in giro con la lampada di aladin…

lampada aladin micromicroLa crisi della forma partito e il “romanzo criminale”.
Luciano Marrocu su La Nuova Sardegna
- “Senza il lavoro non c’è sinistra” di Paolo Ciofi (dal blog “Dalla parte del lavoro”, ripreso da Democraziaoggi)

La politica è incapace di valutare con strumenti suoi propri la correttezza delle sue procedure, oltreché la tenuta morale dei suoi attori
Si può partire da lontano, dalle sconsolate analisi di inizio Novecento che condannavano i partiti politici di massa, allora nascenti, al destino di cadere sotto il controllo di élites tutt’altro che disinteressate. Per poi arrivare d’un balzo alle cronache politico-affaristiche di oggi, con il loro caratteristico olezzo da “romanzo criminale”. Il tema è quello di una politica, quella locale soprattutto, che sembra aver perso ogni freno nella corsa ad accaparrarsi il denaro pubblico. È logico che i giornali si soffermino sull’intreccio romano, dai toni a volte grotteschi, di affarismo e corruzione. Anche se sembra più utile, se si vuol trarre una lezione dallo scandalo, cercare di comprendere i meccanismi che presiedono ai processi di selezione del personale politico. Che qualcosa di sbagliato devono pur avere, se poi vien fuori che nella capitale d’Italia il dilagare della corruzione non ha trovato resistenza altro che nel sindaco Marino. Non si tratta solo di constatare che i politici non sono angeli, non sono cioè, mediamente, né migliori né peggiori degli altri cittadini. Si tratta di vedere quali sono i percorsi di chi, attraverso la mediazione dei partiti, ha trovato un suo spazio e spesso fruttuose carriere all’interno delle assemblee rappresentative o nella vischiosa galassia fatta di organi di gestione di enti e di incarichi pubblici di varia natura. Che il piatto della spesa pubblica sia un piatto molto ricco è la prima ovvia constatazione, così come è ovvio che proprio questo fatto renda il “buttarsi in politica” particolarmente attraente per gli appetiti più voraci. Un passaggio illuminante nelle intercettazioni che hanno permesso di scoperchiare il cupolone mafioso romano è quello in cui uno dei capibastone confida a un collega di malaffare come l’assistenza ai Rom sia ben più redditizia del commercio di droga. Insomma gli interrogativi che il Paese si deve porre riguardano direttamente, senza infingimenti, la politica. Riguardano la sua incapacità di valutare con strumenti suoi propri – senza cioè attendere l’intervento della magistratura o dei carabinieri – la correttezza delle sue procedure, oltreché la tenuta morale dei suoi attori. Ciò che i partiti non sembrano più in grado di valutare (o comunque disposti a farlo) sono in particolare le forme di corruzione legate alla violazione dei principi democratici. Questo tipo di valutazioni, ben presenti nella discussione pubblica e negli editoriali dei quotidiani, sono infatti quasi del tutto assenti dalle sedi di discussione di partito, solitamente impegnate in un continuo sfibrante esercizio di divisione interna delle spoglie. Sembra del tutto evaporato, e comunque risulta muto e ininfluente, quello strato di militanti cosiddetti di base che, soprattutto nei partiti di sinistra, sapevano in altri tempi far sentire la loro voce. Due partiti, in continuità con questa tradizione hanno pensato di offrire alla propria base adeguati strumenti di partecipazione. Né il sistema attraverso cui si pronunciano in rete i militanti del Movimento 5Stelle, né le primarie del Pd, tuttavia, sembrano per ora capaci di surrogare quei legami collettivi, quel sentire comune, che rendono un partito qualcosa di più di un comitato elettorale. Le primarie del Pd, dimostratesi efficaci e democratiche in corrispondenza alle grandi scelte di portata nazionale, a livello locale hanno invece visto ricomparire le “truppe camellate” di antica memoria. Insomma, di fronte al dilagare della corruzione politica, non basta chiedere agli amministratori della cosa pubblica maggior parsimonia e trasparenza. È soprattutto alla “forma partito” che bisogna guardare.
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Il voto del 23 novembre: verso l’oligarchia
11 Dicembre 2014

Il lavoro prima di tutto
di Paolo Ciofi, sul blog “Dalla parte del lavoro”, ripreso da Democraziaoggi.

democraziaoggiPubblichiamo la prima parte, dedicata all’estendersi abnorme dell’astensionismo, di un ampia riflessione di Paolo Ciofi dal titolo “Senza il lavoro non c’è sinistra” (dal blog “Dalla parte del lavoro”).

