La lingua sarda racconta il mondo
Uno noto storico sardo, Antonello Mattone dell’Università di Sassari, ha scritto: ” Sono d’accordo con certe forme moderate di bilinguismo, ma la lezione universitaria in sardo la trovo controproducente e ridicola. Oggi non avrebbe alcun senso utilizzare il Sardo come linguaggio scientifico, giacché esso nelle sue due grandi varianti, campidanese e logudorese, è una lingua di fatto rurale, che ha assimilato solo indirettamente i termini più propriamente legati alla vita e alla cultura cittadina”.
Si muove sullo stesso versante il linguista Alberto Sobrero, (in “Introduzione all’Italiano contemporaneo”, Ed. Laterza, 2 voll.). “E’ giusto – scrive – non dimenticare le lingua locali ma “sarebbe assurdo o, nella migliore delle ipotesi, comico, pensare di usare le parlate locali per la matematica, la fisica e la filosofia!”.
In altre parole, secondo i due illustri intellettuali, la lingua locale, in questo caso il Sardo, sarebbe incapace e inadatta a esprimere la cultura urbana e scientifica, la modernità, in quanto lingua arcaica, agro-pastorale, utile solo per raccontare contos de foghile.
Questa posizione nasce sostanzialmente da un pregiudizio: che la lingua sarda si sia “bloccata”, ovvero sia ancorata permanentemente alla sola tradizione agropastorale, e dunque sia incapace di esprimere la cultura moderna: da quella scientifica a quella tecnologica, dalla filosofia alla medicina, allo sport. I “nostri”, non fanno i conti con la “dinamicità” delle lingue e dunque anche di quella sarda: che non è un bronzetto nuragico ma cambia, muta e si modifica continuamente arricchendosi di nuovi lemmi. Così, termini e modi di dire dell’italiano. dovuti allo sviluppo culturale scientifico negli ultimi decenni, sono entrati nella lingua sarda, così come termini e modi di dire stranieri – soprattutto inglesi – sono entrati nella lingua italiana che li ha assimilati. Questo “scambio” (con accumuli, arricchimenti, contaminazioni) è una cosa normalissima e avviene in tutte le lingue. E tutti i sistemi linguistici, sia quelli di società “più avanzate”, scientificamente ed economicamente, sia di società “più arretrate”, sono in grado di esprimere i più moderni concetti e le più moderne e complesse teorie, prendendo in prestito terminologia e lessico da chi li possiede: come il contadino, che se ha finito l’acqua del proprio pozzo, l’attinge dal pozzo del vicino.
A rispondere a chi parla di “blocco” e di incapacità di alcune lingue a esprimere l’intero universo culturale moderno, sono due intellettuali e linguisti di prestigio. Scrive Sergio Salvi, gran conoscitore della Sardegna e delle minoranze etniche e linguistiche: “La rimozione del “blocco” è pienamente possibile. Farò soltanto l’esempio, così significativo ed eloquente, della lingua vietnamita, storicamente e politicamente dominata, fino a tempi recenti, prima dalla cinese e poi dal francese, una lingua che non solo ha brillantemente rimosso il proprio “blocco dialettale”, ma che, pur non possedendo ancora un completo vocabolario tecnico-scientifico, ha creato “una grande corrente di pensiero”, eppure settant’anni fa il vietnamita era soltanto un “dialetto” o meglio “un gruppo di dialetti”.
Mentre il più grande studioso di bilinguismo a base etnica, l’americano J. F. Fishman (In “Istruzione bilingue”, Ed. Minerva Italica, 1972) scrive:”Ogni e qualunque lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, qualsiasi lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Istruzione”.
A chi pensa che le lingue locali e native – e dunque per noi il Sardo – siano incapaci e inadatte a raccontare la “modernità” e la cultura “alta”, perché intrinsecamente povere e inadeguate, risponde in modo particolare un semiologo come Stefano Gensini (In “Elementi di storia linguistica italiana”, Minerva Italica, Bergamo 1983). Fra l’altro ricorda e cita Leibniz – filosofo e intellettuale tedesco – secondo cui non vi è lingua povera che non sia capace di parlare di tutto.
Ma rispondono soprattutto Ferdinand de Saussurre, il fondatore della linguistica moderna (In “Corso di linguistica generale”, Laterza, Bari,1983) e Ludwig Wittgenstein, autore in particolare di contributi di capitale importanza alla fondazione della logica e alla filosofia del linguaggio. in (In “Osservazioni filosofiche” Einaudi, Torino,1983).
Al di là comunque delle posizioni teoriche degli studiosi, la risposta più convincente la offrono gli scrittori che la lingua sarda oggi praticano e maneggiano, una lingua duttile che adattano ad ogni argomento e problematica: così Gianfranco Pintore nei suoi romanzi può indifferentemente parlare di telematica, cavi ottici, computer, energia atomica (in Su Zogu); come di centralismo e federalismo, autonomia e separatismo (in Morte de unu Presidente). Mentre Giampaolo Mura, docente di fisica all’Università di Cagliari (nel saggio Sa chistione mundiali de s’energhia) può tranquillamente disquisire di energia solare, eolica, nucleare, da biomassa e il poeta Franco Carlini (in S’Omine chi bendiat su tempus) può raccontare l’alienazione, la scissione dell’io, lo sdoppiamento della personalità, tutte problematiche moderne e che ricordano tanto sia Pirandello che Rimbaud (Je est un autre).
E un eccellente giornalista sportivo come Vittorio Sanna può commentare in Sardo le partite del Cagliari e sempre in Sardo giovani bilingui (unu Micheli Ladu est de Ollolai) possono condurre telegiornali in Tv locali come Videolina, raccontando la cronaca come gli avvenimenti politici.
Perché ogni lingua – sostiene Bachisio Bandinu, antropologo e gran conoscitore delle cose sarde – anche quella della più sperduta tribù africana, è in grado di raccontare il mondo. Immaginiamoci una lingua neolatina, come quella sarda, arricchita nei secoli dal greco-bizantino, l’arabo, il catalano, il castigliano, l’italiano e persino dal francese.
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