in giro sulla rete con la lampada di aladin…
- I vincoli non sono le tavole di Mosè. Paolo Savona su L’Unione Sarda.
- Le politiche di austerità fallimentari per la ripresa .
Luciano Marrocu su La Nuova Sardegna.
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L’Unione Sarda, martedì 26 agosto 2014
I vincoli non sono le tavole di Mosè
Paolo Savona – L’Europa e la crisi economica
A causa dell’incalzare dei problemi e dei vincoli posti alla loro soluzione la società ha perso il senso della sua esistenza. Non è più né un sistema liberale, né socialista. Il cittadino non è più chiamato a valutare la situazione e scegliere le sue sorti assumendosene le responsabilità. È investito da un’ondata di notizie che le cose vanno male, sia in economia che nelle relazioni internazionali, e di proposte su come i problemi andrebbero affrontati accompagnate da supposizioni su come il suo governo o i governi degli altri intendono affrontarli. Resta perciò frastornato e, nell’incertezza sul futuro, se può risparmia e se non può ovviamente non spende.
Il suo comportamento è quindi razionale. In queste condizioni la teoria economica e l’esperienza passata insegnano che il sistema bancario e finanziario che riceve questi risparmi (nel 2013 le famiglie hanno risparmiato 150 miliardi di euro, circa 9 punti percentuali di Pil) deve reinvestirli in modo produttivo e lo Stato deve fare il resto spendendo di più per rimettere in moto il meccanismo di crescita. La risposta che viene data agli italiani è che le banche non possono essere forzate a concedere credito, ma sono libere di speculare con i soldi dei risparmiatori e con quelli che concede la Bce, entrambi a tassi trascurabili, inferiori all’inflazione.
Inoltre che lo Stato deve rispettare gli accordi europei e i vincoli dei mercati globali e, quindi, non si può fare niente di più se non redistribuire redditi e ricchezza. Ma questa politica seguita da tutti gli ultimi governi crea altre incertezze e altri malumori sociali, non modifica le condizioni di convenienza a investire in Italia e perciò finiscono con aggravare la situazione invece di sanarla.
I vincoli europei non sono scritti sulle tavole che Mosè portò dal Monte Sinai ed essi vanno affrontati insieme a quelli globali con un’accorta politica estera; almeno finché, da un lato, l’Unione Europea rifiuta di procedere verso l’unione politica che era il presupposto della sua trasformazione da accordo iniziale di libero scambio. Dall’altro lato, la cooperazione internazionale langue nonostante il mercato globale presenti una sempre più sfuggente finanza e un sistema produttivo iniquo perché presuppone la quasi rinuncia dei sistemi di civiltà raggiunti con il welfare e la democrazia. È saggio attendersi che per affrontare questo problema sul piano negoziale si debba partire da una inevitabile prova di forza con le forze contrarie che richiede comprensione dei problemi almeno da parte dei gruppi dirigenti e una visione cooperativa dell’intera società.
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Invece l’attuale politica ha messo i giovani contro gli anziani e i poveri contro quelli “statisticamente” benestanti (mentre i ricchi sono già uccel di bosco!), emarginando chi non la pensa come chi comanda. A queste condizioni la società resterà sempre conflittuale, ossia incapace di affrontare i problemi con la coesione necessaria e, di conseguenza, il ricorso al voto democratico continuerà a essere considerato pericoloso più di quanto non lo sia il non farvi ricorso. Si fa credere, insomma, che si dispone di strumenti e si alimentano le speranze di saper uscire dalla crisi in atto, ma il degrado continua in superficie e nel corpo della società. Se il Governo condivide con l’Europa e le forze economiche che le riforme del mercato del lavoro sono un aspetto importante per uscire dalla crisi – mentre non lo sono – e le riforme della pubblica amministrazione – che invece importanti lo sono – vengono proposte come se fossero indipendenti dall’esistenza di una legislazione eccessiva in cui gli impiegati pubblici ci sguazzano e la politica in essa prospera, non può esserci quella svolta desiderata.
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In conclusione, se non si imposta una politica che ricerchi una coesione sociale capace di resistere alle difficoltà che si incontrerebbero affrontando i vincoli europei e quelli globali, non si esce dalla crisi. Per far ciò occorre ricostituire non a chiacchiere una visione del tipo di società che desideriamo: liberaldemocratica, come quella che ha funzionato nel dopoguerra, o socialautoritaria, come quella in cui siamo scivolati dopo aver evitato tanti tranelli populisti. Ammettiamolo apertamente con la collaborazione di tutti.
