in giro con la lampada di aladin…
- Con l’Europa non siamo squadra - Le occasioni che non sfruttiamo. Paolo Savona su L’Unione Sarda.
- L’URTO DEL PENSIERO. Tre gradini per il baratro. Paolo Ercolani, su il manifesto.
- Nave-Sardegna senza rotta con l’uomo solo al comando. Oriana Putzolu, su Sardinews.
- L’Ue, il Pil, Bertold Brecht e il formaggio del pastore. Gianfranco Bottazzi, su Sardinews
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Con l’Europa
non siamo squadra
- Le occasioni che non sfruttiamo
Paolo Savona su L’Unione Sarda, 01 ottobre 2014
Su iniziativa della Fondazione Matching Energies, di un intelligente imprenditore privato e di un gruppo di professionisti e studiosi che gravitano intorno al Gruppo editoriale del Danaro, si è tenuto a Napoli un incontro tra una quarantina di operatori e alcuni politici e il vice presidente della Banca Europea degli Investimenti, nonché presidente del Fondo Europeo degli Investimenti Dario Scannapieco. Si è discusso sulle possibilità offerte alla crescita del Mezzogiorno da queste due istituzioni europee. Scannapieco ha affermato che la «potenza di fuoco» delle due istituzioni è elevata, ma i destinatari pubblici e privati dei suoi interventi non sono capaci di utilizzarli appieno a causa della loro bassa capacità progettuale. Sono stato chiamato a introdurre il problema dell’intervento BEI-FEI a Napoli per la mia ripetuta insistenza, anche su queste stesse colonne, di considerare le due istituzioni un punto di forza, forse l’unico, della costruzione europea per tentare il rilancio della domanda e dell’occupazione nel Mezzogiorno. Non a caso il nuovo eurocommissario capo Junker ha promesso la realizzazione di 300 miliardi di euro di nuovi investimenti con l’aiuto della BEI. Ho vissuto una buona esperienza con questa istituzione quando al Cis, travolto dalla crisi dell’industria chimica, potei contare sui suoi fondi globali per sostenere l’economia della Sardegna, soprattutto le piccole iniziative. Talune istituzioni creditizie sarde beneficiano tuttora di fondi BEI, ma in misura insufficiente alla loro potenzialità. La Regione potrebbe sfruttare l’accesso a questi finanziamenti con tecniche creditizie sperimentate altrove, non sottoposte ai vincoli di bilancio del “patto di stabilità” interno, gemello di quello europeo.
Quest’ultimo punto è stato sollevato dai politici e Scannapieco ha ribadito che alcune Regioni e Comuni hanno trasformato i contributi a fondo perduto dati alle iniziative imprenditoriali pubbliche e private in fondi di garanzia che consentono di elevare la percentuale finanziata dalla BEI dal 50 al 75% senza esborsi di cassa. Ha inoltre aggiunto che alcune grandi opere che generano crescita all’atto della realizzazione e innalzano il prodotto potenziale, via gli aumenti di produttività, possono beneficiare degli interventi BEI anche se a intraprenderli sono enti di diritto privato, ma di emanazione pubblica.
Come fu la Cassa del Mezzogiorno nei rapporti finanziari con la Banca Mondiale di Washington, alla quale si è ispirata la nascita della BEI (decisa dal Trattato di Roma del 1958 e rilanciata dal Trattato di Maastricht del 1992) e il suo funzionamento. In Sardegna è ben noto che questa formula finanziaria fu usata per l’Ente Flumendosa che permise al Campidano di uscire dalla sua drammatica scarsità di risorse idriche.
Gli imprenditori hanno invece sottolineato la drammatica carenza di un’amministrazione pubblica lenta e farraginosa. Naturalmente Scannapieco ha precisato che BEI e FEI non possono svolgere funzioni di supplenza in questa materia, ma ha aggiunto che è comunque in condizione di dare un qualche aiuto alle amministrazioni volenterose. In questi ultimi tempi non ho assistito a incontri più concreti e promettenti di quello di Napoli. Sarebbe stato opportuno tenere questo incontro in Sardegna o, quanto meno, riproporlo da noi. Pochi giorni prima è stata data la notizia che Taranto aveva ottenuto l’approvazione di Bruxelles di creare una zona franca. No comment.
