Matteo Renzi: l’Italia del rullino e quella del g…rullino
Dalla tolda il grullo capitan Matteo disse alla Polda: «Nel 2014 aggrapparsi ad una norma del 1970 che la sinistra di allora non votò è come prendere un I-phone e dire … “dove metto il gettone del telefono”? O una macchina digitale e metterci il rullino. È finita l’Italia del rullino». Fosse stato solo un episodio dello scontro all’interno del PD tra l’anemica minoranza liberaldemocratica (quasi) non-renziana e l’aggressiva maggioranza liberaldemocratica renziana, l’interesse per esso non sarebbe andato oltre la geopolitica, cioè il doveroso monitoraggio delle forze politiche in campo e il loro posizionamento nello scacchiere del confronto reciproco. E neppure avrei interesse a difendere la politica del PCI negli anni settanta, per il fatto che allora non ne facevo più parte a seguito dell’allontanamento (radiazione) del gruppo della rivista I l m a n i f e s t o ed ero impegnato assieme ad altri vecchi e giovani “rivoluzionari” alla costruzione del rispettivo movimento.
Il fatto è che il “Bomba” è compulsivamente “esagerato”, non si accontenta di sbaragliare la sua attuale “opposizione” interna. L’energico bambino quarantenne dilaga nel tempo e nello spazio per negare comunque qualsiasi possibilità di una opposizione alla sua politica che si spaccia (un gioco delle parti) come conflittuale nei confronti dell’oligarchia europea (politica, industriale e finanziaria), ma che in realtà esegue … “per i nostri figli” … i compiti dettati da quella stessa oligarchia.
Dire che la “sinistra” di allora “non votò” la legge 300 del 27 maggio 1970 [Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento] – e dunque neppure il suo art. 18 – sembra un semplice richiamo di un dato storico. Ma in realtà quel richiamo rimane sospeso in un atmosfera evocativa: è ambiguo, vago, confuso.
Anche a voler intendere che tale “sinistra” non votò … “a favore”, resterebbe comunque in ombra se abbia votato … “contro” oppure si sia … “astenuta”.
Il modo più appropriato per richiamare quel dato storico sarebbe stato dire che la “sinistra” di allora si era astenuta. Non aveva votato a favore della legge 300/1970 per quello che mancava, ma non aveva votato contro di essa per quello che c’era (compreso l’art. 18). Dunque l’astensione era dovuta anche alla presenza positiva dell’art. 18 e l’attuale difesa di esso non è affatto un cambiamento di opinione, ma la conferma di quello stesso apprezzamento positivo che aveva determinato l’astensione sull’intera legge invece che una sua totale bocciatura.
In quella legge, secondo la “sinistra” di allora (in particolare il PCI), mancavano due cose: la libertà “politica” nei luoghi di lavoro e l’estensione della tutela delle libertà anche alle imprese con meno di 15 dipendenti. Insomma, la Costituzione doveva entrare in “tutte” le fabbriche e non solo in una parte di esse e doveva entrare “tutta intera” e non dimezzata (solo come libertà sindacale e come generica libertà di opinione). E tuttavia ciò che della Costituzione entrava in una parte delle fabbriche era abbastanza importante da meritare un apprezzamento.
Ma il nostro “comunicatore persuasivo” – capace di vendere a un topolino di campagna una dentiera per cavalli – non si accontenta di suggerire qualche presunta incongruenza: vuole stendere qualsiasi oppositore sedicente di “sinistra” con l’arma letale dei suoi effetti speciali. Aggrapparsi a un rottame del 1970 è come pretendere di mettere un gettone in un I-Phone o un rullino in una macchina fotografica digitale. Buuummm!!!
Che dire di una simile grullaggine? Né il gettone telefonico né il rullino fotografico hanno un legame obbligato con l’art. 18: sono nati prima e sono vissuti per decenni “in assenza dell’articolo 18”. Non vi è dunque nessuna ragione forte per pretendere che, se l’I-Phone funziona senza gettone e la macchina digitale senza rullino, la scomparsa del gettone e del rullino debba essere seguita dalla scomparsa “solamente” dell’articolo 18. Con questa logica inconsistente ognuno potrebbe pretendere di far sparire qualcosa e persino spianare/asfaltare la storia dell’intera umanità in nome dell’ultimo prodotto tecnologico. Già quando si è cominciato a produrre le macchine a motore, si sarebbe potuto dire che aggrapparsi ai vecchi principi della Rivoluzione francese era come salire in macchina e dare colpi di frusta alla parte posteriore per farla partire. Era finito il mondo dei cavalli!
