in giro con la lampada di aladin…
- Più formazione in agricoltura per creare lavoro e combattere lo spopolamento della Sardegna . Giuseppe Pulina su SardegnaSoprattutto.
- Contro lo spopolamento e la catastrofe antropologica la soluzione è il ritorno alla terra. Silvano Tagliagambe su vitobiolchini.it
Più formazione in agricoltura per creare lavoro e combattere lo spopolamento della Sardegna .
di Giuseppe Pulina
By sardegnasoprattutto / 18 settembre 2014 / Società & Politica /
Le occasioni di lavoro sono, nell’area sviluppata del mondo, direttamente proporzionali alla densità abitativa di un territorio. Quale sia la causa e l’effetto è discutibile (se l’alta concentrazione abitativa crei lavoro o se le occasioni di lavoro in una determinata area richiamino popolazione da altre): è molto probabile che i due fenomeni di rafforzino creando insieme una spirale di crescita economica e demografica. E’ però altrettanto vero che la fertilità delle popolazioni dei paesi sviluppati è crollata con la conseguenza che i saldi naturali diventano negativi e la crescita della popolazione è a carico quasi esclusivamente degli imponenti flussi migratori le cui notizie occupano ormai tutti i media.
La Sardegna è una delle aree dell’Unione Europea che registrano la massima velocità di decremento demografico: depressione economica e spopolamento si intrecciano in una gorgo perverso la cui possibilità di rottura diventa sempre più ardua. Lo spopolamento della Sardegna è, perciò, il principale problema da affrontare per una politica regionale che guardi responsabilmente al futuro: creare occasioni di lavoro per contrastare lo spopolamento e crearle nelle aree rurali rappresentano pertanto le prime politiche attive da attuare per invertire il declino esponenziale al quale l’Isola sarà, altrimenti, condannata. Si può creare lavoro nel settore territorialmente più diffuso, l’agricoltura? Certamente con il ricambio generazionale e la spinta all’istruzione e all’innovazione tecnologica degli imprenditori.
Il fenomeno dello spopolamento della Sardegna, ormai noto al grande pubblico, si inserisce in uno scenario mondiale che prevede, invece, un costante aumento della popolazione per questo secolo fino alla soglia dei 9 miliardi di persone nel 2050. Un trend diverso e sostanzialmente stabile è previsto dall’ISTAT per Il nostro Paese: questo Istituto ha licenziato nel 2011 il rapporto sul “Futuro demografico del Paese. Previsioni sulla popolazione regionale residente al 2065” sulla base del quale è stato sviluppato il modello DEMO ISTAT a tre scenari (alto, centrale e basso) che consente di ottenere proiezioni e principali indicatori della popolazione residente in Italia per regione e, in alcuni casi, per provincia. Il sito demo.istat.it permette a tutti di interrogare il modello e di ottenere gli output desiderati. Il rapporto citato prevede, nello scenario centrale, un primo aumento e poi un declino della popolazione. Se interroghiamo il modello DEMO ISTAT, per la Sardegna è previsto un calo demografico per tutti i tre scenari.
L’Isola invecchierà velocemente e, a meno di robuste politiche volte ad aumentare la natalità delle donne fertili, a incrementare l’immigrazione di coppie con progetti di vita da realizzarsi in Sardegna e a contrastare l’emigrazione dei giovani (sull’invecchiamento poco si più fare essendo la Sarda una delle popolazioni più longeve al mondo). Ne conseguiranno due effetti non banali (nel senso matematico del termine) dell’invecchiamento della popolazione sarda illustrati di seguito. Il primo riguarda la nuova intelligenza. Il mancato ricambio generazionale intacca l’entità e il valore dell’harware installato, misurato in termini di capacità elaborativa (o anche intelligenza collettiva). Tale valore, in tutti gli scenari demografici, tende a ridursi drammaticamente, come dimostrato nella figura 3. I grafici sono stati ricavati computando l’evoluzione delle masse celebrali degli under 14 (potenza installata) per l’indicatore di Flynn (che misura l’aumento dell’intelligenza residente al passare delle generazioni). Il gap registrato nello scenario centrale è impressionante, mentre quello che risulta per lo scenario basso è disastroso (il calo di più del 50% della nuova intelligenza presente in Sardegna).
Il secondo interessa un indicatore denominato “la distanza minima di vicinato”, definita come la distanza che consente di considerare, in un paese, l’abitante più prossimo quale “vicino”. Nei borghi sardi é di 3 porte ma, dato lo spopolamento incrementale dei nostri paesi, per quanto tempo potremo considerare il tessuto urbano della stragrande maggioranza di questi in termini di vicinato? L’unica soluzione a portata di mano é favorire lo stabilirsi di nuovi immigrati, utilizzando in primo luogo le politiche di coesione del programma Horizon 2020 della UE. Ma anche pensare e attuare un nuovo “piano di rinascite” della Sardegna per far sì che la nostra Isola continui a essere abitata anche da Sardi.