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L’URTO DEL PENSIERO
Tre gradini per il baratro
— Paolo Ercolani, su il manifesto, 1.10.2014
È inutile girarci intorno. Tre sono i gradini che potevano condurre il nostro Paese nel baratro. Ed è bene sapere che li abbiamo già percorsi tutti e tre con apparente e beata incoscienza. Il primo è quello della deriva etico-morale. Un Paese che non è riuscito a trasmettere ai propri cittadini il senso della res publica, quindi del bene collettivo e del patrimonio nazionale; un Paese che non sa creare le condizioni e le dinamiche perché fra i suoi abitanti, nei vari gangli vitali della sfera sociale, possano emergere i più preparati, i più volenterosi, i più meritevoli, proprio perché anche così possa salvaguardarsi e crescere lo stesso bene comune, ebbene questo Paese è già morto. È come una stella di cui ancora vediamo la luce pur sapendo che in realtà si è già spenta, e per questo non potrà continuare a esistere nella rinnovata costellazione. La politica degradata al livello del più bieco affarismo rappresenta soltanto la punta estrema, più clamorosa e visibile, di un iceberg che affonda ben in profondità le sue radici, coinvolgendo tutti quei «cittadini» che i nuovi populismi vorrebbero dipingere come puri e incontaminati. Al punto che anche solo a utilizzare termini come «etica» e «morale» si finisce tacciati di ingenuità, idealismo, utopia. Eppure non sarò io, da filosofo, ad abdicare al dovere umano e sociale di richiamare l’urgenza, e persino la vera e propria emergenza, di un Paese che ha un bisogno estremo di riscoprire, ridisegnare e riorganizzare il proprio impianto etico e morale. Certo, questo passa necessariamente per un serio progetto culturale. Ma qui arriviamo al secondo gradino. Quello della deriva pedagogico-culturale. Non ci giro intorno neanche in questo caso: per me che svolgo esami universitari con cadenza regolare è fin troppo facile, e penoso, registrare il fatto che, per esempio, sempre più studenti faticano enormemente, e quindi spesso rinunciano, a leggere i libri di testo. Non è soltanto che politiche sciagurate e decennali hanno impoverito e marginalizzato la scuola; né che la commercializzazione selvaggia e incontrollata dell’informazione e della comunicazione in genere ci ha condotto ad avere, per esempio (ma il discorso può essere esteso a tutto il «quarto potere»), una televisione la cui programmazione è diventata via via sempre più scadente, volgare e disinteressata agli effetti culturali (e cognitivi!) che produceva nei confronti dell’opinione pubblica. C’è un terzo dato, perlopiù ignorato ma in realtà gravissimo: la deriva culturale e il processo di commercializzazione sono stati così forti e pervasivi che, in buona sostanza, di fronte alla comparsa della più grande invenzione della contemporaneità, cioè Internet, si è del tutto rinunciato a pensare ad ogni minima forma di educazione critica al mezzo e di resistenza «umanistica» rispetto alle degradazioni che il mezzo stesso produceva. Soprattutto nei confronti delle giovanissime generazioni. È significativo il fatto che a nessuno mai verrebbe in mente di far affrontare la vita a un bambino, senza che la scuola gli abbia potuto fornire alcuni strumenti. Eppure, per la vita virtuale (e sappiamo bene che virtuale non significa affatto irreale, forse tutt’altro) si è coscientemente e deliberatamente rinunciato ad ogni tentativo di educare e formare menti che, durante la propria crescita, sapessero utilizzare questi mezzi straordinari mantenendo autonomia di giudizio, capacità critica, caratteristiche specifiche dell’essere umano come, per esempio, la lettura approfondita, lenta, in grado di sedimentarsi e produrre conoscenza durevole nell’individuo. Ignorare tutto ciò ha comportato la realizzazione di quello che Kurt Vonnegut aveva descritto nel suo romanzo visionario del 1952 (Player Piano), laddove descriveva una prima rivoluzione che svalutava il «lavoro muscolare» (agricoltori), una seconda che sviliva quello «ordinario» (artigiani), mentre alla fine ci si trovava di fronte alla terza rivoluzione, quella in grado di rendere superfluo il pensiero umano, cioè il «vero lavoro intellettuale». A