in giro con la lampada di aladin…

BOMELUZO-MUNCH2lampada aladin micromicro- All’attacco dei fuoricorso. Sono il 43,6% degli iscritti. Melis: «Un trend in costante calo» – Le misure messe in campo per ridurre il numero degli irregolari negli studi. Su L’Unione Sarda, 02 ottobre 2014.
- Un altro punto di vista: ma i fuori corso, almeno in certa misura, sono una risorsa! Franco Meloni sul blog Valorest

Chi più ne ha, paga dazio. I fuoricorso, si sa, sono la spina nel fianco delle Università. E Cagliari non fa eccezione: sul groppone se ne porta ben 12.601, ossia il 43,6% di iscritti (28.902). È questo il loro peso reale, quello che poi va a incidere nella distribuzione dei finanziamenti statali, diminuiti del 20% dal 2009 a oggi (anche per via dei tagli ministeriali). Rimettere in “riga” un fuoricorso vuol dire dunque posizionare meglio l’Ateneo nelle graduatorie nazionali e internazionali, che sempre di più tengono in considerazione parametri legati alla produttività degli studenti e dell’Università (ricerca scientifica, internazionalizzazione).
LA POLEMICA Si capisce pertanto perché anche una tacca di decimale può fare la differenza e far risentire l’Ateneo di Cagliari che, in una statistica del Sole 24Ore, si è visto affibiare il 51% di iscritti fuoricorso. «Niente di più sbagliato», ribatte il rettore Giovanni Melis: la cifra corretta, confermata in occasione dell’inaugurazione dell’ultimo anno accademico, «è il 43,6%». Sette punti percentuali di differenza che il rettore non intende farsi scappare. E ieri infatti li ha reclamati, contattando direttamente l’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca, scoprendo, a suo favore, che nel calcolo dei fuoricorso erano stati considerati anche gli studenti iscritti a tempo parziale.
I DATI Svelato l’arcano, la polemica si spegne ma la battaglia sui fuoricorso continua a essere una priorità dell’ateneo cagliaritano. Che comincia a vedere qualche risultato, grazie anche alle contromisure adottate negli ultimi anni per favorire la regolarità degli studi e disincentivare il fenomeno dei “parcheggiati”: dal 43,8% del 2010 si è passati al 43,6% attuale, dopo il 43,3% registrato lo scorso anno. Cifre ancora alte ma decisamente lontane dal passato quando ben oltre il 50% degli iscritti era irregolare, specie in alcune facoltà. Oggi i più indietro con il corso di studi sono gli studenti di Ingegneria e Architettura (il 54,8% è fuoricorso), seguiti dai colleghi degli Studi umanistici (46,6%) e di Scienze economiche, giuridiche e politiche (42%). Risultato: più della metà degli iscritti a Cagliari (28.902) è regolare contro un 43,6% in ritardo con gli studi.
CHI SONO Quando si va fuoricorso? Se un ragazzo si iscrive a tempo pieno a un corso triennale, viene considerato fuoricorso dal quarto anno. Se si iscrive invece a tempo parziale (il caso di studenti lavoratori o pendolari) avrà a disposizione il doppio degli anni (dunque 6) per completare gli studi. Per gli atenei questo studente sarà considerato fuoricorso solo dal settimo anno in poi. L’Anvur, al contrario, li ha considerati irregolari a partire dalla fine della durata standard del corso, facendo così lievitare la percentuale dei fuoricorso al 51%.
