Cando si tenet su bentu Est prezisu bentulare
Tor Sapienza a Roma, Unica in Sardegna
di Salvatore Cubeddu
La storia della Sardegna non coincide con la storia dell’Italia. Nel passato, ma anche nell’oggi. Eppure tanti tra noi – soprattutto nelle città, specialmente nel capoluogo – si affaticano a farle coincidere, soprattutto importando dal Continente eventi e personaggi o evitando di offrire rilevanza a ciò che qui semplicemente succede. Ma, neanche questo è del tutto vero, non sempre. E vado sullo specifico.
I due quotidiani sardi lodevolmente hanno dato spazio alla vertenza dei 1634 ‘esuberi’ della Meridiana. Contemporaneamente i quotidiani italiani mettevano in rilievo la rivolta dei romani di Tor Sapienza contro gli extracomunitari alloggiati dal Comune nel loro quartiere. C’è pudore e paura ad ammetterlo, in Italia – e nella capitale della Chiesa cattolica di papa Francesco – questa settimana si è visto l’inizio di quanto finora abbiamo letto su Parigi e Londra, per non parlare degli USA: mobilitazioni urbane a sfondo razziale, seppure ancora non esplicitamente razziste (almeno nelle pubbliche dichiarazioni). E’ stata lanciata la pietra, difficile che altre non ne seguano la parabola. E la resa dei conti potrebbe risultare drammatica per tutti e dappertutto. Neanche noi rischiamo di fare eccezione.
Intanto, però, la nostra storia racconta la vicenda dei nostri emarginati che rifiutano di esserlo e fanno di tutto per unirsi e trovare comuni soluzioni. ‘Unica’ è il nome dell’iniziativa, a confermare che di tutti ed unitaria è la lotta per il lavoro. Mettendo insieme guidatori di aereo con guide di greggi, addette alle macchine tessili con aggraziate hostess, tute con casco sardizzato e magliette arancioni e blu. Uniti per non morire. Come i paesi di Oristano. Come la disastrata Olbia. Come la città di Nuoro e la sua provincia. E il Sulcis. Come, ma riguarda solo i credenti, il vecchio clero cattolico: non se ne parla, ma sarà il primo ceto sociale a ridursi drammaticamente, anche se non solo in Sardegna. Come … la speranza dei giovani. Allora: dobbiamo solo contemplare estinzioni o possiamo reagire?
E’ difficile pensare che Pigliaru e la sua giunta possano reggere il carico di questi problemi. Troppo annosi. Troppo a lungo trascurati. Troppo lontani dalla cultura prevalentemente economicista di chi soprattutto si è occupato di bilanci. E … con bilanci in rosso.
La Sardegna è lontana, Roma non vuole, non sa, non può agire in modo risolutivo a nostro favore. Roma non ci teme, si difende con il Tirreno. Continua a ‘servirsi’ delle nostre risorse per quanto può e glielo consentiamo.
Siamo costretti a fare da soli. Come nelle innumerevoli marce già conosciute (dalla prima – sa marcia de su trabagliu dei metalmeccanici sardi, del 6/7 dicembre 1979 – sono passati 35 anni!). Bisogna prendere atto che la vertenzialità paga sempre di meno e che bosogna passare alla sussidiarietà: ognuno, in quanto padrone e responsabile di se stesso deve fare tutto quello che può, per quello che deve. Poi, può pretendere e attendersi un sostegno.
A questo stadio di bisogno non devono accettarsi privilegi. Nuovi canoni di giustizia devono individuarsi nelle decisioni sulle pubbliche risorse. Non possiamo permettere che i beni comuni – a iniziare dalle risorse finanziarie della Regione – vengano accaparrate da singoli o piccoli gruppi, si tratti della città capoluogo o di personaggi e categorie privilegiate.
Dobbiamo re-iniziare. Avendo fatto esperienza di tante marcie, mettiamoci tutti in marcia.
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La lingua sarda racconta il mondo
di Francesco Casula
Uno noto storico sardo, Antonello Mattone dell’Università di Sassari, ha scritto: ” Sono d’accordo con certe forme moderate di bilinguismo, ma la lezione universitaria in sardo la trovo controproducente e ridicola. Oggi non avrebbe alcun senso utilizzare il Sardo come linguaggio scientifico, giacché esso nelle sue due grandi varianti, campidanese e logudorese, è una lingua di fatto rurale, che ha assimilato solo indirettamente i termini più propriamente legati alla vita e alla cultura cittadina”.
Si muove sullo stesso versante il linguista Alberto Sobrero, (in “Introduzione all’Italiano contemporaneo”, Ed. Laterza, 2 voll.). “E’ giusto – scrive – non dimenticare le lingua locali ma “sarebbe assurdo o, nella migliore delle ipotesi, comico, pensare di usare le parlate locali per la matematica, la fisica e la filosofia!”.
In altre parole, secondo i due illustri intellettuali, la lingua locale, in questo caso il Sardo, sarebbe incapace e inadatta a esprimere la cultura urbana e scientifica, la modernità, in quanto lingua arcaica, agro-pastorale, utile solo per raccontare contos de foghile.