————
Anche su Democraziaoggi
———————————
Né tecnico né politico: Pigliaru in mezzo al guado (e la Sardegna impantanata)
di Vito Biolchini, su vitobiolchini.it
“Ma il presidente Pigliaru è un tecnico o un politico?”. Il mio amico, giornalista di una testata nazionale, arriva subito al cuore del problema. E davanti al suo quesito fatico dare una risposta univoca.
Un tecnico ha le idee chiare e per questo taglia di netto l’intricato nodo gordiano della realtà, assumendosi responsabilità pesanti che i politici fanno a gara a scansare. Il tecnico va dritto al cuore del problema, non guarda in faccia nessuno perché sa che con la sua azione non deve ricercare il proprio tornaconto elettorale: il tecnico entra in campo in situazioni eccezionali e poi si fa da parte, una sua ricandidatura è da escludere. Il tecnico ha già in mano tutti gli strumenti utili per operare e soprattutto per intervenire sulla realtà in tempi certi. I risultati della sua azione si vedono subito. Il tecnico è come un medico che interviene sul paziente in condizioni disperate. E se quest’ultimo non accetta le cure, il medico si fa da parte e amici come prima. La società non ha niente da dire al tecnico perché lui ha già studiato tutto e sa già come si fa. Per questo lo abbiamo chiamato.
E il politico? Il politico invece guarda soprattutto al contesto e lavora perché questo sia il più favorevole possibile alla sua azione. Il politico tiene conto dei vari rapporti di forza presenti nelle istituzioni e nella società, sa che il suo procedere avviene attraverso la nobile arte della mediazione e della composizione di interessi spesso contrastanti (se non opposti) tra di loro. Il politico gioca di sponda, perché ha in testa il “cosa” ma non il “come”. La politica per lui è un’arte, l’arte di interpretare i segni che arrivano della società. Il politico interpella continuamente la società, ovvero le parti di società di cui vuole rappresentare gli interessi. Il fallimento è il suo compagno di viaggio perché sbagliare strada è facile. Ma lui, in quanto politico, ci sarà sempre, a prescindere dai successi o dai tracolli elettorali. Il consenso per lui è tutto. Perché senza consenso non c’è azione politica.
Da questi ragionamenti abbastanza grezzi ne discende che se il tecnico chiamato a compiti di governo deve sostanzialmente fare lo sforzo di mettere le persone giuste al posto giusto oppure, se preferite, decidere quanti vagoni attaccare dietro alla locomotiva che il cammino è già segnato, il politico deve invece essenzialmente capire qual è il suo punto di partenza e dove vuole andare, per poi trovare, strada facendo, il suo percorso. Entrambe le azioni presuppongono una capacità intellettuale (cioè di comprensione della realtà) notevole: solo che nel primo caso essa precede l’azione, nel secondo invece è contemporanea all’azione stessa. Il tecnico è un orchestrale che legge lo spartito, il politico affronta una jam session perenne, un flusso continuo che si interrompe solo casualmente per poi ripartire subito dopo. Wiener Philarmoniker o John Coltrane Quartet? Fate voi (di sicuro sempre di “mostri” però stiamo parlando, di gente che uno strumento in mano lo sa prendere).
(Ora, più mi inoltro in queste distinzioni più mi accorgo che esse sono giocoforza superficiali giacché categorizzare la realtà non è mai semplice e quando lo si fa si corre il rischio di essere fraintesi: rischio che adesso voglio assolutamente correre).
A questo punto però bisognerebbe trovare il modo per distinguere il politico dal tecnico: come si fa? Ci provo: ognuno si distingue per qualità che all’altro mancano. Ragionando all’ingrosso, il tecnico ha una competenza specifica che il politico non ha. E il politico? Il politico invece ha i voti che il tecnico non prenderebbe mai.
