Cosa ci aspetta?
La storia sarda? Interrata. Abrasa.
di Francesco Casula
Gaspare Barbiellini Amidei, già brillante editorialista del Corriere della Sera, nel 1971 scrive un suggestivo saggio: Il minusvalore. In esso sostiene la tesi secondo la quale gli uomini ricchi rubano da sempre agli altri uomini la loro fatica, pagandola con il salario che è soltanto una parte del valore dei loro prodotti. Il resto (plus valore e dunque profitto) va ad accumulare altra ricchezza. Marx smascherò questo furto e le magiche parole della religione, della morale, della cultura e del prestigio che avevano coperto per millenni il plus valore. Ma gli uomini ricchi non rubano solo fatica agli altri uomini ma anche memoria, storia, lingua, cultura: minusvalore, appunto, di qui il titolo dell’opera. Che è l’altra faccia dello sfruttamento denunciato da Marx con il plus valore. Il che non significa – precisa l’autore – andare contro Marx, ma aggiungere a Marx qualcosa in più. Ebbene, mi piace applicare tale tesi agli Stati ufficiali, che fin dalla loro nascita rubano alle piccole patrie, alle nazionalità oppresse o comunque non riconosciute, ai popoli marginali, non solo fatica, lavoro e salario – attraverso il colonialismo interno – ma anche memoria, cultura, identità e storia. Questa tesi ben si attaglia ai Sardi: depredati e deprivati nella loro storia non solo a livello materiale (risorse, materie prime) ma anche a livello immateriale (cultura, lingua e storia soprattutto).
Succede così che in pieno Ottocento a Pietro Martini – uno dei padri della storiografia sarda – intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere dalle autorità governative piemontesi che “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”. Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post-unitaria: del Ministro Casati (1859) come di Correnti (1867) e di Coppino (1887). I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional-statale o statalista che dir si voglia e italocentrica, sarebbero finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno “spirito nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico sociale composita ed estremamente differenziata sul piano storico, culturale e linguistico. Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione” dell’intera storia italiana.
L’idiosincrasia – uso volutamente un termine eufemistico – nei confronti di tutto ciò che è locale, nel nostro caso di tutto ciò che è sardo, sia essa la storia che la lingua, continuerà abbondantemente anche dopo la guerra. Con una impostazione pedagogica, didattica e culturale tutta giocata sulla proibizione, cancellazione e potatura della storia locale, ma lo stesso discorso vale per la cultura e la lingua sarda. Che ha prodotto effetti devastanti negli studenti e nei giovani in genere, in modo particolare attraverso la smemorizzazione. Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significativa dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per Ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel meraviglioso codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi dalla Scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Ma c’è di più: una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le “grandi civiltà” avrebbero voluto irradiare verso le “civiltà inferiori”, ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Appiattiti e omologati nell’alimentazione come nell’abbigliamento, nei gusti come nei consumi, nei miti come nei modelli. Di tale appiattimento, una delle cause fondamentali è sicuramente la mancanza di memoria storica. Mi piace a questo proposito citare quanto sostiene, Umberto Eco nel suo monumentale romanzo L’Isola del giorno prima: “ Io sono memoria di tutti i miei momenti passati, la somma di tutto ciò che ricordo”. O l’afgano Khaled Hosseini, nel suo primo romanzo di grande successo Il cacciatore di aquiloni, “Non è vero come dicono molti che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente”.
A significare cioè che l’individuo esiste e ha una sua identità in quanto possiede la memoria storica. Recisa ed estinta questa, sia come singoli che come comunità, saremmo semplicemente omologati, soggetti e comunità indifferenziate, senza la ricchezza delle specificità culturali e storiche.
Eppure la scuola italiana, dopo interi secoli di vera e propria insofferenza nei confronti della “storia locale” avrebbe dovuto imparare dalla Francia e da storici come Marc Bloch, Lucien le Febvre (con la creazione nel 1929 degli Annales) e Fernand Braudel, la cui storiografia rifiuta la storia come grande evento politico-militare, rivalutando la storia locale che si pone anzi come “laboratorio“ della nuova concezione storiografica secondo la quale non vi è una gerarchia di rilevanza fra storia locale e storia generale. Superando così il paradigma storiografico secondo il quale solo la “storia generale” è degna di essere studiata. Per cui la nuova storia aperta e senza barriere disciplinari, è capace di valorizzare la vita degli uomini nel tempo e nello spazio, indagando a tutto campo: dalla cantina al solaio.