Questa posizione nasce sostanzialmente da un pregiudizio: che la lingua sarda si sia “bloccata”, ovvero sia ancorata permanentemente alla sola tradizione agropastorale, e dunque sia incapace di esprimere la cultura moderna: da quella scientifica a quella tecnologica, dalla filosofia alla medicina, allo sport. I “nostri”, non fanno i conti con la “dinamicità” delle lingue e dunque anche di quella sarda: che non è un bronzetto nuragico ma cambia, muta e si modifica continuamente arricchendosi di nuovi lemmi. Così, termini e modi di dire dell’italiano. dovuti allo sviluppo culturale scientifico negli ultimi decenni, sono entrati nella lingua sarda, così come termini e modi di dire stranieri – soprattutto inglesi – sono entrati nella lingua italiana che li ha assimilati. Questo “scambio” (con accumuli, arricchimenti, contaminazioni) è una cosa normalissima e avviene in tutte le lingue. E tutti i sistemi linguistici, sia quelli di società “più avanzate”, scientificamente ed economicamente, sia di società “più arretrate”, sono in grado di esprimere i più moderni concetti e le più moderne e complesse teorie, prendendo in prestito terminologia e lessico da chi li possiede: come il contadino, che se ha finito l’acqua del proprio pozzo, l’attinge dal pozzo del vicino.
A rispondere a chi parla di “blocco” e di incapacità di alcune lingue a esprimere l’intero universo culturale moderno, sono due intellettuali e linguisti di prestigio. Scrive Sergio Salvi, gran conoscitore della Sardegna e delle minoranze etniche e linguistiche: “La rimozione del “blocco” è pienamente possibile. Farò soltanto l’esempio, così significativo ed eloquente, della lingua vietnamita, storicamente e politicamente dominata, fino a tempi recenti, prima dalla cinese e poi dal francese, una lingua che non solo ha brillantemente rimosso il proprio “blocco dialettale”, ma che, pur non possedendo ancora un completo vocabolario tecnico-scientifico, ha creato “una grande corrente di pensiero”, eppure settant’anni fa il vietnamita era soltanto un “dialetto” o meglio “un gruppo di dialetti”.
Mentre il più grande studioso di bilinguismo a base etnica, l’americano J. F. Fishman (In “Istruzione bilingue”, Ed. Minerva Italica, 1972) scrive:”Ogni e qualunque lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, qualsiasi lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Istruzione”.
A chi pensa che le lingue locali e native – e dunque per noi il Sardo – siano incapaci e inadatte a raccontare la “modernità” e la cultura “alta”, perché intrinsecamente povere e inadeguate, risponde in modo particolare un semiologo come Stefano Gensini (In “Elementi di storia linguistica italiana”, Minerva Italica, Bergamo 1983). Fra l’altro ricorda e cita Leibniz – filosofo e intellettuale tedesco – secondo cui non vi è lingua povera che non sia capace di parlare di tutto.
Ma rispondono soprattutto Ferdinand de Saussurre, il fondatore della linguistica moderna (In “Corso di linguistica generale”, Laterza, Bari,1983) e Ludwig Wittgenstein, autore in particolare di contributi di capitale importanza alla fondazione della logica e alla filosofia del linguaggio. in (In “Osservazioni filosofiche” Einaudi, Torino,1983).
Al di là comunque delle posizioni teoriche degli studiosi, la risposta più convincente la offrono gli scrittori che la lingua sarda oggi praticano e maneggiano, una lingua duttile che adattano ad ogni argomento e problematica: così Gianfranco Pintore nei suoi romanzi può indifferentemente parlare di telematica, cavi ottici, computer, energia atomica (in Su Zogu); come di centralismo e federalismo, autonomia e separatismo (in Morte de unu Presidente). Mentre Giampaolo Mura, docente di fisica all’Università di Cagliari (nel saggio Sa chistione mundiali de s’energhia) può tranquillamente disquisire di energia solare, eolica, nucleare, da biomassa e il poeta Franco Carlini (in S’Omine chi bendiat su tempus) può raccontare l’alienazione, la scissione dell’io, lo sdoppiamento della personalità, tutte problematiche moderne e che ricordano tanto sia Pirandello che Rimbaud (Je est un autre).
E un eccellente giornalista sportivo come Vittorio Sanna può commentare in Sardo le partite del Cagliari e sempre in Sardo giovani bilingui (unu Micheli Ladu est de Ollolai) possono condurre telegiornali in Tv locali come Videolina, raccontando la cronaca come gli avvenimenti politici.
Perché ogni lingua – sostiene Bachisio Bandinu, antropologo e gran conoscitore delle cose sarde – anche quella della più sperduta tribù africana, è in grado di raccontare il mondo. Immaginiamoci una lingua neolatina, come quella sarda, arricchita nei secoli dal greco-bizantino, l’arabo, il catalano, il castigliano, l’italiano e persino dal francese.
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