Ma se il tecnico è senza voti, come mai succede che finisca ad occupare posizioni di governo? Bella domanda: però capita.
Quanti voti avrebbe preso Pigliaru se si fosse presentato alle primarie del centrosinistra quindici mesi fa? Pochini. Ergo, Pigliaru è un tecnico. Per lui alla fine della legislatura difficilmente ci sarà la ricandidatura. E lo stesso modo attraverso cui è arrivato alla presidenza lo dovrebbe convincere a rapportarsi in maniera più decisa con i partiti. Perché è lui che, candidandosi, ha fatto un favore a loro, non il contrario.
Ora a me i tecnici in politica non fanno impazzire, sia chiaro: ma mi rendo conto che se ad un certo punto ce li troviamo davanti un motivo ci sarà pure. Il problema è capire se interpretano coerentemente il loro ruolo oppure no.
A dieci mesi dall’elezione di Francesco Pigliaru, la Sardegna sembra essersi impantanata. Così come avveniva ai tempi del centrodestra, l’attuale esecutivo si deve difendere da provvedimenti del governo italiano il cui partito di maggioranza relativa è lo stesso che sostiene in forze Pigliaru. Imbarazzante. Inaccettabile.
Il decreto Sblocca Italia avrà ricadute pesantissime per il nostro ambiente, l’autonomia speciale presto o tardi sarà nel mirino di Renzi. E la giunta Pigliaru non è in grado di reggere l’onda d’urto. Inoltre, le grandi riforme iniziate dall’esecutivo regionale non decollano: a sentire gli esperti, il Piano Casa è peggio di quello di Cappellacci; la riforma delle Asl al momento non riforma nulla ma getta le basi per la solita spartizione di potere; sempre a detta degli esperti, la riforma della Regione è inconsistente; quella degli enti locali incoerente. La cultura è al collasso. Sulla vertenza entrate non diciamo nulla ma facciamoci il segno della croce perché se l’accordo sul patto di stabilità non porta i risultati sperati l’anno prossimo potrebbero mancare perfino i soldi per pagare i dipendenti della Regione.
Intanto Meridiana si appresta ad effettuare il più grande licenziamento collettivo della nostra storia, mentre l’Igea (che pure Pigliaru ha affidato ad un supermanager) sprofonda e i lavoratori protestano nelle gallerie della miniera di Lula.
Mi fermo qui e chiedo scusa per tutte le altre cose che mi sto dimenticando.
Se fosse stato un tecnico, Pigliaru avrebbe costruito una squadra di persone competenti e con le idee chiare, e invece la sua giunta (nominata col bilancino: perché?) a meno di otto mesi dall’insediamento è già da rottamare senza pietà e tutte le nomine che ha fatto sono rivedibili (quanti manager e direttori generali incapaci voluti del centrodestra e confermati: perché?). Se invece fosse stato un politico avrebbe avuto un progetto chiaro a cui avrebbe chiamato a partecipare le forze sane della società sarda. Ma questo progetto non c’è, della chiamata nessuna traccia. Silenzio.
Pigliaru e la sua giunta sembrano essere costantemente travolti dagli eventi e paiono non avere uno schema di interpretazione della realtà, né politico né tecnico (fatta ovviamente qualche singola eccezione, ma qui ci stiamo occupando della regola).
Pigliaru è in mezzo al guado, ma intanto il livello dell’acqua sta salendo pericolosamente. Servono scelte precise e immediate senza alcuna mediazione con i partiti: i sardi gli hanno dato il voto anche per questo; oppure metta in campo un progetto da condividere al più presto con la parte sana della società sarda e il mondo politico più coraggioso. Il presidente esca dall’ambiguità, decida in fretta che strada prendere, e poi agisca di conseguenza. Altrimenti per la Sardegna la fine è veramente vicina.
———————
LA METAFORA DEL TRENO (AL 4 NOVEMBRE 2014 FERMO ALLA STAZIONE DI CAGLIARI DA 102 GIORNI). E LA GIUNTA?
Lascia un Commento