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giustizia sociale e crescita
Le politiche di austerità fallimentari per la ripresa
Luciano Marrocu su La Nuova Sardegna di martedì 26 agosto 2014
L’Europa e Draghi prendano esempio dall’America e dalla Fed: servono stimoli straordinari perché l’economia possa definitivamente ripartire
Ha fatto affermazioni importanti Janet Yellen, durante il recente congresso annuale dei banchieri centrali di Jackson Hole, nell’ Wyoming. La presidente della Riserva Federale degli Stati Uniti ha ribadito, con una chiarezza insolita nei banchieri centrali, che non è ancora arrivato il tempo per la Fed di ritirare gli stimoli straordinari di cui l’economia americana ha goduto negli ultimi tempi. Gli interventi della Fed hanno contribuito in maniera decisiva a portare gli indici di disoccupazione al 6,2 %, cioè a dire quattro punti in meno rispetto alla fine del 2009. Nove milioni di posti di lavoro ricuperati, un’enormità quindi, non sufficiente però alla Yellen per giudicare buoni tempi quelli in cui milioni di persone cercano un posto di lavoro senza trovarlo, i salari sono bloccati, i benefici della crescita economica non sono ripartiti con un minimo di equità. C’era una certa sintonia tra la più influente dei banchieri centrali riuniti a Jackson Hole e il gruppetto di manifestanti accampati di fronte alla sede del congresso con un striscione con su scritto “What Recovery?” Quale Ripresa? A paragone della energia e del coraggio della Yellen, è parso a molti esangue, nonostante alcune concessioni alla gravità e alla persistenza della crisi, l’intervento in quella sede di Mario Draghi, impegnato ancora una volta a sottolineare come non sia nei poteri delle banche centrali fare quei massicci investimenti necessari per ridurre significativamente la disoccupazione. Che dire poi della politica italiana, governo e partiti, e del modo in cui sta affrontando la crisi? Una crisi che, nel nostro paese, sta avendo effetti particolarmente disastrosi, con l’industria che ha perso un quarto della sua capacità produttiva, la disoccupazione che ha raggiunto livelli mai visti, il rapporto debito pubblico Pil che sta viaggiando verso il 140 %. Rispetto a questo disastro, non pochi aspetti della discussione politica italiana sfiorano la futilità. Con il partito di Alfano che, volendo ricordare agli italiani la sua esistenza, chiede la cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. O anche la richiesta, ormai unanime a destra e a sinistra, di tagli dai contorni spesso mitologici della pubblica amministrazione. Intendiamoci, è ovvio che lo sfoltimento di apparati statali a volte elefantiaci e spesso terreno di conquista di voraci interessi clientelari sia una misura necessaria, come anche sarebbe utile una intelligente, dunque non punitiva per i lavoratori, flessibilità del mercato del lavoro. Ma la più vasta e incisiva rivoluzione liberale, ammesso che vi siano in Italia forze politiche disposte ad attuarla, non basterebbe a realizzare la crescita, che è l’unica cura per una economia sconvolta dalla disoccupazione di massa. Si possono ridurre i salari all’osso, rendere licenziabile su due piedi chiunque, tagliare massicciamente servizi sociali, ma misure di questo tipo non renderanno la crescita possibile, in mancanza di investimenti, privati e soprattutto pubblici. È vero che ciò non è facile e, soprattutto, non è immediatamente realizzabile dal governo di un paese il cui debito ha superato i 2.100 miliardi. Ci sono i vincoli europei, c’è l’ortodossia neoliberalista (a sua volta espressione di una sostanziale egemonia sociale conservatrice) che fanno sentire la loro influenza. Ed è anche vero che non basta dire New Deal perché esso venga realizzato. Ma almeno questo potrebbe fare Matteo Renzi: dirci che una maggiore giustizia sociale è anche un fattore di crescita, prospettare vigorosi investimenti pubblici, battere i pugni sul tavolo non per la Mogherini Lady Pesc ma perché l’Europa abbandoni le fallimentari politiche di austerità sin qui praticate.
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Nella foto in testa quadro di Licia Lisei (liberamente ispirato alla spiaggia di Posada e alla torre di San Giovanni). Vedi fb del proprietario.
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