in giro con la lampada di aladin in cerca delle verità…

lampadadialadmicromicro- Israele ci riguarda
Alessandro Mongili su SardegnaSoprattutto

By sardegnasoprattutto / 2 agosto 2014 / Società & Politica / 3 Comments

Ho ammirato e ammiro la grande cultura ebraica europea e americana, la stessa che mi ha insegnato a essere critico e a diffidare degli idoli da noi stessi costruiti. A non adorarli, secondo l’insegnamento dei profeti di Israele. Da giovane, consideravo Israele “la modernità”, come tutti noi di sinistra. Un paese eroico che ammiravo. Chi non ricorda il deserto fatto fiorire e i pompelmi di Giaffa? Anche se, in realtà, in quella regione da secoli esisteva un’agricoltura assai prospera. Ma Israele ci sembrava un Davide moderno contro i Golia tradizionali che lo circondavano. I kibbutz, le irrigazioni, le università, la democrazia, i diritti, il Bauhaus di Tel Aviv oscuravano il fatto che fra i suoi stessi cittadini, il 20%, i palestinesi o, meglio, gli arabi-israeliani, nella neolingua sionista, erano esclusi da parecchie cose. Perfino Toni Negri è stato nei kibbutz. Anche altri miei amici “di sinistra” sono stati nei kibbutz. Magari i racconti erano terrificanti, però comunque, alla fine, l’esperienza era esaltante. Si stava costruendo un futuro migliore.

Negli anni ‘30 il movimento sionista decise di escludere la possibilità stessa di impiegare arabi nei kibbutz, e di creare una società ebraica separata in Palestina. L’opzione “un popolo, uno Stato” cominciava dalle piccole cose della vita quotidiana. In Europa, dopo la Seconda guerra mondiale e la sua terribile lezione, questa idea sarebbe entrata in crisi e avrebbe spinto a integrare gli Stati-nazione in unioni più vaste che rendessero il governo altra cosa dalla nazione. Israele rimaneva invece legata a quell’idea, per giunta in una terra abitata da un altro popolo. Ma, negli anni ’30, l’Italia stessa proclamava l’Impero e il colonialismo sembrava ancora normale. Gli Stati moderni, in fondo, avevano ogni diritto di dare alle “belle abissine” un futuro moderno, ancorché subalterno. Cos’era la Palestina, se non “una terra senza popolo per un popolo senza terra”? I poveri e arretrati contadini locali avrebbero accolto questo popolo istruito e sostanzialmente europeo come la manna dal cielo.

Dopo la grande tragedia della II Guerra Mondiale, la retorica dello sviluppo sostituì quella della colonizzazione, e nel breve volgere di un decennio gli imperi coloniali si sgretolarono.
In Israele, alla popolazione originaria palestinese si diede l’aut aut: ubbidire, accettare la subalternità in casa loro, o sparire. Spesso, solo sparire o essere annientati. La Palestina subì un “piano di rinascita” veramente radicale. 440 villaggi palestinesi vennero rasi al suolo e i loro abitanti deportati, nel breve volgere di pochi giorni, la terribile Nakba che accompagnerà per sempre il ricordo della nascita di Israele. Molti monumenti, fra cui il santuario di Seyid Hussein a Asqalon/Ashkelon, vennero rasi al suolo in seguito a una direttiva dello Stato ebraico del 1950 relativa allo sradicamento dei segni della cultura araba, anche architettonici. La memoria di Israele non poteva comprendere infatti i 2000 anni di Palestina ellenizzante, romana, bizantina, araba, crociata, ottomana e coloniale. Esistono solo i miti biblici, opportunamente rivisitati. Israele era il ritorno biblico, e insieme la modernità pura.

La modernità, ci ha insegnato Bruno Latour, si caratterizza per pratiche di “purificazione”, oltre che di traduzione, che ordinano l’esistente in base a classificazioni, già studiate in profondità da Michel Foucault. Una qualità, ad esempio l’appartenenza etnica e nazionale, diventa il carattere di intere moltitudini, nonostante l’ampio spettro di diversità di ogni tipo contenute al loro interno, così come in altri ambiti la sessualità e il genere diventano per i “moderni” strumenti di governo, ma anche di interpretazione del complesso delle personalità. Non importa che siano cristiani o musulmani, borghesi o contadini, istruiti o fanatici. Il solo fatto di essere palestinesi li disponeva a un nuovo status, di rifugiato o di sottomesso.

