che si sviluppò allora e che aveva in prima fila Papa Wojtyla e tutto il mondo cattolico non era mosso da una subalternità al mondo arabo, ma, esattamente all’opposto, mirava ad un confronto e ad un rapporto fondato sull’interesse reciproco. E anzitutto quel movimento partiva da una verità evidente fin d’allora, e cioé che Saddam non c’entrava nell’attacco alle Torri e che a tutto pensava fuorché a mettersi in guerra con gli States. Saddam tutto era fuorché ingenuo e ben sapeva che da uno scontro militare con gli USA non poteva uscirne vincitore nè vivo.
L’attacco all’Irak e la destabilizzazione della Libia e del mondo arabo non hanno dato un plus di democrazia, com’era facilmente prevedibile, ma hanno aperto le porte ad un estremismo di cui i fatti di Parigi sono l’espressione più barbara e tragica. In Egitto si è evitato il peggio perché c’è un esercito forte, che ha ripreso in mano la situazione in sostanziale continuità col regime precedente.
Pertanto, la condanna per il massacro di Parigi è ovvia e istintiva, ma occorre la politica. E certo le posizioni estremiste alla Giuliano Ferrara non possono portare a nulla di buono come è insufficiente un approccio semplicemente repressivo. Il bandolo della matassa sta nella soluzione dei temi destabilizzanti del mondo arabo, a partire dalla questione palestinese che eliminerebbe un fattore di instabilità e di scontro permanente. Da lì poi occorrerebbe ripartire per una ricomposizione, puntando sui paesi di quell’area che hanno mantenuto una loro stabilità interna, a prescindere dal loro tasso democratico certo molto vicino allo zero. E’ un’opera immane. Gli equilibri per quanto insoddisfacenti una volta spezzati sono di ardua ricomposizione. L’unica cosa certa in tutto questo è che dalla violenza nasce violenza in una spirale senza fine e senza limite, e che la ricomposizione richiede fermezza, ma anche rispetto. Parigi, dopo la naturale condanna dell’eccidio, richiede sopratutto iniziativa politica e intelligenza, molta intelligenza.
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** da Democraziaoggi
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( Dichiarazione universale dei diritti umani )
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