L’agricoltura è, per sua natura, una impresa diffusa sul territorio. Questa caratteristica la candida come primo attore per il contrasto allo spopolamento delle zone interne dell’Isola, a patto che le condizioni di lavoro e di redditività delle campagne siano effettivamente comparabili con quelle delle città. Fra i tanti fattori strutturali che incidono negativamente sulle prospettive di lavoro in campagna, l’elevata età degli operatori e il loro basso grado di scolarizzazione sono i più rilevanti. Se il 60% degli imprenditori agricoli ha un’età superiore ai 55 anni e oltre la metà di questi supera i 65 anni, con la prospettiva che la propria attività il più delle volte è destinata a terminare nel momento in cui non potrà o vorrà occuparsene, e i giovani rappresentano appena il 5% degli imprenditori (gli under 25 non raggiungono nemmeno l’1% della categoria), il ricambio generazionale è una questione non più rimandabile.
Questa demografia delle imprese agricole ha per conseguenza la bassa scolarità dei conduttori (soltanto il 4,5% è munito di laurea, mentre il 14% ha un diploma superiore e il 40% una licenza media inferiore), livello formativo assolutamente inadeguato per le sfide che pone il secolo della conoscenza. In questo scenario l’agroalimentare italiano, e quello sardo in minore misura, vedono un ciclo espansivo per agganciare il quale si dovrà disegnare una agricoltura sarda al 2020 più intelligente, sostenibile e inclusiva. In generale, dal ringiovanimento del mondo agricolo consegue una maggiore scolarizzazione. In questi anni si sono moltiplicati gli sforzi per informare di più e meglio gli imprenditori agricoli, con risultati però tutto sommato deludenti. Occorre, infatti, più formazione per utilizzare meglio l’informazione, per evitare, cioè, che la seconda senza la prima sia come la semente che cade nel deserto. Scolarizzare gli agricoltori e la manodopera immigrata significa, fra le altre cose, dare un senso alle decine di istituti professionali per l’agricoltura sparsi per il territorio sardo che agonizzano.
Significa anche rendere gli operatori capaci di navigare in un modo sempre più connesso, in cui i rapporti con le PA e con le banche sono mediati da interfacce ICT; porli in condizioni di regolare dal basso i piani di sviluppo rurale e le azioni dei Gruppi di Azione Locali (GAL), che troppo spesso hanno sofferto di una mancata adesione partecipativa delle imprese. Inserire i laureati in agraria nel sistema produttivo, magari migliorando gli strumenti di accesso ai fondi da coltivare o abbattendo gli oneri fiscali e previdenziali per le Organizzazioni dei Produttori (OP) e le industrie agroalimentari che li assumono, può generare processi innovativi e portare a maggiore ricchezza e nuovi posti di lavoro. Considerare, infine, i dottori di ricerca quale interfaccia del trasferimento tecnologico nei progetti per le PMI (in cui inserire le OP e i consorzi dei produttori) è la chiave per facilitare l’implementazione dell’innovazione nei processi e nei prodotti agroalimentari della Sardegna.
In definitiva, la formazione degli imprenditori e della manodopera in agricoltura e nell’agroindustria, sia direttamente che con l’inserimento di diplomati e laureati nelle discipline agrarie, rappresenta il fattore chiave per il rilancio economico del settore e costituisce l’unica via per aumentare i livelli occupazionali, diretti e indiretti, soprattutto nelle fasce giovanili. A questo proposito ci sono due buone notizie: i giovani scommettono nuovamente sull’agricoltura, come dimostra il boom di iscrizioni ai corsi di laurea in Agraria dell’Università di Sassari (+50% quest’anno) e l’avvio di un vasto programma di formazione nel settore dell’informatica e nuove tecnologie, portato avanti da Laore e da Unitel (consorzio telematico delle Università di Sassari e Cagliari) che formerò nel prossimi 6 mesi 3.000 agricoltori in tutta la Sardegna (il progetto TISAA a cui si può aderire iscrivendosi on line sul sito Laore oppure attraverso i SUT o ancora attraverso le Associazioni dei produttori agricoli Coldiretti, CIA, Confagricoltura e Copagri).
Progetti per il futuro e maggiore intelligenza diffusa sono le chiavi per il rilancio del sistema agroalimentare sardo, primo baluardo contro lo spopolamento delle zone interne e occasione preziosissima per creare lavoro diffuso, sostenibile e duraturo.
*Direttore Dipartimento di AGRARIA, Università di Sassari.