————————-
L’illustrazione a corredo dell’articolo di Francesco Casula è il bozzetto per un manifesto eseguito per la FIM Sarda, divenuto poi il “simbolo” dell’organizzazione. Anno 1979 . Grafica Licia e Barbara Lisei, f.to 50×70 (Da “Frammenti di storia sui muri” di Maria Teresa Arba e Carla Sbaraglia Violo, GIA Editrice Cagliari, nov 1985).
—————————————————-
Epifanie nucleari per la Sardegna o forse no
di Nicolò Migheli *
La carte secretate sano già state consegnate al governo. L’Italia, anche in virtù delle direttive Ue, dovrà costruire un deposito unico per le scorie nucleari a bassa intensità che perderanno le loro radiazioni dopo tre secoli. Per quelle più pericolose, attive per milioni di anni, paesi come l’Italia potranno consorziarsi con altri; è probabile quindi che quelle scorie verranno depositate all’estero. Oggi ci sono circa 90 mila tonnellate di materiali provenienti da centrali, industrie, centri di ricerca, cliniche mediche e centri di analisi, che dovranno essere smaltite.
Scorie destinate ad aumentare nei prossimi anni. Il sito previsto avrà una dimensione pari ad un campo di calcio e una profondità di un palazzo di cinque piani. Il suo costo è preventivato in 2,6 miliardi di euro, che dovranno essere recuperati dalla bolletta elettrica. Lo smantellamento delle centrali, ha un costo previsto di 6,7 miliardi di euro. Intorno al deposito verrà costruito un parco tecnologico specializzato nello smantellamento nucleare. Mille persone tra occupati diretti ed indiretti ipotizzati. Impieghi molto specializzati con una forte presenza di ricercatori. Secondo l’IEA, l’agenzia internazionale sull’energia, ad oggi nel mondo ci sono 147 reattori in fase di fermata. Dei 434 reattori attivi a fine 2013, 200 dovranno essere smantellati entro il 2040.
Un affare da 100 miliardi di dollari. In realtà saranno molti di più perché nell’industria atomica, come in quella militare, l’aumento dei costi in corso d’opera è una costante. L’Italia, proprio per essere stata uno dei primi paesi ad aver rinunciato al nucleare, si trova in posizione di vantaggio. L’immenso mercato che si apre potrebbe vedere l’industria italiana protagonista. Una delle tante ragioni che spingono alla realizzazione del deposito unico. Nonostante non si conoscano le localizzazioni, c’è il sospetto che il sito prescelto possa essere in Sardegna.
Le condizioni vi sarebbero tutte. Un territorio vasto e poco popolato controllabile militarmente, l’indice di sismicità tra i più bassi d’Europa ed una popolazione che soffre di una disoccupazione di lunga durata che ha già accettato nel proprio territorio industrie inquinanti. Ultimo, ma non meno importante, la presenza dell’Università. Un bel regalo che ufficialmente nessuno vuole. La giunta regionale, per bocca dell’Assessora dell’Ambiente dichiara che la Sardegna, con la più alta concentrazione di servitù militari d’Italia, ha già dato. Si preannunciano manifestazioni e movimenti di protesta nel caso il sito scelto sia nella nostra isola. Ancora una volta, però, si pone il vero discrimine per le popolazioni che abitano questo scoglio mediterraneo. Se ci si definisce italiani se ne devono accettare anche le conseguenze.
L’interesse nazionale dell’Italia indica la Sardegna come luogo ideale? Se ci si sente italiani, perché dire di no? Se quel sito non lo si vuole, si cade in una banale sindrome Nimby: non nel mio giardino. Sono favorevole solo a goderne i vantaggi e non a pagarne il prezzo. Diverso è se la si vede come interesse nazionale dei sardi. Ogni vertenza assume un altro spessore. Tutto si tiene. L’isola tubo di scappamento del motore milanese, buona per essere depredata di ogni risorsa, terreno vile da bombardare, da piantumare con canne e cardi; sardi a cui negare persino la loro autonomia.
Se il governo regionale eviterà, come sta già facendo, di aprire una vertenza complessiva con Roma, si finirà che a pezzi e scampoli vinceranno loro. È sempre stato così. Questa volta in riva al Tevere non si vedono galantuomini a cui basta una stretta di mano, sempre che ci siano mai stati. In Viale Trento ne sanno qualcosa delle promesse non mantenute dai ministeriali. Forse però non sarà così. Il sito unico si presenta come uno degli affari più importanti di questo secolo e forse anche dei prossimi due. Di conseguenza è pensabile che non sarà la Sardegna il luogo, vorranno tenersi i loro lucrosi ricavi altrove.