chi ha giovato tutto ciò? Chi, con molta probabilità e con complicità evidenti da parte di una politica indegna di questo nome, ha beneficiato di tutto ciò e in qualche modo se ne è fatto artefice? Qui arriviamo al terzo gradino, che al tempo stesso rappresenta il filo rosso di collegamento con gli altri due: quello di un Paese in cui si è consentito all’economia di divenire la scienza dominante, il sistema di valori più forte e indiscutibile, la dimensione a cui votare tutto l’umano vivere e tutti gli sforzi sociali. All’economia servono produttori e consumatori, non certo individui critici e consapevoli, forniti di un bagaglio etico-morale che permetta loro di cogliere la grande ricchezza della vita umana al di là dei numeri, del profitto e delle logiche quantitative in genere. Non ha destato lo scalpore che avrebbe meritato, sentire Mario Monti che, da capo del governo, dichiarava impunemente di trovarsi lì per soddisfare i mercati (invece che la qualità della vita dei cittadini che si trovava a guidare). Il nostro Paese questi gradini li ha scesi tutti e tre, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Non c’è e non ci sarà articolo 18, riforma del lavoro e della giustizia, né riforma costituzionale o fiscale che tenga, è bene sapere che non ci sarà riforma in assoluto che potrà risollevarci se non sapremo risalire questi tre gradini, provando a ricostruire l’impianto etico-morale, educativo e politico del nostro Paese. Una politica degna di questo nome dovrà saper elaborare un programma fattivo e concreto in grado di affrontare il baratro in cui ci hanno condotto queste tre derive. Dovrà saperlo fare in un ottica anche europea, per ovvie ragioni, laddove l’Europa non potrà essere soltanto una fantomatica entità finanziaria che ci impone un rigore aritmetico e quantitativo, ma anche un grande progetto di costituzione di una realtà in grado di tutelare la qualità, il benessere e la specificità umana dei suoi cittadini. Una teoria che non trova sbocchi sul terreno della realtà sociale è sterile tanto quanto una politica che non sa darsi un progetto teorico e una mappa programmatica risulta cieca, inefficace, incapace di incidere su un periodo più ampio. Possono sembrare ragionamenti idealistici o persino utopistici, ma se per un attimo soltanto pensiamo che essi rappresentano tutto ciò che da troppo tempo non facciamo più, e di contro vediamo lo stato in cui ci siamo ridotti, beh, allora ci rendiamo conto che se di utopia si tratta, è un’utopia quanto mai necessaria. Il coraggio più grande risiede proprio nella forza e nella volontà di rispolverare un progetto apparentemente desueto e idealistico. Qui e ora!
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Nave-Sardegna senza rotta
con l’uomo solo al comando
di Oriana Putzolu, su Sardinews
Uno dei nemici più infidi dei lavoratori è la solitudine. Quel male oscuro che prende il padre di famiglia quando – ripiegate le bandiere sindacali, deposto il casco aziendale, appallottolato l’ennesimo volantino di protesta – guarda negli occhi moglie e figli e con lo sguardo annuncia altri mesi di precarietà, cassa integrazione, mobilità in deroga. Insomma la sospensione a tempo indeterminato del diritto al lavoro. Per molti è la disperazione, anche perché nessuno sembra in grado di comunicare progetti di speranza, obiettivi raggiungibili, concrete possibilità di cambiamento. Nessuno che indichi la rotta della nave-Sardegna per uscire definitivamente da una crisi ormai ventennale. Neppure la politica, che alterna regole della spending review a lunghi silenzi, tagli indiscriminati a voglia di non “disturbare il manovratore”. Anche nella nostra isola. “Agghiacciante”, avrebbe definito il ct della nazionale, Antonio Conte, la decisione del presidente Francesco Pigliaru di condurre nel più assoluto silenzio quel che si spera ultimo miglio della vertenza Alcoa. Un ordine da azienda ferrotramviaria – “non parlare al conducente” – assolutamente inaccettabile per il sindacato, non foss’altro perché sono in gioco gli assetti economico-produttivi di un territorio – il Sulcis-Iglesiente – da cinquant’anni al centro della tempesta industriale, e soprattutto il destino di 800 famiglie.
