in giro con la lampada di aladin…
– l’economia
Nuova politica industriale partendo da veri manager.
Andrea Saba su La Nuova Sardegna
- crisi e lavoro
La solitudine della classe operaia abbandonata dalla politica.
Gianni Fresu, su La Nuova Sardegna.
- La cosa giusta per ragioni sbagliate.
Omar Onnis su SardegnaMondo
- Che guaio i politici senza cultura. Da Gramsci a Moro, da Croce a La Malfa, in Italia gli intellettuali sono stati alla guida dei partiti. Da vent’anni questo non è più vero. Imperano demagogia e populismo. Che inquinano e deformano la democrazia
Eugenio Scalfari su L’Espresso
l’economia
Nuova politica industriale
partendo da veri manager
Andrea Saba su La Nuova Sardegna
Non basta la semplice erogazione di capitali, il governo ripristini la legge Sabatini se vuole ridare slancio alle imprese che sono in grado di espandersi
Certo, il debito pubblico è troppo alto e se non si taglia la spesa pubblica improduttiva – ed è tanta – non ne usciamo, ma gli istituti come S&P sull’Italia non ci azzeccano mai perchè usano coefficienti statistici di valutazione che sono stati modulati sulla economia americana che è totalmente diversa. Nel 1995, durante una conferenza alla Colombia Univ. di New York, il prestigioso istituto americano Imd Institute for Management and Development, aveva classificato l’Italia al 32° posto nella produttività, nello stesso anno l’Ocse ci aveva collocato al quarto posto fra i paesi industriali del mondo. La cosa era evidentemente incompatibile, ma i dati dell’Ocse non si potevano smentire ed i responsabili degli studi americani, ai quali sottoposi una serie di quesiti sulle loro metodologie, mi farfugliarono alcune penose giustificazioni prive di una qualsiasi giustificazione scientifica. Misuravano la produttività in base alla dimensione dell’impresa o alla sua quotazione in borsa; tutte cose estranee all’industria italiana che vince soprattutto con la alta qualità dei prodotti. Per questo, se il paesaggio politico-morale fosse un poco migliore, non mi preoccuperei delle valutazioni degli istituti di rating americani: diano piuttosto un voto alla polizia del loro civilissimo paese. Dopo aver reso più flessibile il lavoro, ora il governo si appresta ad una nuova ed interessante politica industriale. Si progetta un intervento della Cassa Depositi e Prestiti nell’acquisto di quote di capitale di alcune imprese in crisi ed altri interventi utili al rilancio degli investimenti. L’esperienza dell’Iri dopo la crisi del ’29 era stata considerata una delle migliori soluzioni a livello mondiale ed era ancora studiata nelle migliori università (vedi Cambridge). L’Iri poi era degenerata creando non pochi danni. Bisogna essere molto prudenti per evitare vicende come quella dell’Efim, e anche dell’Iri stessa che, dopo essere stata protagonista della ricostruzione e del miracolo italiano, aveva attivato partecipazioni ridicole nel settore dei panettoni, delle merendine e simili. Per valutare l’utilità della nuova esperienza affidata alla Cdp è necessario avere un quadro generale della situazione industriale e, credo, il primo punto da considerare sia l’attivo delle esportazioni. Le piccole imprese, i distretti stanno giocando un ruolo positivo e quindi, come prima scelta di politica industriale, rimetterei in vigore la legge Sabatini che consente l’acquisto di macchinari in un arco quinquennale con un tasso di credito di favore. È una legge ottima che ha avuto un ruolo decisivo, sotto la guida del Mediocredito Centrale di G.F. Imperatori, nella affermazione dei distretti industriali e del settore delle macchine utensili (l’Italia è da decenni il terzo produttore mondiale di questo prodotto fondamentale). Questa parte dell’industria è in fase di espansione nonostante la crisi: potenziarla sarebbe una scelta ottima. Per la partecipazione al capitale vanno considerati i beni-base come l’acciaio e quindi Taranto, alcune imprese che sono state protagoniste del “made in Italy “ come Natuzzi (divani e divani) che dopo anni di straordinari successi, si trova in difficoltà, ma intorno a lui si articola tutto il distretto lucano-pugliese che merita di essere aiutato. Ma queste scelte hanno bisogno di essere affidate a managers di alto livello. La scelta di Guerra, ex ceo di Luxottica, sarebbe ottima, del resto l’Iri, nel momento del suo massimo successo, aveva attivato una scuola di formazione manageriale fra le migliori del mondo. La Cdp dovrebbe valutare questa possibilità perchè il processo di innovazione, e quindi di management moderno, è la condizione essenziale per una politica industriale. La sola erogazione di capitali non è sufficiente.