È una speranza flebile, probabilmente destinata ad essere cancellata nel giro di qualche mese. L’averla scampata, se sarà così, non ci autorizza ad evitare la domanda delle domande: i nostri interessi coincidono sempre con quelli dell’Italia? Auguri a tutti noi per il 2015.
——————-
* Epifanie nucleari per la Sardegna o forse no [di Nicolò Migheli]
By sardegnasoprattutto / 4 gennaio 2015/ Società & Politica/
——————————————————————–
L’augurio di Orsina? Un 2015 di scelte dolorose
di Gonario Francesco Sedda *
Un intellettuale organico del potere non manca all’appuntamento di un bilancio per l’anno in uscita e di una previsione per l’anno in arrivo. E Giovanni Orsina non ha voluto fare eccezione [La sfida del premier per il 2015, La Stampa, 30 dicembre 2014]. Le parole con le quali costruisce il suo discorso talvolta suonano più che significare – o meglio, sembrano suggerire un significato senza escludere che ne abbiano un altro; talvolta sono decontestualizzate quanto basta e addomesticate per servire allo scopo. Il nostro editorialista non vuole essere un “rozzo” propagandista, ma un commentatore “indipendente” ed equilibrato. E sa essere persino critico, ma di una criticità come espediente retorico per rendere meno sospetta, più “disinteressata” e quindi più forte la sua adesione alle articolazioni del pensiero dominante. Insomma non si sottrae all’obbligo – per dirla con parole di Eduardo De Filippo – di «legare l’asino dove vuole il padrone».
Secondo G. Orsina non è possibile la soluzione dei “nostri problemi” prescindendo dalla ricostruzione dell’assetto politico e istituzionale. E sarà dalla riforma del “bicameralismo”, dall’adozione di un nuovo “sistema elettorale” e dall’elezione del Capo dello Stato che si potrà capire se il 2015 sarà l’anno in cui si comincerà a uscire dalla “crisi istituzionale” e a riavviare il Paese alla “normalità”.
Nessuno si distragga e veda nell’evocazione dei “nostri problemi” un richiamo ai problemi di tutti; nella riforma del “bicameralismo” il superamento del bicameralismo perfetto evitando il “bicameralismo scemo” proposto dal governo di M. Renzi; nell’adozione di un nuovo “sistema elettorale” un equilibrio tra rappresentatività e governabilità; nell’elezione del Capo dello Stato quella di un vero garante della Costituzione dopo nove anni di manomissioni formali e di fatto.
Il ritorno alla “normalità” dovrebbe assicurare governi con una «robusta legittimazione elettorale», grazie a una legge truffaldina che trasformerebbe una “minoranza di elettori” prima in una minoranza elettorale più grande e poi in una eccessiva maggioranza parlamentare (anche per l’effetto aggiuntivo di una estesa astensione dal voto); governi con «maggioranze parlamentari ampie, stabili e omogenee», cioè “minoranze bulgare” sfacciatamente chiamate “maggioranze ampie” senza una vera opposizione; governi «capaci di attuare le decisioni» con un “bicameralismo scemo” in stato forzato di “fiducia permanente” e che abbiano «la forza di imporre scelte dolorose».
Il nostro dotto asinaio sa dove «legare l’asino» e avverte che non è possibile «rimettersi in carreggiata senza che nessuno paghi il minimo prezzo». Nessuno proprio no. Il blocco sociale dominante costruito attorno all’oligarchia industrial-finanziaria per troppo tempo ha portato con lodevole “responsabilità nazionale” il fardello di un benessere “popolare” al di sopra di ogni possibilità. Il “popolo delle cicale” è avvertito: basta, dobbiamo rimetterci in carreggiata! La ricreazione è finita. Che il 2015 finalmente sia l’anno delle «scelte dolorose»! Occorre restituire il maltolto. In fondo i salari, gli stipendi, le pensioni e l’assistenza non sono mai troppo scarsi: poco è sempre meglio di nulla. E un lavoro purchessia è sempre meglio della disoccupazione. Bisogna pur avere il coraggio e l’orgoglio di una politica antipopolare in tempo reale e all’altezza dei promettenti e cinguettanti sviluppi della tecnologia globalizzata!