CONTROMISURE Oggi l’Università di Cagliari offre agli studenti una gamma di strumenti, dal progetto Orientamento finanziato con fondi europei ai corsi di riallineamento online (33 attualmente disponibili) fino al test di verifica proposto alle matricole per valutare la loro preparazione iniziale e colmare da subito le lacune che impedirebbero un regolare percorso di studio. C’è inoltre il meccanismo della decadenza, introdotto, con molte polemiche, qualche anno fa per gli iscritti ai corsi prima del ’99. Finora nessuno è mai stato cancellato ma la misura ha smosso tanti studenti: «Oggi – ricorda il rettore – Cagliari laurea in media 4mila persone all’anno, con un trend in crescita, e un record nel 2012 con 4817 laureati». Numeri che fanno alzare la quota premiale dello Stato: dal 7% del 2009 oggi è salita al 16%. Insomma studiare premia sia gli studenti (con borse di studio per i fuorisede meritevoli) che l’Università. E chi non studia? Asino resta. E più povero, visto che le tasse costano di più.
Carla Raggio
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Studenti universitari fuori corso: le ragioni per contrastare le politiche di chi li vuole uccidere
Dal blog Valorest di Aladinews del 28 Settembre 2011
6 cappelli di De BonoUN INTERVENTO DATATO MA TUTTORA VALIDO. DA SEGNALARE L’ARRETRAMENTO DELL’UNIVERSITA’ DI CAGLIARI CHE HA DECISO DI FAR FUORI I FUORI CORSO SEMPLICEMENTE ABOLENDOLI PER REGOLAMENTO
di Franco Meloni
(…) In questo periodo in cui l’innovazione e la creatività hanno molta udienza si potrebbe dire che all’Università serve un po’ di pensiero laterale che ormai è sinonimo di pensiero creativo. A volte si tratta di leggere i fenomeni con prospettive diverse. Un teorico del pensiero creativo, il professor Edward De Bono, al riguardo ha lanciato una metodologia originale:
la teoria dei sei cappelli di diverso colore. A seconda del colore del cappello che si indossa occorre orientare forzatamente il pensiero rispetto al significato attribuito al colore del cappello medesimo. Per farla breve, solo alcune esemplificazioni: indossando il cappello nero si orienterà il pensiero al pessimismo; indossando il cappello rosso si orienterà il pensiero in modo passionale; indossando il cappello verde si orienterà il pensiero alla prospettiva ottimistica, e così via. Per fare una rapida e superficiale applicazione a una questione universitaria, pensiamo al fenomeno dei fuori corso che appare drammatico per l’Università italiana. Bene, in parte lo è, esattamente per la parte che rappresenta le difficoltà di percorso dei giovani studenti. Certo non lo è per quanto riguarda gli studenti maturi, quelli cioè che si iscrivono all’Università per fare carriera negli impieghi, per gli adulti che vogliono cambiare o riqualificare una professione, per quanti si iscrivono all’università solo nella ricerca di stimoli culturali e nuove conoscenze, e così via. E allora, indossando un cappello di colore diverso dal nero, non si potrebbe ammettere che in certa parte, non so quanta, ma certamente rilevante, i fuori corso sono una risorsa? Fenomeno quindi da trattare in modo differenziato, distinguendo i problemi degli studenti normali, che devono fare l’Università entro gli anni canonici, da quelli degli studenti maturi, i quali vanno tolti dalle statistiche della produttività degli atenei, anche per non influire sul determinazione dell’importo dei fondi statali del Fondo di finanziamento ordinario (FFO) che lo Stato trasferisce annualmente agli stessi atenei. I lavoratori studenti vanno curati in modo diverso e particolare rispetto agli studenti normali. Sicuramente la questione è di competenza in prevalenza di altre istituzioni rispetto all’Università. Sono infatti lo Stato e le regioni che devono intervenire se vogliono che le università facciano la loro parte: si tratta in massima parte di persone che possono pagare tasse congrue, ma che hanno diverse esigenze per poter completare il ciclo di studi in tempi ragionevoli. Hanno bisogno di tutor, di aule aperte in orari serali e notturni, di modalità fad ed e-learning di erogazione della didattica… tutte cose che hanno costi che le università non possono affrontare con le sole tasse di iscrizione e che invece dovrebbe affrontare l’amministrazione pubblica, considerato che la questione rientra pienamente negli obiettivi dello Stato, delle Regione e,ovviamente, dell’Unione europea (obiettivi di Lisbona), e pertanto sono costi che possono essere in gran parte riconosciuti sui programmi europei Long life learning (fondi strutturali e programmi dedicati).