Sono trascorsi appena sette mesi dal 17 febbraio – l’annuncio della vittoria elettorale – e l’onorevole Pigliaru, sicuramente non per sua volontà, si comporta da “uomo solo la comando”. “La Regione documenta oggi un’insicurezza crescente, un disagio e una sfiducia persistenti. Solo il 7 per cento dei sardi ha fiducia nei partiti; il 14 nella giunta regionale, il 16 nel Consiglio regionale. Alla base di questi bassi livelli di fiducia istituzionale sta anche un forte deficit di partecipazione e coinvolgimento democratico. La cosiddetta
Ormai è di moda silenziare i corpi intermedi, considerarli un intralcio a un rinnovamento di cui sarebbero depositarie solamente alcune elites politiche, partitiche e universitarie. In Sardegna dalla crisi delle miniere, della monocultura chimica, dalle aperture alla modernità del tessile, gli unici a pagare sono sempre operai e impiegati, lavoratori dipendenti, con posti di lavoro falcidiati e malamente compensati da vagonate di ore di cassintegrazione che precarizzano tutta la vita: prima quella lavorativa poi anche il dopo pensione. L’importo medio degli assegni Inps erogati nell’isola è 686 euro/mese non è un incidente di percorso, ma il frutto di forzata lunga convivenza con gli ammortizzatori sociali.
La rappresentanza collettiva è importante e la Giunta deve dialogare con la parte più responsabile del sindacato, soprattutto quello libero e confederale, non certo angelo custode di un esecutivo che non nelle aule consiliari e nei back office partitici, ma sul campo deve conquistare la fiducia dei lavoratori. In assenza di dialogo il ritorno in piazza per i sindacati sarà una scelta obbligata. Chi si mette alla guida della Regione accetta di investire sul futuro e scommette sulla propria capacità di indicare la rotta che conduce i cittadini nel porto sicuro del benessere socio economico e della sicurezza lavorativa. Sono passati 210 giorni dal 17 febbraio 2014 e le coordinate della navigazione dei quattro mori sardi sono ancora misteriose. All’orizzonte non si intravedono un piano energetico e un piano industriale, senza i quali l’economia sarda è destinata a una costante precarietà. Ancora tutta da elaborare una proposta articolata sulle modifiche alla struttura produttiva regionale per adeguarla ai tempi, ai mercati e alla concorrenza internazionale. Una cosa è certa: oggi la Sardegna è un territorio dove la manifattura avanzata ha scarsa rilevanza; dove prevalgono settori a minor contenuto tecnologico con imprese a bassa dimensione media. Una situazione venuta consolidandosi durante il decennio 2001-2011 che la crisi degli ultimi 5 anni ha cristallizzato. Secondo l’Istat il peso della manifattura sul totale degli addetti è diminuito dal 12,5 per cento al 9,4 ( dal 24,9 al 19,5 per cento in Italia). Mentre il calo nazionale è stato compensato da una maggiore presenza di industrie ad alto e medio contenuto tecnologico( 8,6 per cento), in Sardegna si è rimasti intorno al 4,1. Inoltre, la quota delle imprese ad alto e medio contenuto tecnologico nell’isola è passata dal 14,3 per cento all’8,9 del totale degli addetti manifatturieri.
Questi dati indicano chiaramente un punto imprescindibile del futuro piano industriale: gli investimenti in tecnologia, ricerca e formazione. La monocultura petrolchimica è al tramonto, ma non mancano le possibilità per mettere in movimento una “nuova industria” – di solo turismo non si vive – partendo da “su connottu”, cioè dalle peculiarità sarde. La prima è il mare: nautica, bacini di carenaggio, costruzioni navali da diporto e industriali e relative forme artigianali. La seconda è l’industria farmaceutica e parafarmaceutica collegata alle erbe officinali. A seguire la filiera agroindustriale – per colmare il deficit del comparto alimentare dipendente per l’80 per cento dall’import nazionale e internazionale -; del marmo/granito fermo ancora alle lavorazioni primarie; del recupero ambientale degli ex siti industriali: non meno di 600 milioni le risorse “da sbottigliare” in questo settore, per continuare con le vocazioni territoriali, soprattutto quelle ecocompatibili.
Da non dimenticare il sistema dei beni culturali e ambientali, tesoro sottovalutato, spesso ignorato. I dati più recenti, provenienti dal sistema camerale, disegnano una Regione che non valorizza completamente i suoi beni più preziosi e questo lo dimostra la difficoltà dell’isola nell’attrarre una quota adeguata di fruitori sui giacimenti della sarditá. Un recente rapporto Unioncamere attesta che la cultura rende al Paese 80 miliardi di euro all’anno, pari al 5,7 per cento della ricchezza complessiva. Nella nostra Regione nel 2013 il valore aggiunto del sistema culturale è stato di 1.061,9 Mil/€, pari all’1,4 per cento della ricchezza totale prodotta dal settore in Italia e al 3,7 per cento del totale del valore aggiunto realizzato in Sardegna dalle aziende private.