Forti della legittimità culturale e dell’incredibile forza del modello che vede nella modernità una società per propria natura opposta a quella tradizionale, e dell’idea che gli orientali fossero arretrati per natura (secondo lo stereotipo mirabilmente decostruito nel classico contemporaneo di Edward Said), gli Israeliani si sono posti all’avanguardia di questo processo, e sino a oggi sembrano non aver capito che è un modello che già con la II Guerra Mondiale ha iniziato a entrare in crisi dappertutto, perché la contemporaneità non può non essere ibrida.
Il loro lavoro si è infatti rivelato inutile, aperto solo a un’infinita (e inconcludente) opzione militare. Coloro che gli Israeliani hanno classificato Palestinesi si sono mostrati singolarmente indocili e resistenti al ruolo assegnato loro da questo disegno astratto di purificazione della Palestina dalla loro presenza e di separazione fra loro e i coloni ebrei e i loro discendenti.

Se, secondo Georg Simmel, noi contemporanei “siamo tutti ebrei”, nel senso che ormai siamo tutti stranieri e condividiamo il destino di chi arriva nei luoghi da fuori, e ci resta, oggi siamo singolarmente “tutti israeliani”, sinché condividiamo la credenza assurda nella modernità e nei suoi miti purificatori, per cui rispetto al passato può esserci solo cesura e il nostro presente deve solo essere rivolto alla “costruzione” di un futuro modulato su ideali “purificati”.

L’orrore di Gaza non è che l’orrore splatter e ultraviolento della morte e della distruzione. Ancora più orribile è il sistema che la giustifica, una microfisica della separazione e della purificazione quotidiana della Palestina dai suoi abitanti originari, che si manifesta nelle Anagrafi e nei Registri delle popolazioni, nei Catasti e nelle requisizioni, nel doppio status di cittadino israeliano ma di nazionalità non ebraica, nella recinzione ermetica della striscia di Gaza e nel controllo dei varchi, nelle zonizzazioni oscene per etnia di appartenenza, nella chiusura delle residue città e villaggi palestinesi nei territori occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme, negli opulenti insediamenti illegali ebraici nel bel mezzo di intere città assetate e asservite, come Hebron, e in tante altre deleghe alle tecniche e a congegni e strutture divisorie.

Vite quotidiane armate in cui la morte è banale, la sofferenza una casualità di cui scusarsi con brevi comunicati. E’ un lavoro di enormi burocrazie e di tutto un esercito che si trasforma in polizia. E’ il lavoro di un popolo di rifugiati che si trasforma in un popolo di aguzzini necessariamente razzisti, per cui il male è banale. La brutta fine fatta dal popolo israeliano è quella che aspetta ogni popolo che si affidi alle credenze “moderne” in modo fideistico, che non accetti la diversità e la ricchezza di ogni ibrido, che adori gli idoli della “modernità”, che esso stesso si costruisce.

Non ci illudiamo di essere estranei a questo percorso. Se guardiamo alla nostra storia recente, noi sardi, vedremo quante analogie e quante idolatrie ci accomunino a questa storia tremenda della Palestina, in questa epoca sorprendente che condividiamo.

3 Comments

Marcello Carlotti

2 agosto 2014 at 12:05

Molto interessante e ben, epistemologicamente, argomentata la sua lettura. Sono un antropologo che, per qualche tempo (diciamo un tempo sufficiente), ha vissuto in quei territori e ci ha lavorato. Come si dice in gergo: “sono stato sul campo”. E sono arrivato su “quel campo” con idee molto prossime alle sue. Idee che in parte, come sempre accade, si sono dimostrate inadeguate a cogliere la trama, molto più complessa e intricata, della realtà fattuale. Del resto, come scrive anche lei parlando di traduzione (e interpretazione), ogni atto ermeneutico umano è un processo di semplificazione del reale – l’esser-ci, diremmo con Heidegger, non è mai bastevole per comprendere e rendere l’Essere. Sarebbe necessaria, per rispondere nel merito delle sue sollecitazioni, un post almeno altrettanto lungo del suo e, non volendo abusare della pazienza di nessuno (e non essendone richiesto da alcuno) per ora lo risparmio.
Mi voglio concentrare su due soli punti: la citazione del grande Said e del suo splendido Orientalism e il suo riferimento comparativo ai fatti di terra sarda.
Il grande e profondo significato della lezione di Said non si limitava a registrare lo stereotipo – con radici già medievali – dell’Occidente (macrocategoria) rispetto all’Oriente (altra macrocategoria). Non si limitava a criticare e decostruire pezzo per pezzo quel processo di subalternizzazione e produzione di immagine – gli orientali, appunto.
La grande e potente intuizione di Said andava oltre e mostrava come, in definitiva, quell’immagine e le dinamiche di imposizione del segno rappresentante sul token rappresentato siano andate tanto in profondità da fissarsi nell’immaginario collettivo non solo occidentale ma anche orientale, al punto che molti “orientali” si sono “orientalizzati”.
Direi che, fra le sue righe, è importante questo processo culturale: quanto sono potenti le spinte del simbolico che riescono a farci recitare un ruolo che non è nostro, convincendoci di essere quel che altri ci dicono che siamo?
Quanto la Sardegna e i Sardi sono stati e si sono fatti Sardizzare?
Secondo il mio modesto avviso, partire da qui ci porterebbe anche a meglio riflettere sulla necessità di gridare, da decenni ormai, di una sola identità sarda, di una sola lingua (il sardo), etc. portando avanti, culturalmente e politicamente, una istanza omologante.
Un ultimo spunto: ha riflettuto sul fatto che, una fazione politica recente (fatta peraltro di persone preparate e mossa da ottime intenzioni) ha scelto di riunirsi sotto il nome singolare di Sardegna Possibile, declinando il possibile in una unica direzione?
Quanto sarebbe stata più spumeggiante e inclusiva la loro proposta se il vessillo linguistico invece che al singolare si fosse declinato al plurale e si fosse parlato e parlasse di Sardegne Possibili?