Di quali strumenti deve disporre l’Università per rispondere a questa esigenza? Una risposta la sta già dando ad esempio la nostra università con il Centro d’ateneo per la formazione permanente Unica.for. Una risposta in termini di struttura dotata di maggiore autonomia può essere la costituzione di apposite fondazioni universitarie, strumenti operativi delle università pubbliche.
Dunque come continuare? Premesso che occorre affinare gli strumenti di ascolto delle esigenze delle persone e delle organizzazioni, dobbiamo avere la capacità di utilizzare in maggior misura le risorse pubbliche, soprattutto quelle messe a disposizione dall’Unione europea per il tramite delle regioni. Si tratta in prevalenza di risorse del Fondo sociale europeo, ma non solo. Eccovi un dato: la Sardegna nella programmazione 2007-2013 dispone per gli interventi del Fondo sociale europeo, cioè interventi per il capitale umano, di oltre 791 milioni di euro, messi a disposizione dall’Unione europea, dallo Stato e dalla Regione Sarda, alle quali si aggiungono altre opportunità, anche di diretta assegnazione comunitaria.(…)
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- Per connessione su Aladinews
In dieci anni un calo dei diplomati di quasi il 30 per cento. E sempre più ragazzi preferiscono gli atenei della penisola.Crollo dei diplomi e fuga dalle università dell’isola
di MARIANO PORCU * Su La Nuova Sardegna on line.
Più istruzione uguale più conoscenza; più conoscenza uguale più sviluppo. Seguendo questo “mantra” il governo nazionale ha appena varato il suo “Piano scuola” e l’istruzione è forse il tema su cui si è speso di più in campagna elettorale il presidente Pigliaru, connotando così il suo programma in maniera nettamente differente da ciò che aveva fatto (o non fatto) il governo di centro-destra che l’ha preceduto. Negli ultimi 10 anni il numero dei diplomati residenti in Sardegna è diminuito facendo registrare, nel 2012/13, un calo di quasi il 30% rispetto all’anno scolastico 2002/03. Questa dinamica è del tutto differente da quella che si registra per l’Italia nel suo complesso, per la quale si osserva un numero pressoché costante di neo-diplomati, con lievi oscillazioni da un anno all’altro. Il dato nazionale riflette, verosimilmente, l’apporto che le giovani generazioni di immigrati danno alla popolazione scolastica nazionale. La Sardegna non si avvantaggia di questo apporto. Considerando, poi, l’andamento negli anni del tasso di passaggio scuola-università, si rileva per l’isola un trend decrescente in linea con quello nazionale (attualmente, circa 6 diplomati ogni 10 si immatricolano all’università). Quindi, cala il numero dei giovani sardi che conseguono ogni anno un diploma e anche quello di coloro che, in un prossimo futuro, avranno un livello di istruzione universitaria. Ma c’è anche un altro aspetto che dovrebbe attirare la nostra attenzione. È, sì, calato il numero di coloro che si immatricolano all’università, ma sempre molti diplomati sardi decidono di iscriversi in un ateneo della penisola. Sono quelli che possiamo definire come “immatricolati-movers”. Il loro numero è diminuito ma seguendo un trend non così marcato come quello di coloro che decidono di frequentare i corsi delle università sarde. Tralasciando le tecnicalità che sottendono questa spiegazione, possiamo banalmente dire che siamo di fronte ad un fenomeno stranoto ai demografi che studiano i movimenti migratori: la migrazione è un fenomeno altamente selettivo e tende ad interessare gli individui più intraprendenti o, come in questo caso, i più dotati di risorse (vale a dire i diplomati che provengono da famiglie che sono in grado di supportare i progetti “migratori” dei loro figli verso la penisola). Ma è un bene o un male che tanti diplomati decidano