1. Non sembra che nei gruppi dirigenti di quel che resta dei partiti, in particolare nel Pd, si sia aperta una approfondita riflessione sulla portata e sulle conseguenze dei risultati elettorali in Emilia-Romagna e in Calabria. Dell’arroganza proprietaria di Renzi che rasenta il bullismo (abbiamo vinto due a zero, tutto il resto è secondario) già molto è stato detto, e poco ci sarebbe da aggiungere. Ma una sottovalutazione grave della portata del voto emerge anche dalle affermazioni di Bersani, quando sostiene che il messaggio degli elettori sarebbe questo: «Restate lì. Noi […] ci siamo autosospesi ma non vogliamo andare da nessuna parte».
In altre parole si tratterebbe di una specie di congelamento del Pd, in attesa del ritorno di quelle brave persone che con il loro fallimento hanno partorito il renzismo. Strano che l’ex segretario non veda come in assenza di una credibile alternativa a sinistra gli elettori abbiano compiuto una precisa scelta politica, se è vero che il Partito democratico nella attuale versione leaderistica simil padronale perde in pochi mesi 680 mila voti in Emilia Romagna (dal 52 al 44 per cento) e 83 mila in Calabria (dal 36 al 24 per cento) rispetto alle elezioni europee del maggio scorso. Questa non è una pioggerella di novembre. È una slavina, precipitata nel corso di un processo che sta progressivamente logorando i fondamenti della democrazia rappresentativa.
Il 23 novembre la stragrande maggioranza degli italiani chiamati al voto ha detto in modo clamorosamente evidente che non si riconosce in nessuno dei partiti esistenti. In altri termini, l’intero sistema politico, nella sua attuale conformazione, è risultato inidoneo a rappresentare non una qualche minoranza marginale bensì la maggioranza assoluta nei territori in cui si è votato. Le motivazioni che hanno portato a tale stato delle cose sono diverse, compresa quella che è inutile andare a votare se al governo ci si va con un colpo di palazzo, come ha fatto l’uomo nuovo della politica italiana nel momento stesso in cui dichiarava il contrario.
Dunque, niente a che vedere con una presunta laicità del voto liberato delle vecchie appartenenze, come sostiene l’astuto commentatore del Corriere della sera che risponde al nome di Panebianco. Al contrario, il voto del 23 novembre è l’espressione massima del degrado di un sistema politico non più in condizioni di rappresentare la realtà del Paese, con la conseguenza di mettere in discussione l’architettura democratica costituzionale che definisce il patto tra gli italiani, al tempo stesso l’interesse generale e l’unità della nazione. E questo è un primo, inoppugnabile dato di fatto.
Si tratta di un processo che viene da lontano, ma questa è la misura del problema con il quale abbiamo a che fare. Oggi siamo in presenza di una crescente crisi democratica, che ha origine nello snaturamento della politica da mezzo per il cambiamento della società a tecnica per la conservazione dell’esistente, e quindi nella trasformazione dei partiti in pure macchine di potere. Uno stato delle cose che in assenza di una reale alternativa alimenta e moltiplica la corruzione e il crimine, il dilagare di fenomeni degenerativi tra pubblico e privato, la penetrazione di poteri mafiosi. Come ha messo in piena luce la drammatica inchiesta giudiziaria di Roma.
Il distacco dei partiti da una parte fondamentale della società fa sì che le elezioni in questa fase storica si vincono al ribasso: non con un aumento dei consensi, bensì con un loro costante decremento in termini assoluti. Si è determinata una situazione anomala, nella quale il costante ricorso a leggi elettorali maggioritarie che dovrebbero assicurare la cosiddetta governabilità aggrava il problema, trasformando le minoranze nella società in maggioranze nelle istituzioni. Con il risultato che i governi di ogni livello – locale, nazionale, sovranazionale – tendenzialmente si configurano ormai come governi di una minoranza, espressione della parte dominante della società, accentuando quindi il distacco tra governanti e governati, e trasformando di fatto la democrazia rappresentativa in una moderna oligarchia.

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