Secondo G. Orsina non è tollerabile che «la spending review si [sia] inabissata», che «il taglio delle partecipate [sia] ancora di là da venire» e che «il Jobs Act non si [applichi] al pubblico impiego». Ma tutto ciò (e altro) si inquadra tra i molti limiti dell’azione che il governo di M. Renzi ha svolto finora. E comunque non bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca. Mostrare i limiti di ieri non vuol dire spegnere le speranze per il futuro.
Rispetto alla fine del 2013 (un anno fa) l’Italia può ora contare su una risorsa in più: «La risorsa in più, piaccia o non piaccia, è Matteo Renzi. L’uomo ha non pochi difetti. [… E tuttavia] ha avuto un merito indiscutibile: ha restituito un baricentro a un sistema politico […]. Questa sua virtù è più importante di tutti i suoi demeriti». Giovanni Orsina sa quel che dice. In altra occasione (dopo le elezioni europee del 2014) ho scritto che il blocco sociale dominante in Italia aveva un nuovo cavallo di razza su cui puntare, un campione molto insidioso e difficile da battere, esente da bolsaggine e col respiro resistente delle oligarchie liberal-tecnocratiche europee. Eccolo ancora qui il cavallo della scuderia “Rinascita democratica” di Licio Gelli, coccolato dai costruttori di egemonia arruolati nell’apparato ideologico del potere. Il nostro equilibrato, spassionato e generoso editorialista non si risparmia neppure la confessione di un peccato pregresso, cioè di essere stato scettico nei confronti di M. Renzi: «Retrospettivamente, anche chi all’epoca era scettico (Renzi direbbe gufo), come chi scrive, deve riconoscere che la decisione di sostituirsi a Letta a Palazzo Chigi si è dimostrata giusta». E aggiunge: «Almeno finora». Tuttavia non solo e non tanto per manifestare una tipica cautela da intellettuale, ma per minacciare: “Attento! Sei sotto sorveglianza della Grande Confraternita degli editorialisti della Grande Redazione del Potere”.
Tutto lascia sperare che se fin dai primi mesi del 2015 si avvierà la «ricostruzione dell’assetto politico e istituzionale» anche la perdita di quella risorsa decisiva che è stato Giorgio Napolitano nell’ascesa di M. Renzi possa essere superata senza danno. Conclude G. Orsina: «Per qualche tempo Renzi volteggerà sul filo senza la rete del Quirinale. Riuscendo a non cadere, dovrà ricostruirsi lui stesso una rete nuova – un nuovo Capo dello Stato, un nuovo sistema elettorale, un nuovo assetto istituzionale. Sperare che il presidente del Consiglio cada dal filo, o anche cercare di spingerlo giù, è del tutto legittimo. Quel che non è legittimo però, di fronte al Paese, è farlo senza avere la più pallida idea di che cosa debba venire dopo». Non deve sorprendere che questo intellettuale liberale proponga un “riassetto democratico” che si ispira senza soluzione di continuità al breznevismo, al regime tardo-sovietico e alla “democrazia” post-sovietica russa. Infatti il M. Renzi che dovrebbe «ricostruirsi lui stesso» … un nuovo Capo dello Stato, un nuovo sistema elettorale, un nuovo assetto istituzionale, invece che assomigliare a un P. Calamandrei o a un A. De Gasperi o addirittura a un A. Fanfani sarebbe tale e quale V. Putin.
È sperabile che l’attuale Presidente del Consiglio cada dal filo quanto prima ed è anche doveroso cercare di spingerlo giù. Ed è anche legittimo, dice Giovanni Orsina. Neppure lui sa cosa debba venire dopo, se M. Renzi cadesse. Ma ci ha detto che cosa ci aspetta, se non cadesse: «scelte dolorose». Altre cannonate antipopolari dopo le politiche “lagrime e sangue” degli ultimi decenni.
————————-
* anche su Democraziaoggi
——————————————————–
A ritmo di tweet
di Raffaele Deidda *
Matteo Renzi ha iniziato l’anno “cinguettando” su Twitter. Ha rivendicato i risultati del suo governo in 10 mesi: Jobs Act e Riforma Costituzionale. Ha distribuito pillole di ottimismo per il 2015: “Costituzione, legge elettorale, fisco, giustizia civile, PA, cultura-scuola-Rai, GreenAct, lavoro. Facciamo sul serio, sarà un #Buon2015“. Nella conferenza stampa di fine anno, ha detto: “La parola del 2015 è ritmo, l’Italia deve tornare a correre”.