di “emigrare”? Dipende dai punti di vista. Dal punto di vista degli individui dovremmo ritenere che sia un bene: viaggiare, confrontarsi con altre realtà, allargare i propri orizzonti aumenta il capitale umano e, in molti casi, moltiplica le opportunità tra le quali scegliere la strada verso il proprio futuro. Consideriamo però anche altri punti vista; iniziando da quello dei territori. Da tempi piuttosto lontani la Sardegna è terra di emigrazione, ma viste le sfide che ci attendono (vedi alla voce “sviluppo”) i diplomati che frequentano l’università al di fuori dell’isola portano via qualche pezzo del nostro futuro: loro vorranno sì, in molti casi, rientrare ma, purtroppo, la loro terra non avrà granché da offrire e, perciò, spenderanno il loro ingente capitale di istruzione (diploma + laurea) altrove. Altro punto di vista: quello delle università sarde. I due atenei si trovano ad operare, rispetto al pubblico degli studenti che hanno la possibilità di “emigrare”, in un quasi-mercato: “vendono” un prodotto (la loro offerta formativa) che perde di competitività poiché non è facile impiegarlo per trovare un lavoro nell’isola. Nonostante ciò, ricevono finanziamenti anche sulla base della loro attrattività. Recenti ricerche hanno mostrato che le variabili “strutturali” del territorio in cui ha sede un ateneo (una serie di indicatori riferiti a variabili economiche come il tasso di disoccupazione, il livello dei servizi, il reddito) influiscono sull’attrattività più delle caratteristiche dell’offerta formativa. Che fare, quindi? Bisogna governare il fenomeno della mobilità studentesca e non più, semplicemente, subirlo (così come i territori poveri subiscono l’emigrazione della loro forza lavoro). Per governarlo occorre conoscerlo. I pochi dati riportati (di fonte MiUR) permettono solo di intravedere i tratti generali del fenomeno. Servono studi per aggregati di diplomati, analisi dei flussi per individuare le caratteristiche dei “poli di attrazione”, studi caso-controllo, ricerche qualitative per capire cosa accade davvero nella scuola nell’orientare gli studenti agli studi universitari. Occorre, anche, che gli atenei sardi affrontino la sfida della competitività con strumenti più efficaci di brochure informative o altre iniziative di pseudo-marketing. Per renderle attrattive e competitive è indispensabile dare più valore aggiunto alle lauree conseguite nell’isola. Come? Ad esempio, modernizzando gli strumenti didattici (abbiamo le Lim nelle scuole … ma come sono attrezzate le nostre aule universitarie?). È necessario sottoporre a “manutenzioni” continue l’offerta formativa aggiornandola in modo da valorizzare al meglio le potenzialità che è in grado di esprimere per preparare i giovani alle sfide del lavoro. In mancanza di un tessuto produttivo in grado di offrire reali opportunità di tirocinio, sarebbe utile favorire gli spin-off universitari e rendere gli stessi le “palestre” in cui svolgere le attività di job-training. Serve tutto questo e anche altro. Occorre, soprattutto, sburocratizzare la gestione del diritto allo studio dando direttamente risorse agli atenei per organizzare i supporti che favoriscono la vita dei loro studenti (in sede e fuori-sede). La sfida è difficile, per le università sarde ma anche per la Regione. Servono idee e la capacità di attuarle.
* Professore di Statistica Sociale Università di Cagliari

One Response to in giro con la lampada di aladin…

  1. […] in Italia) cosa può dire una dirigenza accademica, che speriamo sia al tramonto, che ha fatto la lotta ai fuori-corso, non al fenomeno dei fuori corso, che infatti non ha minimamente risolto, incapace di capire le esigenze delle persone e contribuendo ad aggravare il dato del “numero […]

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