Rimango a disposizione per un confronto più argomentato sul caso Israele, Palestina, Oriente, Arabi.

Cordiali saluti

MC

Alessandro Mongili

2 agosto 2014 at 13:28

Gentile Marcello Carlotti, grazie per le sue osservazioni. Lei propone due argomenti: il primo riguarda “Orientalismo” di Said e le sue interpretazioni, mentre il secondo riguarda noi Sardi e Sardegna Possibile (progetto al quale ho partecipato e partecipo).
1. Orientalismo, come ogni classico, merita di essere criticato. Ed è stato criticato all’interno dei postcolonial studies, ad esempio. Nel progetto culturale di Dipesh Chakrabarty, ad esempio, cioè della necessità di “provincializing Europe”, provincializzare l’Europa, si sviluppa una critica parallela a quella che si è fatta a Foucault (per esempio nell’opera di Michel De Certeau), cioè si pone il problema di uscire da un’interpretazione dei fenomeni di dominio tutta centrata sull’analisi dei dominanti. Infatti, il discorso “orientalista” crea un quadro nuovo, un nuovo “ordine del discorso”, rispetto al quale non si può agire rovesciandolo, ma corrodendolo (detto in estrema sintesi). Noi siamo insieme moderni e amoderni, e il discorso della modernità rientra nelle nostre vite come un elemento importante dal quale non possiamo prescindere, ma che dobbiamo ibridare. Per questo personalmente non credo in ipotesi di ribaltamento o di ritorno al passato, in Palestina e in Israele. Come è possibile pensare quel luogo senza tenere in considerazione quello che è accaduto? In realtà, l’unica strategia vincente è stata quella di Nelson Mandela, cioè quella di formare un ibrido e di accettare la storia, tutta la storia. Quindi anche la storia di Israele.
2. Questo secondo me è valido anche per la Sardegna e per la questione della sua lingua, che lei evoca. Proporre una LSC o un progetto simile e aggiornato significa proprio fare quello che ha fatto Mandela in altri ambiti. Significa portare il confronto sulla nostra realtà linguistica proprio dentro quei meccanismi tecnici e reticolari che impongono di fatto un monolinguismo e l’esclusione del sardo e delle altre lingue della Sardegna, accettando la storia, tutta la storia linguistica, della Sardegna. Significa porre il problema della parità e della uguale dignità, che nel mondo attuale, dominato dalle reti e quindi dagli standard che le rendono solide, significa proprio lavorare a standard ortografici (come minimo).
In ogni caso, Sardegna Possibile è un progetto politico innovativo che ha caratteri politici generali e che contiene anche il tema della lingua (troppo poco presente ma, ad esempio, presentissimo negli OST molto 9più che nelle aspettative di chi ha lanciato la cosa, indipendentisti compresi, sempre tutti a pensare che si tratti di una cosa secondaria, forse terrorizzati dalle nostre biografie di colonizzati e dallo stigma che accompagna i sardofoni).
Non so se ho risposto alle sue aspettative e ai suoi interessanti interrogativi, ma rimando pure io a disposizione.
Shukran.

marcello carlotti

2 agosto 2014 at 18:17

Rispondi

Ne riparleremo. Bevakashà (tanto per ibridare).
Ps. Che avrebbe detto il buon filologo Gramsci di tutto questo citare e citare, gente che lo cita, senza citare lui è il suo fondante concetto di subalternità…?

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