in giro con la lampada di aladin…
- Quattro anni sprecati . Luciano Gallino su La Repubblica (ripreso anche da SardegnaSoprattutto).
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(…) Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin D. Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.
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- Emergenza reddito per i dipendenti e operai. Subito la Regione sarà chiamata a scegliere sulla questione metano
Lavoro, sarà un autunno molto caldo. Alfredo Franchini su La Nuova Sardegna del 20 agosto 2014.
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Quattro anni sprecati
di Luciano Gallino
By sardegnasoprattutto / 19 agosto 2014 / Società & Politica
La Repubblica, 19/08/2014. Chissà se il potere Legislativo sarà mai in Italia così forte e virtuoso da stabilire la responsabilità almeno civile, se non anche penale, per i membri del potere Esecutivo che fanno perdere soldi agli italiani per aver compiuto clamorosi errori politici?
I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65 per cento. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti.
La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140 per cento, visto che il primo ha superato i 2100 miliardi. Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico Paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero.
Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani.
Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici. Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18.
Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, J. P. Morgan). La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il Paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro
Paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile ad una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.
Si prenda il caso Germania; non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i Paesi Ue.
Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni 90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione. In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un Paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri Paesi dell’Eurozona in Paesi deficitari. Ha voglia la Cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri Paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro — quelle tedesche — che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.
Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin D. Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.
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Emergenza reddito per i dipendenti e operai. Subito la Regione sarà chiamata a scegliere sulla questione metano
Lavoro, sarà un autunno molto caldo
di Alfredo Franchini, La Nuova Sardegna 20 agosto 2014
CAGLIARI. Si riproporranno molto presto al tavolo del ministero dello Sviluppo economico i focolai della crisi presenti in tutta la Sardegna. La convinzione dei sindacati regionali è che per l’isola non sarà un autunno “caldo”, (nel senso sindacale di vertenze contrattuali), piuttosto una stagione cupa ma con la possibilità di arrivare a grandi trasformazioni. Partendo dai dati economici, la situazione è davvero complessa per l’isola: nel resto d’Italia, infatti, c’è qualche segnale di miglioramento che in Sardegna tarda ad arrivare.
Industria. All’insediamento del ministro Federica Guidi, ad esempio, i tavoli aperti sulle vertenze nazionali erano 159; adesso, chiusi i dossier pesanti di Electrolux e Indesit, due grandi questioni di politica industriale italiana, il numero è sceso a 152. In Sardegna, invece, le grandi questioni industriali non hanno avuto variazioni; i dossier sono tutti aperti.
Autonomia. Il dibattito nazionale sulle riforme istituzionali sta portando all’annullamento della specialità e su questo in Sardegna il dibattito, forse complice la spensieratezza tipica della stagione estiva, non è molto sviluppato. Eppure è una questione centrale per il futuro dell’isola. Riguarda il bilancio della Regione, la questione dei tributi riscossi, l’Agenzia delle entrate.
Welfare. Il problema dei problemi è, ovviamente, il lavoro. In uno scenario fatto di cancellazione di posti della grande industria e la difficoltà del manifatturiero c’è la novità di un cambio di modello del welfare. I segnali che arrivano dal governo Renzi sono inequivocabili: il sistema degli ammortizzatori sociali non regge, si sta chiudendo la fase del sistema degli ammortizzatori in deroga. Non ci sarebbe nulla di male se allo stesso tempo venissero attuate le opportune politiche attive del lavoro; sarebbero un’ottima compensazione ma il problema è che in Sardegna si arriva a questo punto proprio nel momento in cui il sistema imprenditoriale è al collasso. Si è perso troppo tempo negli anni passati quando si sarebbero dovute attivare le politiche attive del lavoro. Ora la sfida sarà quella di avviare un Piano del lavoro quando il motore delle imprese gira al minimo. Infrastrutture. All’inizio dell’estate l’economista Paolo Savona ha proposto un piano per le infrastrutture, riproponendo la nascita di una nuova Casmez alimentata coi fondi della Banca Europea degli investimenti. Oggi la prima “impresa” per gli appalti sono i Comuni che però sono alle prese con casse sempre più vuote. Metano. L’autunno caldo riguarderà sicuramente le industrie energivore, (come l’Alcoa), ma soprattutto la Regione che dovrà varare un vero e proprio piano per l’energia. La decisione di uscire dal Galsi è stata accompagnata dall’affermazione che la Regione non intende affatto rinunciare alla metanizzazione dell’’isola. Un advisor dovrà indicare in tempi stretti la soluzione: l’orientamento dovrebbe essere quello di far arrivare il gas nell’isola con le navi metaniere e poi attivare uno o due gassificatori. (La Sardegna è l’unica regione d’Italia che non ha il metano). Ma tutto questo va legato alle scelte industriali.
Energia. Il sindacato chiedeva la costruzione di due centrali a Fiumesanto e nel Sulcis ma questi investimenti non sono previsti. E a complicare la questione energia c’è un altro aspetto che riguarda la Saras: i benefici del Cip 6, (previsti nella bolletta Enel), saranno annullati nel 2018. Questo potrebbe significare un disimpegno della produzione energetica.
Imprese. Le buone notizie vengono dai piccoli imprenditori che, nonostante le mille difficoltà burocratiche, cercano di ampliare i propri mercati. I campi più favorevoli sono quelli dell’agroalimentare, della nautica e dell’Ict. Per l’agroalimentare la Sardegna è la prima regione italiana come reti di impresa: 94 aziende sarde sono infatti coinvolte in contratti di rete. Di queste 71 appartengono al settore agricolo e, in particolare all’allevamento di animali (33).
Crisi. Quando si uscirà dal tunnel della crisi più lunga degli ultimi anni? Le stime della Banca d’Italia e del Crenos sull’andamento dell’economia in Sardegna fanno capire che ancora non si vede la luce. Con la consapevolezza che dalla fine della crisi passerà ancora un anno prima che le aziende possano ritornare ad assumere.
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