Sono convinto sia necessario farlo in modo ancora più netto, proprio in un momento come questo, nel quale è forte la distanza fra politica rappresentata e società civile.
Capita che chi governa, pur mosso da nobilissimi sentimenti, spesso sia invaso da una sorta di sindrome Weberiana. Max Weber definì la politica quella attività per la quale si ottiene il legittimo monopolio del potere e dell’uso della forza. C’è chi, ispirandosi a tale definizione della politica, decide ritenendo tale decisione legittima e quindi giusta.
Eppure, in un sistema democratico, v’è un altro concetto di politica molto più impegnativo e accattivante di quello Weberiano ed è quello secondo il quale la politica sia la sfera nella quale si assumono decisioni collettive e sovrane.
La politica, quindi, non quale esercizio legittimo di potere e di forza, bensì quale costruzione di decisioni. Costruire decisioni, significa confronto, significa analisi, significa proposta di metodo e di percorsi. Questo è, e dovrebbe essere, l’abito del quale dovrebbe vestirsi chi fa politica, e ancor più chi governa!
Sulla base di questi concetti espressi, va chiarito subito, soprattutto a chi ha espresso dubbi in questi giorni, che questo incontro di oggi non è contro qualcuno, ma semmai è un incontro per…. Anzi, è un’opportunità, soprattutto per chi governa le istituzioni regionale, provinciali e comunali.
E sarebbe sbagliato in ogni caso ritenere che il problema possa essere, non il merito delle questioni sollevate, bensì il fatto di averlo fatto!!
Sarebbe interessante riuscire a dare una governance alla pianificazione delle questioni culturali. Ultimamente sembra diventato di moda parlare di governance. Eppure, sottende un modo molto moderno e innovativo di gestire la cosa pubblica. Tra governo e governance c’è un cambio di direzione molto significativo. Si dovrebbe passare, cioè, dal governo come azione del soggetto che provvede direttamente (provider), a quello invece che affronta le questioni rendendo possibile la ricerca di soluzioni differenziate. Soprattutto attraverso la mobilitazione ampia di altri soggetti.
Ciò detto, questo convegno, questo incontro, offre a tutti noi un’occasione in più per fornire al nostro fare politica, elementi di analisi, di riflessione e l’impostazione di proposte. E certamente questa discussione potrà migliorare l’approccio alle problematiche dibattute se l’atteggiamento del fare politica sarà quella della costruzione.
La cultura non dà da mangiare……
Scritto così, con i puntini di sospensione, implicherebbe una drammatica presa d’atto.
Eppure, come il relatore (Antioco Usala) ci ha detto esponendo i dati di Federculture 2012, non sembrerebbe proprio così.
Nel 2011 in Italia la spesa delle famiglie per acquistare beni e servizi culturali ha raggiunto i 70,9 miliardi di euro, con un incremento del 2,6% rispetto al 2010.
Numeri di questo valore, in uno scenario così drammatico per quasi tutti i settori economici, fanno constatare che la cultura, non solo da da mangiare, ma rappresenta fulcro di sviluppo economico.
Tra il 2001-2011: in Italia, la spesa dei cittadini per ricreazione e per l’acquisto di prodotti culturali (cinema, teatro, concerti, musei, mostre) hanno registrato una crescita del 26,3%.
Il rapporto dimostra che la crescita della domanda culturale cresce in relazione allo sviluppo delle politiche culturali e a quello del sistema di produzione e di offerta. Non dipende cioè dal numero dei siti archeologici o monumenti disponibili, ma da ciò che si organizza e da come lo si fa.
Ciò nonostante, continua il rapporto di Ferculture 2012, gli Investimenti pubblici sono in forte calo. Negli ultimi dieci anni il bilancio del MIBAC è diminuito del 36,4%, arrivando nel 2011 a 1.4 miliardi di euro contro i 2.1 del 2001.
In rapporto al bilancio totale dello Stato lo stanziamento per la cultura rappresenta solo lo 0,19%.
Il Fondo Unico per lo Spettacolo, che dai 501 milioni di euro del 2002 è stato ridotto ai 411 milioni di euro del 2012, è diminuito in un decennio del 17,9%.
Negli enti locali le cose non vanno meglio. Da una ricerca campione fatta su 15 comuni (fra cui Cagliari), si evince che fra il 2008 e il 2011 la spesa culturale delle amministrazioni comunali, in particolare per la parte investimenti, è diminuita mediamente del 35%.
Di contro…nel 2010 il valore dell’export italiano di beni creativi è stato di oltre 23 miliardi di dollari, in crescita dell’11,3% rispetto al 2009.
L’Italia mantiene una posizione di leadership: è il 4° paese al mondo per esportazioni di beni creativi, mentre in particolare per il design è il primo Paese esportatore tra le economie del G8.
La produzione di beni e servizi culturali, rappresenta il 4,5% del Pil europeo e il 3,8% degli occupati totali.
Nonostante questi dati, haimé, lo Stato disinveste in cultura, mentre gli altri Paesi fanno il contrario, riconoscendo nella cultura un valore determinante per l’economia complessiva di uno Stato.
Avrei voluto verificare i dati sulla cultura in Sardegna, ma purtroppo il portale statistico regionale, mette a disposizione solo dati sino al 2007 sull’accesso ai servizi ricreativi e sino al 2009 per quelli di spettacolo e teatro.
Sul fatto che la cultura dia da mangiare, da questi numeri, mi sembra più che confermato.
Ciò che manca è la presa di coscienza da parte delle istituzioni, che l’attivazione di politiche a favore del settore culturale, non è un optional, bensì una questione strategica di rilevanza centrale.