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- crisi e lavoro
La solitudine della classe operaia abbandonata dalla politica.
Gianni Fresu, su La Nuova Sardegna.
La cronaca socio economica della nostra regione è quotidianamente segnata dalle vertenze del mondo del lavoro, nelle quali ha modo di manifestarsi l’agonia apparentemente irreversibile del suo superstite apparato produttivo industriale. Dalle miniere al tessile, dal siderurgico al pretrolchimico, praticamente non esiste comparto esente dallo stillicidio delle chiusure, con relative procedure di mobilità, ammortizzatori sociali e licenziamenti. Tuttavia, non intendo addentrarmi sul fenomeno della desertificazione industriale dell’isola, ma soffermarmi sulla condizione di solitudine vissuta dai soggetti che in primo luogo subiscono gli effetti di questo sgretolamento economico produttivo, costretti a forme di lotta sempre più disperate per attirare l’attenzione. Nella realtà sarda di oggi quanto resta della vecchia classe operaia si trova nella peggior condizione oggettiva e soggettiva di sempre dal suo sorgere, perché non solo subisce da decenni un processo di ridimensionamento strutturale, ma vive un drammatico isolamento politico. Per un verso, gli apostoli delle leggi di mercato la definiscono un residuo storico del Novecento, sopravvissuto solo grazie all’assistenzialismo statale e dunque ne affermano l’inutilità. Per un altro, quel che resta della sinistra, insieme a una visione del mondo organica e coerente incentrata sul conflitto capitale-lavoro sembra aver smarrito anche una precisa idea dei suoi referenti sociali, dunque di fronte alla crisi in corso si limita a portare una solidarietà inane ai lavoratori, molto prossima a quella delle autorità ecclesiastiche. Infine, gli orientamenti impegnati nel rivendicare l’universo ideale della cosiddetta “sardità”, sovente prigionieri di una visione romantica “dei bei tempi andati”. Buona parte di loro, non tutti per carità, guarda con indifferenza se non proprio con malcelato disprezzo questo mondo, quasi che, nel suo storico farsi “classe in sé”, gli operai abbiano incarnato il tradimento di civiltà degli “originali” rapporti produttivi sardi. Qualcosa di molto simile all’approccio dei populisti (portatori anch’essi di una ideologia imperniata sulla mistica della piccola proprietà contadina) verso la nascente classe operaia russa di fine Ottocento. L’attuale solitudine della classe operaia sarda è drammatica, in sé persino più grave del suo disarmo strutturale, determinato dall’insieme combinato di due fattori dal pesante carico distruttivo: la tendenza storica alla delocalizzazione nella produzione industriale; la crisi organica dell’economia del capitalismo mondiale, dunque le ristrutturazioni da essa generate. Insomma, non solo la classe operaia sarda sembra destinata a non avere più una progenie, non ha nemmeno padri. Ciò accade non solo nel mondo politico, ma anche negli ambienti incensati dell’Accademia, un tempo guida dei cambiamenti storici e ora rimorchio della più spicciola cronaca politica. Non è un caso se gli studi di uno storico di grande levatura come Girolamo Sotgiu, sulla nascita del movimento operaio sardo, siano praticamente dimenticati. Eppure il comparire del movimento operaio nella nostra regione, a partire dalla costruzione delle strade ferrate nell’Ottocento, ha rappresentato un indubbio progresso in termini di soggettività sociale e politica, ha favorito l’uscita da una storica condizione di subalternità per fasce significative di masse popolari sarde, superando la illusoria rappresentazione del fantomatico “popolo sardo unito” (senza distinzione tra sfruttatori e sfruttati, dirigenti e diretti) oggi invece tornata prepotentemente di moda. Forse proprio in ciò bisogna rintracciare la convinzione secondo cui i mali del cosiddetto popolo sardo (povertà, arretratezza e sfruttamento) sarebbero una conseguenza della sua misconosciuta dimensione nazionale, anziché il frutto delle contraddizioni nei rapporti sociali di produzione in cui esso si situa.
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La cosa giusta per ragioni sbagliate
di Omar Onnis su SardegnaMondo
Lo sciopero generale di oggi assume un carattere altamente paradossale, se guardato dalla Sardegna, sia per ragioni che attengono allo sciopero in sé sia per ragioni di contesto.