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“Contro lo spopolamento e la catastrofe antropologica la soluzione è il ritorno alla terra”.
di Silvano Tagliagambe
18 settembre 2014 alle 11:14
In un contributo ospitato su Sardegna e Libertà il 1° agosto (dal titolo “Per imparare a pensare e non sol a ripetere. Un nuovo paradigma per la cultura del lavoro”) invitavo a riflettere sulle conseguenze dello spopolamento delle zone interne della Sardegna e sull’esigenza, per la politica regionale, di adottare con urgenza adeguate contromisure. Scrivevo, in particolare:
“È chiaro che se si prende in considerazione il solo fatto che sostenere un determinato processo (ad esempio il ritorno dei giovani all’agricoltura, o alla pastorizia e all’allevamento, per facilitarne l’ingresso nel mondo del lavoro) ha dei costi superiori ai ricavi che se ne possono trarre, è del tutto legittimo (anzi doveroso) far rientrare questo tipo di operazione sotto la voce ‘assistenzialismo’, e di conseguenza liquidarla come improponibile, in quanto contraria ai principi di un’economia sana ed efficiente. Ma se nel calcolo si fanno rientrare (come fa Eurofound con i Neet) i costi non solo sociali, ma anche economici dell’abbandono di intere e sempre più vaste porzioni di territorio, con il crescente rischio, nel caso della Sardegna, della riduzione dell’isola a una sorta di ciambella rigonfia solo nella fascia costiera e nelle poche aree urbane e vuota (pericolosamente per l’equilibrio interno e la tenuta del suo territorio e della sua organizzazione sociale) al centro e nelle zone interne, il discorso cambia e ciò che appariva, nell’ambito di un certo tipo di prospettiva economica, ‘assistenzialismo’, diventa sostegno, del tutto compatibile e corretto, allo sviluppo di un intero sistema”.
Mi fa ora piacere che un professionista autorevole e competente come Gianni Mura, che è stato presidente della sezione Sardegna dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, componente del Comitato regionale della programmazione, consulente, dal 1998 al 2000, dell’Assessore regionale della Programmazione ed è tuttora consulente di numerose amministrazioni pubbliche sui temi dell’urbanistica, della pianificazione territoriale e dello sviluppo locale intervenga sul medesimo argomento nel blog di Vito Biolchini con un articolo dal titolo “Spopolamento dei piccoli centri, serve una strategia: Pigliaru ce l’ha? Il caso Monteleone Roccadoria”.
Dopo aver consigliato ai lettori di programmare, al più presto, una visita a questo che è tra i più piccoli Comuni della Sardegna, dove vivono 125 persone, in gran parte vecchie, e avere descritto il fascino del luogo e del percorso per arrivarci l’autore entra subito nel vivo della questione:
“Il punto che voglio toccare è proprio questo e riguarda Monteleone Roccadoria, ma anche un numero rilevante di Comuni della Sardegna dell’interno con una popolazione di alcune centinaia di abitanti. Nei prossimi 20/50 anni questi paesi scompariranno silenziosamente senza però morire totalmente, continuando comunque ad esistere come entità residenziali, a cui sarà inevitabilmente necessario fornire acqua, elettricità, depurazione etc. finché ci sarà ancora qualche abitante.
I problemi che il processo di spopolamento dei paesi dell’interno della Sardegna pone non sono solo di natura insediativa, culturale e di presidio indispensabile del territorio, ma anche di natura economica, sia rispetto al territorio agrario che in relazione al valore e agli investimenti (pubblici e privati) che sono stati fatti e che si continueranno inevitabilmente a fare. Insomma, lo scenario tendenziale che oggi si intravede (la scomparsa sostanziale di circa cento Comuni della Sardegna entro questo secolo) sarebbe non solo una catastrofe antropologica, ma anche un disastro economico”.
Il rimedio suggerito è chiaro e in linea con la proposta avanzata anche da me:
“È necessario far crescere la popolazione di questi paesi in modo rilevante, fuori da un ordinario processo demografico interno ai paesi stessi. Per stare al caso di Monteleone Roccadoria, occorre che i 125 abitanti attuali diventino il doppio o il triplo in tempi non lunghi, realizzando quelle condizioni dimensionali perché il paese abbia quella vitalità minima capace di opporsi al suo declino prima e alla sua scomparsa poi. È evidente che una crescita demografica di questo livello non potrà mai avvenire per incremento demografico da saldo naturale, né per incremento migratorio di tipo tradizionale”.
Come? Cogliendo tutte le opportunità che emergono dai processi in atto. Ad esempio il crescente “ritorno alla terra” dei giovani, sempre più orientati ad abbandonare le professioni “cittadine” e a puntare sul verde e sull’ambiente, iniziando dai banchi di scuola. Lo attesta l’aumento record degli iscritti negli istituti agrari, che nel nostro paese registrano un più 12 per cento, uniformemente distribuito in tutti gli indirizzi legati ad ambiente, alimentazione e turismo secondo i dati dello studio presentato alla prima Summer School sul made in Italy, promossa da Coldiretti Giovani Impresa in collaborazione con l’Osservatorio sulla criminalità nell’agroalimentare, con laureati provenienti da tutte le università italiane seguiti da esperti del sistema agroalimentare, professori, imprenditori, magistrati e manager.