Il sindacato è d’accordo con il Presidente Pigliaru. “ Cominciamo il domani” significa anche restituire ai sardi ottimismo e fiducia. “ Un ottimismo basato su cose concrete e progetti responsabili. Non su slogan e propaganda. Non solo l’ambizione di tornare semplicemente ai livelli del passato, ma quella, più impegnativa, di rimuovere con coraggio i problemi strutturali che, per troppo tempo, hanno compromesso le nostre potenzialità di crescita. E’ un progetto ambizioso, ma possibile, se saremo disposti a orientare ogni politica pubblica, ogni risorsa investita, in funzione di obiettivi misurabili in termini di creazione di posti di lavoro, di efficiente utilizzo delle risorse naturali e ambientali, di effettiva capacità del nostro sistema economico e sociale di essere inclusivo superando ogni disparità tra giovani e meno giovani, tra donne e uomini, tra aree urbane e rurali”.
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L’Ue, il Pil, Bertold Brecht
e il formaggio del pastore
di Gianfranco Bottazzi, su Sardinews
Nel vacanziero clima di agosto si è acceso un breve dibattito sulla questione se contare o non contare nel Prodotto interno lordo (Pil) le attività illegali della cosiddetta economia criminale. In sostanza, nel calcolare il Pil, conformemente a un regolamento europeo approvato nel 2010, si tratterebbe di aggiungere i proventi delle attività criminali, dal traffico di droga alla prostituzione, eccetera. Vi è stata una levata di scudi di magistrati e associazioni dei consumatori, che accusano di “immoralità” una scelta di questo genere. E naturalmente una protesta dell’opposizione, dai Cinque Stelle all’immarcescibile Maurizio Gasparri, che hanno accusato il governo di voler aumentare il Pil artificiosamente a fini di propaganda. Sgombriamo il campo da quest’ultima critica: poiché il ricalcolo del PIL si applicherebbe anche agli anni precedenti, il risultato sarebbe comunque un incremento di pochi decimi di punto percentuale. In ogni caso, bisogna aspettare i conti dell’Istat per capire meglio. Inoltre, le critiche dimenticano che l’Istat è tenuta da regole internazionali (Maastricht per esempio) ad adottare gli stessi criteri che vengono definiti per tutta l’Unione Europea.
Il problema tuttavia del breve dibattito estivo è altro. È in primo luogo la diffusa e sostanziale ignoranza (solo in parte colpevole) relativamente al Pil e al suo uso. Considerato che l’andamento del Pil condiziona pesantemente le nostre vite quotidiane, sarebbe se non altro un esercizio di democrazia sapere come è calcolato, cosa prende in considerazione, in altre parole cosa c’è dentro. Come diceva Bertold Brecht, “controlla il conto, sei tu che lo devi pagare!”. Per come il Pil è definito e calcolato non solo non è strano che si considerino le attività illegali produttive di reddito, ma anzi questa “correzione” potrebbe essere presentata come una risposta a una delle principali critiche che da tempo vengono mosse al Pil, quella di non considerare le attività sommerse o informali.
Il Pil è un indicatore, soggetto a periodiche revisioni, che viene messo a punto negli anni successivi alla grande crisi del 1929 e perfezionato negli anni della Seconda Guerra mondiale e subito dopo. All’inizio il problema era quello di valutare il reddito disponibile e il potenziale produttivo di un Paese. Nei primi tentativi, si lasciano fuori la pubblica amministrazione e le intermediazioni finanziarie, considerate come non rilevanti in quanto fondamentalmente “improduttive” ancorché utili (non aggiungono valore a quanto viene prodotto). Le prime linee guida furono pubblicate dall’Onu nel 1947, seguite da un più organico manuale della contabilità nazionale nel 1953. L’amministrazione pubblica è inclusa, ma non le attività di intermediazione finanziaria. Mentre i sistemi di rilevazione e misura si perfezionano continuamente, nel 1968 esce un nuovo corposo rapporto metodologico, nel quale la finanza diventa “implicitamente produttiva” e se ne valuta l’apporto indiretto alla produzione. Nel 1993, infine, un ulteriore manuale decide che l’intermediazione finanziaria è “direttamente” un’attività produttiva e da quel momento viene computata all’interno del Pil. Si consideri che, dal 1970 al 2012, all’interno dell’area Ocse, ossia quella che comprende tutti i Paesi più economicamente avanzati, il credito e la finanza passano dal 15 per cento circa del 1970 al 30 del 2012 come contributo al Pil.