È evidente che chiamare allo sciopero tutti i lavoratori solo dopo che le misure più ostili e problematiche sono state varate dal parlamento e dal governo di Roma non è esattamente una mossa intelligente. Sa un po’ di cerchiobbottismo furbesco: facciamo sfogare un po’ i lavoratori (che ne hanno ben donde), ma non intralciamo davvero le scelte governative. Altra cosa sarebbe stata chiamare alla mobilitazione prima che le misure peggiori fossero approvate, in modo da far pesare la volontà del mondo del lavoro, esercitando una pressione sulla sfera politica. Le commistioni quasi incestuose tra sindacati e governo hanno fatto propendere per questa soluzione cervellotica.
Ciò porta dritti dritti al primo nodo: se lo sciopero riuscirà, non avrà sostanzialmente alcun effetto pratico; se non riuscirà, darà al governo italiano il destro per proseguire serenamente sulla strada della normalizzazione reazionaria e classista che ne è la cifra politica.
A tale paradosso generale, nella situazione sarda se ne aggiungono altri, pesantissimi. Uno potrebbe essere questo: la marginalità delle vertenze sarde rispetto agli interessi difesi dai sindacati nel contesto dello stato italiano, pur esssendo la Sardegna la terra da cui partì la prima mobilitazione generale italiana, dopo i fatti di Buggerru del settembre 1904. Ma questo appunto suona un po’ recriminatorio, ingenuo, inutile. La questione sostanziale è un’altra.
Pur tenendo doverosamente conto della funzione fondamentale esercitata dai sindacati anche in Sardegna, è palese che il loro ruolo, nel corso dei decenni, ha avuto un peso prevalentemente di segno conservatore, di garanzia dello status quo. Nessuna scelta strategica sulle risorse e sulle strutture produttive e sociali della Sardegna, negli ultimi cinquant’anni, ha mai visto i sindacati italiani schierarsi concretamente a favore di un percorso di emancipazione sociale, culturale e politica dei sardi. La retorica del Piano di Rinascita industriale è stata da essi sposata in pieno e anzi propagandata massicciamente presso i lavoratori. La capillare opera di desardizzazione avvenuta nel secondo dopoguerra ha avuto nei sindacati uno degli agenti più incisivi.
Persino quando è stato evidente che le scelte di politica economica erano votate al fallimento e che i problemi macroscopici dell’isola dovevano essere affrontati dentro una cornice propria, i sindacati confederali hanno continuato a difendere lo status quo. Questo, quanto a impostazione complessiva. Sappiamo bene poi che di fatto, a livello di categoria e a livello locale, si sono anche trasformati in una sorta di centro di potere complementare, di intermediario clientelare. È un dato di fatto che prescinde dalla qualità etica dei singoli sindacalisti e anche dal senso delle singole vertenze affrontate negli anni.
I sindacati confederali sono stati un freno all’acquisizione da parte del mondo del lavoro sardo di una visione matura dei propri problemi. Hanno incentivato l’affidamento, di natura dipendentista e subalterna, a scelte esterne e a interessi lontani (ricordiamoci delle fantomatiche telefonate a Putin e altri consimili episodi), hanno impedito il radicarsi di una visione strategica e sistemica nell’ambito del lavoro dipendente. Hanno garantito pieno appoggio alla politica dipendentista, anche nelle sue forme meno presentabili.
Oggi come oggi i sindacati confederali in Sardegna si trovano su posizioni coincidenti con quelle della Confindustria, della SARAS, dell’ENI e di tutti i più grandi centri di interesse e di potere che vedono l’isola come un mero oggetto economico e politico. Sono favorevoli alle trivellazioni, sono favorevoli alle chimiche verdi, sono ostili a qualsiasi programma di riconversione produttiva delle aree industriali e militari. Il che va direttamente a detrimento delle possibilità di sopravvivenza dei loro stessi iscritti, delle potenzialità di rilancio economico a medio e lungo termine di intere aree dell’isola, della maturazione di modelli produttivi rispondenti alle risorse e alle caratteristiche demografiche, ambientali e culturali della Sardegna.
Nel settore pubblico, poi, i sindacati sono uno dei più forti fattori di dipendentismo diffuso. Pensiamo al mondo della scuola o a quello dell’impiego amministrativo. Anche qui è come se avesse definitivamente prevalso una sorta di infantilismo patologico, che fa sempre preferire l’apparente vantaggio immediato a qualsiasi conquista strutturale nel futuro. Probabilmente qualcosa sta cambiando, qualche segnale c’è. Vedremo presto di che portata sarà questo cambiamento e come si manifesterà.
