Una nuova economia (Teoria e Prassi) di cui abbiamo necessità per non precipitare nel baratro

ape-innovativa2Riprendiamo da La Nuova Sardegna di sabato l’articolo di Andrea Saba perché esprime bene, seppure in estrema sintesi, il bisogno di nuova teoria economica, di cui abbiamo necessità per affrontare la crisi con strumenti nuovi che in certa parte sono già in attuazione, più o meno sperimentali, più o meno consolidati. Curioso che un valoroso docente universitario di economia (leggete il suo curriculum a fine pagina), recentemente pensionato ma ben presente nell’attualità del dibattito, dimostri una certa sfiducia sulla costruzione di modelli astratti che tanto affascinano molti suoi colleghi economisti-accademici, anche nostrani. Sostiene Saba che occorre cercare nuove strade di sviluppo dell’economia, attraverso modalità empiriche. Infatti dell’attuale situazione dice: “non è un problema che si risolve a tavolino o nelle aule universitarie: richiede una forma continua di “learning by doing”, cioè di apprendimento dalla esperienza, di cui i governanti, a tutti i livelli, dovrebbero tenere conto per formulare politiche opportune”. Ecco, nella proposta di tale approccio, che peraltro è quello della ricerca scientifica, ci sembra rinvenire un invito all’attenta lettura della realtà, all’ascolto delle persone e, quindi, all’impegno per costruire politiche economiche che sappiano aiutarci a navigare nella crisi e uscirne positivamente. A nostro avviso tutto ciò richiede un impegno più consistente e più esplicito degli intellettuali, riferendoci in modo particolare agli universitari. Più volte abbiamo richiesto che l’Università smettesse di chiedere cosa il Paese può fare per essa, cosa evidentemente legittima, ma più importante e urgente è chiedersi cosa l’Università può fare per il Paese e per la nostra Sardegna in particolare. Il metodo da seguire, quello che propone Saba, richiede un’Università che si approcci diversamente ai problemi dello sviluppo, che la smetta con la pratica dell’autoreferenzialità, che scenda dal ridicolo posizionamento della supponenza accademica e si renda aperta e disponibile. Qualcosa di diverso da quanto oggi succede, seppure non ignoriamo i numerosi fermenti innovativi che si agitano al suo interno e che speriamo diventino presto maggioritari, anche con il rinnovo della governance accademica. In tema: crediamo che occorra ormai ragionare come Università della Sardegna, senza annullare la storia dei due Atenei sardi, ma sapendo adeguare le Istituzioni alle nuove esigenze della Sardegna.

Tornando al tema della ricerca di nuove strade per l’economia, crediamo che occorra rafforzare l’impegno di studio, riflessione, così come indicato. Qualcosa evidentemente già si fa nel mondo come dalle nostre parti. Cogliamo al riguardo una certa consapevolezza che timidamente appare per esempio nella riflessione della Chiesa sarda sulle questioni del lavoro e dello sviluppo, recentemente palesatasi nel Convegno ecclesiale regionale, di cui abbiamo dato notizia e di cui pubblicizziamo i materiali, a partire dall’ottima relazione di Vittorio Pelligra. Come detto non vediamo un sufficiente impegno verso questa direzione dell’Accademia e neppure un collegamento e una forte collaborazione tra questa e le Istituzioni, Regione in primis. Forse di una spinta verso una maggiore presa di coscienza e sprone per impegno corale potrebbero farsi carico quegli intellettuali in servizio o in pensione che potrebbero dedicarsi a questa missione.
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Il lavoro in tempo di crisi: meno reddito, più libertà
di Andrea Saba, su La Nuova Sardegna di sabato 8 novembre 2014
La gente ha ridotto gli sprechi. L’occupazione può trovare un nuovo slancio nei consumi di servizi. La ripresa ha bisogno di nuovi contenuti
La crisi si trova davanti ad una contraddizione: da un lato sembra necessario ridurre gli sprechi che sono connaturati con un sistema basato sulla crescita continua di consumi spesso inutili; dall’altro è assolutamente necessario incrementare la domanda interna che contiene normalmente una quota di sprechi. Da un lato il Papa Francesco, l’Onu ed il buonsenso ci dicono che il pianeta rischia il collasso se non si pone un limite ai consumi dissennati, ma, dall’altro, sappiamo che senza un consistente aumento di domanda non ci può essere ripresa dell’economia e quindi dell’occupazione. Probabilmente, la gente negli anni della crisi ha ridotto prevalentemente proprio gli sprechi, stando attenti a risparmiare energia, acqua, non lasciando scadere i viveri ecc, cercando di fare in modo che in Italia non si buttino via beni alimentari che potrebbero nutrire in un anno 17 milioni di persone. La domanda globale deve crescere perchè è la variabile strategica per il rilancio degli investimenti, ma non può avere più la stessa composizione degli ultimi trenta anni. Il consumo di beni materiali deve progressivamente essere sostituito dal consumo di servizi. Ma questa sostituzione, che è già iniziata, richiede modifiche in tutto il sistema di vita, di educazione, di formazione e di convinzioni sociali. Stanno nascendo, in diverse parti del mondo industrializzato, forme contrattuali sul lavoro del tutto nuove in cui il lavoratore dipendente cede o una parte del salario o accetta condizioni estreme di lavoro (domenica, notte, ecc,) in cambio di un maggiore tempo libero. La progressiva diffusione delle ICT – information comunication technology – favorisce questo scambio. Meno lavoro, meno reddito, più libertà. L’occupazione può trovare un nuovo slancio nei consumi di servizi. Prendiamo il caso italiano della cultura. Abbiamo il maggiore patrimonio culturale del mondo; uno sfruttamento intelligente potrebbe produrre fiumi di capitali, ma richiede nuove forme di occupazione specialistica nel marketing culturale, nel restauro, nella manutenzione e sopratutto in tutte le nuove vie che consentono, attraverso l’uso di internet, nuove forme di utilizzo della cultura. Lo stesso vale per la gastronomia italiana: ho visitato un ex convento vicino a Tuscania dove hanno creato una scuola per allievi cuochi: erano iscritti 800 ragazzi stranieri che volevano imparare la cucina italiana, e tutte le pensioni e gli alloggi della zona lavoravano a tempo pieno. Nel contempo, segnali positivi vengono dai distretti specializzati nel made in Italy: quando si organizzano in forma di squadra, con una impresa leader che guida la diffusione internazionale, l’export cresce vistosamente. Ma c’è bisogno di bravi artigiani. Dunque la tendenza in atto è quella di sostituire il consumo banale con un uso più felice del tempo libero che domanda servizi nuovi che possono essere fonte di molte nuove forme di occupazione. Ma non è un problema che si risolve a tavolino o nelle aule universitarie: richiede una forma continua di “learning by doing”, cioè di apprendimento dalla esperienza, di cui i governanti, a tutti i livelli, dovrebbero tenere conto per formulare politiche opportune. Dalla crisi, come dopo una guerra, potrebbe nascere una forma di coesistenza civile meno banale e piatta della attuale. Un poco meno di reddito, meno consumi che ormai hanno anche stufato, più libertà, più cultura, sport, divertimento, ritorno a forme naturali di vita, viaggi e conoscenza, possono condurre verso forme di alto livello di occupazione che ormai non sono più recuperabili con la ripetizione del modello attuale che la crisi – che è un cambiamento epocale – sta spazzando via. La ripresa non basta, c’è bisogno di nuovi contenuti.

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