Nel nuovo anno scolastico 2014/2015 si sono iscritti al primo anno degli istituti tecnici e professionali della scuola secondaria di secondo grado, statali e paritarie, 264.541 giovani e tra questi il 24% ha optato per l’agricoltura, l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera, che complessivamente hanno registrato 63.719 nuovi iscritti contro i 60.017 dello scorso anno. Un boom quello delle scuole tecniche di agraria, agroalimentare e agroindustria che trascina anche le scuole professionali per i servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurale (+ 8%) e quelli che si indirizzano verso l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera (+ 5%).
Numeri che, evidenzia la Coldiretti, “testimoniano una vera rivoluzione culturale, confermata anche dai risultati di un sondaggio svolto con Ixé, secondo il quale il 54% dei giovani oggi preferirebbe gestire un agriturismo piuttosto che lavorare in una multinazionale (21%) o fare l’impiegato in banca (13%). Inoltre, secondo il rapporto, il 50% degli italiani ritiene che cuoco e agricoltore siano le professioni con la maggiore possibilità di lavoro mentre solo l’11% ritiene che l’operaio possa avere sbocchi occupazionali.
Queste scelte scolastiche e questi orientamenti riflettono un mondo che cambia, ragazzi diventati adulti all’ombra della crisi che, decisi a evitare di andare all’estero per trovare un lavoro e a non lasciare la regione in cui sono cresciuti, prendono atto del fatto che in questi anni difficili l’agroalimentare sembra essere il settore capace di una maggior tenuta, come attesta il fatto che i diplomati degli istituti agrari e i laureati in agraria hanno trovato e continuano a trovare lavoro. In particolare oggi un laureato in questo settore riesce a inserirsi in tempi ragionevolmente brevi nel mondo del lavoro nel 95% dei casi, a fronte del 25% attuale dei laureati in giurisprudenza.
Il problema è che la media del reddito in Italia è decisamente inferiore rispetto a Francia, Germania e Spagna, come ha sottolineato il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina in un dibattito organizzato a Padova alla festa del Partito Democratico: “Siamo sotto del 25% in alcuni casi. E nonostante i buoni segnali di ingresso dei giovani e l’interesse rinnovato siamo sotto anche nel tasso di imprenditorialità under 35. Da noi siamo al 5%, mentre la media europea è dell’8 %”.
È qui che s’inserisce la questione della premialità e degli incentivi a sostegno dell’imprenditorialità giovanile del settore, sulla quale attiravo l’attenzione nel mio intervento del 1° agosto, e che ha indotto qualcuno a tacciarmi di paladino dell’assistenzialismo e ad annoverarmi tra gli intellettuali che, dopo aver assistito a decenni di sperpero di denaro pubblico, insistono nella medesima direzione. Non vedere l’importanza e l’urgenza del problema al quale mi riferivo significa non solo rischiare di vanificare e sprecare l’attenzione nuova al mondo agricolo che si riscontra da parte dei giovani, ma non rendersi conto di tutti i costi dello spopolamento, così efficacemente esemplificati da Gianni Mura analizzando il caso di Monteleone Roccadoria, che configurano, come detto, un disastro economico, oltre che una catastrofe antropologica.
Le ricette liberali, trite e ritrite, che molti (troppi) continuano a considerare la panacea di tutti i mali sono in grado di evitare (e come?) questo spaventoso scenario che incombe come una minacciosa spada di Damocle sulla politica regionale? Ricordiamo, a beneficio degli immemori, che, secondo il racconto di Cicerone, Damocle era un grande adulatore, che non perdeva occasione di ricordare a Dionigi I il Vecchio, tiranno di Siracusa nel IV secolo a.C., quanto fosse fortunato a esercitare il potere che gli derivava dal suo ruolo e quanto fosse saggio e avveduto nell’esercizio della sua funzione: “il migliore dei tiranni possibili” per mutuare, ante litteram, la feroce descrizione che Voltaire fornisce di Candide, allo scopo di confutare l’ingenuo ottimismo di matrice leibniziana.
Quale sia la morale della storia non c’è bisogno di rammentarlo: l’esile crine di cavallo che sostiene la spada e che rischia di spezzarsi da un momento all’altro è una metafora costruita per indurre a non dimenticare i pericoli che si addensano sopra la testa sia di coloro che trascurano per troppo tempo i segnali, magari inizialmente deboli e poi via via più forti e precisi, che provengono dal sistema che governano, sia dei loro incauti laudatores.
Silvano Tagliagambe
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