L’ottimismo di Renzi sta nel pensare che gli italiani possano credere che il 2015 sia quello della svolta per un’Italia fotografata a tinte fosche dal Censis a dicembre scorso. Più cupa quella presentata, sempre a dicembre, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro che nel Global Wage Report, annuale dossier sui livelli salariali del mondo, evidenzia la profonda crisi dell’Italia. Tra 2007 e 2013, il guadagno mensile medio di un italiano è sceso da un valore pari a circa 100 a 94. Un dato inquietante se si pensa che in Portogallo la media si attesta a 103, in Irlanda a 98, in Spagna a 96. Germania e Francia, reduci dalla peggiore crisi economica, hanno riposizionato i salari ai livelli precedenti la crisi.
La CNA conferma che sono 17,3 milioni gli italiani in condizione di disagio, a rischio di esclusione sociale. Cifra maggiore di Germania, Regno Unito, Spagna, Francia. Nell’UE, peggio dell’Italia sta la Grecia, dove i poveri o quasi poveri sono il 35%. Confindustria rileva che nei primi 9 mesi del 2014, nel Sud hanno chiuso 88mila imprese al ritmo di 326 al giorno. A rendere ancora più cupa la fotografia ci pensa l’Istat che rileva come l’indice del clima di fiducia dei consumatori sia sceso a 99,7 dal 100,2 tra novembre e dicembre.
Per l’Osservatorio Nazionale Federconsumatori, i consumi delle famiglie sono scesi del -10,7%, con una contrazione di 78 miliardi. Diminuiscono i consumi alimentari e le spese sanitarie dal 2008 ad oggi di -11,6% e -23,1%. La contrazione aumenta a fine anno con Imu, Tasi, Tari, riscaldamento. Una spesa media di 894 Euro con un potere di acquisto diminuito del -13,4% dal 2008.
Per le Associazioni dei Consumatori è improcrastinabile la ripartenza dell’occupazione, non solo per dare reddito e prospettive a milioni di disoccupati ma per alleggerire il carico sulle famiglie, costrette a mantenere con le pensioni di genitori e nonni i giovani senza lavoro. Invitano il governo a reperire risorse con la lotta a sprechi e privilegi e con la vendita del 20% delle riserve auree.
Il #Buon2015 sarà propedeutico alla strategia renziana, condivisa da una maggioranza atipica, di far cambiare “pelle” all’Italia entro il marzo 2017, nel rispetto del timing dei 1000 giorni, quando la recessione sarà un ricordo e la ripresa realtà? Si rischia di passare per gufi e rosiconi se si coltivano dubbi su ciò che i tweets del premier fanno calare come risultati probabili se non certi? E’ legittimo pensare che non siano sufficienti gli slogan per determinare un’ inversione di tendenza e che gli ottimismi di comodo convincono sempre meno? E’ finito il 2014, ennesimo “annus orribilis”, e gli italiani vedono nel 2015 un peggioramento delle loro condizioni.
Avremo a breve, un nuovo presidente della Repubblica. Non si sa se avremo anche un nuovo governo e un nuovo parlamento. L’attuale non rappresenta gli elettori ed il corrente esecutivo è il terzo nato fuori del voto. I partiti sono cambiati, i loro programmi modificati, l’opposizione formale, le nuove alleanze possibili attendono la legge elettorale, forse frutto di scambi poco nobili.
E allora come e quando si uscirà dalla crisi con un parlamento debole, un governo che spesso smentisce se stesso e che cala su un paese disperato un decreto fiscale dopo l’altro? Lo diranno, ex post, Censis, Oil, Istat, Cna, Onf se le ricette renziane avranno funzionato o meno. C’è da sperare che per L’Italia non sia troppo tardi.
——————-
* A ritmo di tweet [di Raffaele Deidda] su SardegnaSoprattutto
—————————————
- Povera patria
———————————————–
- Nelle illustrazioni superiori: 1) Manifesto in occasione dell’assemblea dei delegati FLM del 15 dicembre 1978 (Collettivo Arti Grafiche, grafica Licia Lisei); 2) spari di cannone: 3) strumenti like Picasso
——————————————————-
ALTRE DIVAGAZIONI più o meno in tema
——————————————————-
Lascia un Commento