A fare un bilancio oggi delle varie vertenze industriali aperte negli ultimi anni (a Portovesme, nel comparto minerario, a Ottana, a Porto Torres, a Villacidro) ci si ritrova davanti a un panorama di sconfitte. Sconfitte tanto più drammatiche in quanto nel frattempo non si è nemmeno cercato un piano B, un’opzione di riserva. Il che sarebbe stato il minimo. Ora, a parte esprimere tutta la solidarietà e la vicinanza del caso alle donne dell’IGEA come agli operai della Vinyls o della Legler, bisogna incoraggiare tutti questi lavoratori a abbandonare la visione assistenziale della politica e a interiorizzare la necessità di un cambio di rotta radicale. Le misure di assistenza e di sostegno al reddito devono essere pretese e ottenute, ma come momentaneo ristoro, non come obiettivo tattico dentro un orizzonte di mantenimento dell’esistente. L’esistente non esiste più.
I destini del lavoro in Sardegna non possono più discendere da strategie ed interessi il cui baricentro stia altrove, né da improvvisazioni, illusioni, mancata valutazione delle dinamiche internazionali. Non solo, ma è anche doveroso pretendere dalla politica non promesse clientelari e soluzioni tampone (come si è fatto ancora pochi giorni fa in occasione della visita del sottosegretari Del Rio), ma una precisa progettazione di soluzioni strutturali, che coinvolgano direttamente i lavoratori non solo nelle loro fase realizzativa, ma prima di tutto nella fase della pianificazione. Ovviamente tutto ciò non si può chiedere alle forze politiche che hanno come unico e solo obiettivo il mantenimento della condizione di dipendenza dell’isola. Anche su questo il mondo del lavoro deve fare un riflessione seria, non più procrastinabile.
Detto ciò, va precisato che i buoni motivi per scioperare oggi ci sono e sono tanti e consistenti. Mi meraviglia anzi la condiscendenza con cui il mondo del lavoro in Italia ha subito in questi ultimi trent’anni lo spostamento netto di reddito e di vantaggi a favore della frazione più ricca della popolazione. In Italia e in Sardegna. La mobilitazione e il conflitto sociale sono ridicolmente sroporzionati, per difetto, rispetto ai reali sviluppi socio-economici in corso. I sindacati in questa drammatica incomprensione hanno una responsabilità enorme. In più, in Sardegna, ne hanno una storicamente ancora più grave: quella di essere stati, come evidenziato, un fortissimo fattore di dipendenza. Se non c’è dunque nessun buon motivo per non scendere in pazza, oggi e in altre circostanze, ce ne sono molti per maturare un approccio critico verso l’impostazione sindacale dominante e verso la politica sarda attuale.
Se non si raggiungerà al più presto la consapevolezza che occorre una visuale specifica sarda e una prospettiva di emancipzione reale del mondo del lavoro sull’isola, tra qualche anno non ci sarà più alcun mondo del lavoro da difendere, in Sardegna. La parte attiva e produttiva della nostra società deve prenderne atto e decidere cosa fare, a prescindere dalle sue articolazioni interne ed evitando l’ennesima “guerra tra poveri” (dipendenti pubblici contro dipendenti privati, lavoro dipendente contro lavoratori autonomi, autoctoni contro immigrati, ecc. ecc.). Non solo per sé, categoria per categoria, ma in un’ottica strategica generale. Ci si salva insieme, in Sardegna, o non si salva nessuno.
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Che guaio i politici senza cultura
Da Gramsci a Moro, da Croce a La Malfa, in Italia gli intellettuali sono stati alla guida dei partiti. Da vent’anni questo non è più vero. Imperano demagogia e populismo. Che inquinano e deformano la democrazia
Eugenio Scalfari su L’Espresso
Che guaio i politici senza cultura
Ho letto in questi giorni in vari giornali e riviste che gli intellettuali non ci sono più, sono scomparsi. Sia quelli che allora (parliamo del Novecento fino al suo ultimo decennio) venivano chiamati “organici” perché mettevano il loro cervello e i loro saperi al servizio del partito cui aderivano; sia gli “indifferenti” che non avevano alcuna passione e informazione sulla politica ma coltivavano le loro scienze. Adesso, da almeno 25 anni a dir poco, non ci sono più salvo alcuni molto vecchi, senza denti e in carrozzella, che pensano a tutt’altro che alla politica.
A me non sembra che le cose stiano così e neppure sono state così ai tempi nei quali gli italiani erano – come si dice ora – una vera e propria eccezione, a volte anche più di altri popoli.