Alla questione cultura deve essere attribuito un ruolo gerarchico alto nell’agenda delle priorità politiche ed istituzionali. Proprio per le implicazioni che essa ha nella vita sociale e nei modi di vivere e di strutturarsi della coscienza o delle coscienze collettive. Anche della coscienza politica.
Diceva Joyce Lussu, coscienza politica è cultura!!
Cultura, che secondo il concetto aristotelico della “Catarsi”, determina benefici diretti ed indiretti sugli individui agendo come rigeneratrice sociale.
Secondo il modello anglosassone, biblioteche, teatri, musei, cinema, musica e qualunque centro di produzione artistica e creativa, sono essenziali per la costruzione, la diffusione e l’affermazione di valori e di processi di coesione. E aggiungo io, sono indispensabili per l’affermazione identitaria e lo sviluppo del senso di appartenenza di un popolo.
E se è questo il ruolo riconosciuto alla cultura: vale a dire settore strategico dal punto di vista economico e dall’altro strumento di crescita e coesione sociale, beh allora devono essere attivate opportune e conseguenti politiche.
Deve essere respinta la teoria della crescita sbilanciata di Baumol e deve riconoscersi alla cultura e al settore culturale, la capacità di incidere anche sull’accumulazione economica.
Parimenti, devono attivarsi strumenti capaci di garantire il miglior funzionamento creativo e organizzativo del settore e, soprattutto, la sua fruizione da parte dei cittadini.
Venendo alle cose di casa nostra: il teatro lirico è o no l’industria culturale principale? 22 milioni di euro di bilancio annuo, sono un argomento sufficientemente rilevante per ritenere necessario attivare rapidamente tutte le procedure possibili per garantirne il governo e il funzionamento?
La politica e chi governa hanno il compito e la responsabilità, non di arrogarsi il diritto di definire la cultura, ritenendo di poter dispensare patenti in tal senso, bensì devono costruire le strategie organizzative che consentano a chi la cultura la fa, di essere produttivo e di rendere fruibile tale produzione.
Qualunque livello di razionalizzazione organizzativa non può in nessun modo essere approcciato in modo economicistico.
Per questo serve che a Cagliari sia costruito un piano strategico della cultura. In tal senso, pur riconoscendo l’importanza di averlo fatto, serve a poco attivare una grande operazione di ascolto, senza che vi sia una attenta selezione di chi si ascolta.
Non può passare come operazione democratica ascoltare centinaia di operatori, ritenendo che tutti siano uguali e livellando i contributi da questi offerti, comunque non dando valore progettuale all’ascolto.
Ci sono compagnie e associazioni culturali che hanno prodotto, hanno fatto e fanno formazione, operano a livello professionistico, hanno riconoscimenti sul piano regionale, nazionale e internazionale. Ci sono associazioni che hanno costruito intorno allo spazio utilizzato, veri centri di elaborazione, produzione e diffusione di cultura, formazione e opere. Insomma, non sono tutti uguali!
Un buon piano sulla cultura andrebbe costruito con l’approccio politico di cui parlavo in premessa. Se così si facesse, si aprirebbe un tavolo di costruzione, selezionando fra i tantissimi che fanno cultura, coloro che sono organizzati e già si sono dati rappresentanza e in sintesi, oggi a Cagliari, sono i protagonisti indiscussi della produzione creativa e culturale.
La cultura dà da mangiare, ma ciò necessita, soprattutto nello scenario Regionale, di mettere in pista un grande progetto di qualificazione. Un’azione che sia capace di tirare su il livello dell’offerta e delle competenze, soprattutto nella connessione fra cultura e fruizione turistica.
In questi giorni una componente della segreteria Rossomori mi raccontava di aver visitato un importante sito archeologico della Sardegna. Fra i visitatori c’era anche un gruppo di stranieri. Beh nessuno fra le guide presenti era in grado di parlare in inglese. Potete immaginare l’interdizione di questi. In quel caso, il nostro patrimonio storico archeologico, è stato visitabile ma non fruibile.
Il Consiglio Regionale sembra impegnato nella costruzione di un nuovo ente, una fondazione, all’interno del quale vuole metterci di tutto e di più. E’ indubbio che per molti lavoratori del settore ciò viene visto come la soluzione occupativa, ma non basta questo per dire che ciò è bene. Noi siamo perplessi. Infatti, le esperienze diffuse a livello europeo, dimostrano che le politiche di accentramento nella gestione della cultura non sortiscono effetti positivi, ma spesso determinano un forte calo del dinamismo e della crescita.
Per concludere vorrei fare una proposta operativa che vale per Cagliari ma vale anche per la Regione. Rossomori propone l’attivazione di un osservatorio sulla cultura, che non abbia però meri compiti di rilevamento, ma che sia uno strumento operativo.
1) Un Osservatorio consentirebbe di trasformare il ruolo dell’istituzione da provider, in organizzatore per l’individuazione collettiva delle soluzioni.
2) Consentirebbe lo sviluppo di analisi condivise fra istituzione e gestori.
3) Consentirebbe una maggior conoscenza delle problematiche e quindi aumenterebbe le possibilità di attivare strumenti idonei.
4) Consentirebbe di ottenere dati complessi attraverso i quali si possano fare analisi e valutazioni sulla produzione artistica, sulla fruizione della cultura, sul funzionamento delle sedi, sui livelli occupativi, sui livelli formativi.
5) Consentirebbe di produrre studi e ricerche e, quindi, di realizzare progetti speciali sulla qualificazione degli interventi e sullo stesso utilizzo delle risorse economiche.
Sull’argomento le opinioni di Vito Biolchini (nel suo blog)
https://mail.google.com/mail/u/0/#inbox/137ecbb87a98a0bf