Non pare affatto casuale che questa modifica contabile avvenga proprio nel momento in cui – nel quadro dell’egemonia neo-liberista – avanza spettacolarmente, a livello mondiale, quella finanziarizzazione dell’economia che sarà responsabile in gran parte della crisi nella quale ancora ci si dibatte. In tutto il periodo che va dalla prima costruzione di complessi sistemi di contabilità nazionale necessari per calcolare il Pil a oggi, continui aggiustamenti e allargamenti hanno avuto luogo, come ad esempio, in Italia, quando nel 1987 fu introdotta una stima per comprendere il peso dell’economia sommersa, stima che produsse il “sorpasso” sulla Gran Bretagna dell’Italia che, peraltro solo per qualche anno, divenne la quinta economia mondiale. In realtà, si è trattato di un processo continuo di allargamento dei confini di quelle che venivano considerate attività “produttive”. Ma dietro questo processo non c’è solo un affinamento e delle tecniche statistiche. C’è piuttosto la storia di come l’economia è andata definendo se stessa, imponendo una visione dominante non solo dei rapporti economici, ma anche e soprattutto dei rapporti sociali. Il Pil non è altro che lo specchio di una visione dei fatti economici e sociali che oggi appare egemonico, nonostante la serie lunghissima di critiche che al Pil e al suo uso sono state fatte.
Questa visione ha il suo punto forte sul postulato della “amoralità” della scienza economica. Rispetto alle preoccupazioni anche “morali” degli economisti classici, che si interrogavano sul carattere produttivo o meno di un’attività, sul suo valore per l’economia nel suo complesso (e per la collettività), l’economia neo-classica oggi dominante ha al suo centro il concetto di utilità: ogni reddito, ottenuto in qualunque modo e per qualunque motivo, aumentando l’utilità di un individuo si aggiunge alla prosperità generale, dunque contribuisce al Pil. Di fatto, una delle parole stesse che compongono la nostra sigla – “Prodotto” – non avrebbe più ragione di essere. Al massimo possiamo parlare di reddito, ricavo, percepimento di denaro. Una speculazione finanziaria che ha successo, la distruzione di un ambiente incontaminato che produce reddito per chi la opera, la produzione e vendita di un cibo adulterato, entrano tutti nel Pil. Esattamente come il formaggio prodotto e venduto dal pastore (mentre se il pastore fa il formaggio per sé e per i suoi amici, senza venderlo, non contribuisce al Pil). Non c’è niente di strano, dunque, in questa logica, se anche la droga, il contrabbando, la prostituzione, eccetera vengono considerati ai fini del Pil: fanno circolare denaro, producono uno scambio, che alimenta consumi anche perfettamente legali e dunque fa girare la giostra del Pil.
La questione che emerge è relativa al fatto che, se mai lo è stato, il Pil appare oggi largamente inadeguato come strumento di valutazione della salute economica e sociale di un Paese o di un territorio. Eppure come si accennava all’inizio esso condiziona pesantemente le nostre vite, proprio perché, malgrado l’inadeguatezza, la sua assunzione e imposizione come parametro centrale, ha una serie di effetti perniciosi. Nell’Unione Europea, infatti, non è solo un indicatore ma un “vincolo” politico fissato dai trattati a partire da quello nodale di Maastricht. Il contributo di ogni Stato al bilancio della Commissione Europea si calcola sulla base del Pil, il debito pubblico si calcola in rapporto al Pil e, se questo diminuisce, più facilmente scattano le procedure sanzionatorie e, soprattutto è più probabile che i cosiddetti “mercati” (gli investitori istituzionali e non che debbono comprare i titoli del debito italiano) siano maggiormente recalcitranti rispetto ai buoni del tesoro italiani. Con buona pace di chi scriteriatamente dice che lo spread (la differenza tra il tasso di interesse che lo Stato italiano paga sui suoi titoli e il tasso che paga la Germania sui suoi bond) non conta niente, gli interessi che lo Stato paga ai possessori di titoli di Stato può variare di molto, ed è lo Stato italiano – e dunque tutti i cittadini – che pagano di più o di meno.
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