Farò intanto una prima osservazione: gli italiani avrebbero messo i loro saperi al servizio d’un partito ma facevano parte, proprio per questa loro funzione, del gruppo dirigente di quel movimento politico, e spesso l’hanno diretto e talvolta l’hanno addirittura fondato.
La Democrazia cristiana nacque da una costola dei Popolari che erano stati un grande partito nato nel 1919 e il suo primo fondatore e leader fu Alcide De Gasperi che ai tempi di Roma occupata dai nazisti era stato ospitato in Vaticano e lavorava nella biblioteca di quell’istituzione religiosa. I cosiddetti “cavalli di razza” di quel partito che vennero subito dopo di lui erano intellettuali di professione come Fanfani, Dossetti, La Pira; Aldo Moro era un intellettuale al cento per cento e così pure Ciriaco De Mita dopo di lui.
Il Partito repubblicano ebbe per vent’anni e più la guida di Ugo La Malfa e, accanto a lui, di Bruno Visentini. Erano al tempo stesso politici e intellettuali, La Malfa veniva direttamente dal Partito d’Azione; Visentini oltre alla politica e alla finanza coltivava la pittura e la musica di cui era fervido amatore. Direi che l’ottanta per cento degli aderenti al Partito repubblicano erano persone di elevata cultura e intelletto e facevano parte di quello che allora si chiamava il notabilato nelle professioni libere, medici, avvocati, docenti universitari o delle scuole superiori. La politica tuttavia li intrigava fortemente e la praticavano in un partito che aveva pochi voti ma era molto qualificato. Il grosso quantitativo del partito era della Toscana e delle Romagne dove contendeva al Pci la guida della pubblica opinione e delle istituzioni locali. Quanto ai comunisti il loro vero partito cominciò al congresso di Lione dopo aver messo fuori gioco il massimalismo di Bordiga. A Lione nacque un Partito comunista moderno e italiano. Il congresso e il gruppo dirigente che ne uscì erano guidati da Gramsci, Togliatti, Terracini, e anni dopo affluirono in esso personaggi come Amendola, Ingrao, Tortorella, Macaluso, Reichlin, Tronti: persone diverse, di diverso sentire, ma tutte con una vasta cultura che discendeva da personaggi come Antonio Labriola, Giustino Fortunato, e perfino Benedetto Croce. Anche Enrico Berlinguer era un intellettuale e guidò il partito per molti anni fino alla sua prematura scomparsa. La nuova generazione che gli subentrò compì alcuni errori politici non lievi ma era comunque dotata di ampie letture e di interessi culturali. D’Alema fu uno di quelli e Veltroni anche di più poiché è stato giornalista, direttore de “l’Unità”, membro del miglior governo Prodi, ministro dei Beni culturali, sindaco di Roma per due mandati e coltiva cinema, scrive romanzi e memorie. Quanto al Partito d’Azione, quello fu addirittura il partito degli intellettuali e proprio per questo ebbe pochissima fortuna e non visse che una breve stagione per quanto riguarda la politica, ma la sua cultura politica è tuttora tra quelle più condivise e risale ai fratelli Rosselli, ad Ernesto Rossi, a Norberto Bobbio, a Colorni, a Salvemini e a molti altri. Dette il meglio di sé come cultura e il peggio del peggio come politica.
Infine le persone guida del Partito liberale furono nientemeno che Benedetto Croce e Luigi Einaudi. E il gruppo della sinistra di quel partito era formato da Mario Pannunzio, Leone Cattani, Nicolò Carandini, Cagli, Storoni, Ennio Flaiano, Vitaliano Brancati. Erano apolitici? Certo che no. La politica furono loro a guidarla e non ad esserne guidati, erano indipendenti? Se la parola è detta nel senso dell’indifferenza dalla politica, no, non erano affatto indifferenti. Erano semmai autoreferenti quanto si può nell’esercizio stesso del potere. Persone che servivano lo Stato e il Paese come furono poi Ciampi, Prodi, Valiani, e tanti altri.
Ma oggi? che succede oggi? Il politichese si è moltiplicato del mille per cento ed ha inquinato e deformato la democrazia italiana. Un altro fenomeno non inconsueto anzi frequente nella vita pubblica italiana è emerso da almeno vent’anni a modificare nel peggio la qualità della nostra convivenza sociale. Si chiama demagogia e ha come strumento il populismo. Dura a dir poco da vent’anni e tutto lascia presagire che ne durerà almeno altrettanti con i suoi nefasti effetti.
Quando la demagogia e il populismo imperano, allora sì la mancanza degli intellettuali risulta catastrofica. Non quando sono troppi ma quando non ce n’è più nessuno.
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