in giro con la lampada di aladin…

aladin-lampada3-di-aladinews312- Ma se la cultura in Sardegna e a Cagliari è governata dalla sinistra, perché rischia di chiudere il Centro di Documentazione e Studi delle Donne? Vito Biolchini su vitobiolchini.it like matisse faccina- Centro di Documentazione e Studi delle Donne : approfondimenti
- Vannino Chiti: perché dico no al senato di Renzi
Intervento in aula Senato sulla Riforma Costituzionale, ripreso da Democraziaoggi

Vito-Biolchin-occhialiniiMa se la cultura in Sardegna e a Cagliari è governata dalla sinistra, perché rischia di chiudere il Centro di Documentazione e Studi delle Donne?
by vitobiolchini

Sarebbe bello se, seguendo il precetto evangelico, valutassimo l’albero dal frutto. In politica lo si fa raramente, e infatti ci accontentiamo delle etichette, delle autodefinizioni. In questo modo, dimenticando il frutto, non si può che dar ragione a Ortega Y Gasset quando afferma che “essere di sinistra è, come essere di destra, uno degli infiniti modi che l’uomo può scegliere per essere un imbecille”.

Ora, in via Lanusei 15 a Cagliari è nata nel 1978 la Libreria delle Donne, poi diventata Centro di Documentazione e Studi delle Donne. Un luogo importante per la città, una vera e propria istituzione culturale che ha formato generazioni di giovani e che ha contribuito alla crescita culturale, sociale e politica delle cagliaritane e dei cagliaritani.

Il centro ora rischia di chiudere perché non ce la fa più ad autofinanziarsi. Il comune di Cagliari lo ha sostenuto lo scorso anno erogandogli la bellezza di 370 euro. Una miseria che per decenza le responsabili del centro hanno giustamente lasciato nelle casse di via Roma. Inoltre, pur rientrando nel circuito di biblioteche riconosciute dalla Regione, da due anni il centro non usufruisce di alcun sostegno in quanto le risorse per questo tipo di strutture non vengono più stanziate.

Se il comune di Cagliari assegnasse una sede stabile al centro (da sempre ospite di privati) il problema verrebbe risolto definitivamente. Ma il comune di Cagliari non ha mai voluto affrontare in maniera corretta la questione degli spazi culturali, non ha mai pensato di affidare alle associazioni le sedi delle ex circoscrizioni, le aule di tante scuole oramai disabitate o altri stabili di proprietà dell’amministrazione.

Il comune di Cagliari ha fatto invece dei bandi disastrosi per affidare in maniera rocambolesca la gestione dei centri comunali, bandi figli di un piano della cultura totalmente sballato (lo scrissi temporibus iillis, il 14 aprile del 2012 nei post E questo sarebbe “Il Piano per la Cultura a Cagliari?, e il 1° luglio dello stesso anno L’inutilità del nuovo Piano comunale della Cultura) e i cui frutti avvelenati si raccolgono adesso: copiosi.

Bisognava mappare la città, censire tutte le attività in corso, distinguerle con raziocinio, sensibilità e intelligenza, e dare ad ognuna la risposta adeguata: così non è stato.

Il centro di documentazione delle donne non può chiudere. Dalle decisioni che spettano al sindaco Massimo Zedda, all’assessore comunale Enrica Puggioni e all’assessore regionale Claudia Firino capiremo realmente se la cultura a Cagliari è in Sardegna è realmente governata da politici che si dichiarano di sinistra (perfino “ontologicamente”) oppure se in questo caso ha ragione Ortega Y Gasset. Aspettiamo fiduciosi.

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democraziaoggi loghettoVannino Chiti: perché dico no al senato di Renzi
23 Luglio 2014
Vannino Chiti
Intervento in aula Senato sulla Riforma Costituzionale, ripreso da Democraziaoggi

Signor Presidente, Colleghe, Colleghi,
…Per me oggi, nel 2014, più che mai partecipazione e governabilità devono essere non contrapposte, ma avvertite come due facce della stessa medaglia; più che mai i controlli risultano essenziali nel decifrare la qualità di una democrazia
Quello che in Italia manca – ed ora si accentua ancor più – è l’equilibrio tra i vari poteri.
Si elegge direttamente il Sindaco e per me è giusto: ma si sono ridotte ad uno scarso ruolo le assemblee comunali. E’ sbagliato. Non era, non è inevitabile!
Così è avvenuto per le Regioni: il Presidente eletto insieme ai consigli, il «Simul stabunt, simul cadent» rendono oggettivamente subalterne e a rischio di ininfluenza le assemblee regionali.
Ora così di fatto avverrà a livello nazionale: a controlli scarsi, anche per colpa della nostra cultura politica, a differenza di quella anglosassone, per gli strumenti a disposizione e per le nostre regole, si accompagna uno spostamento oggettivo di peso decisionale sui governi.
Alcune forze politiche parlano di elezione diretta del Presidente della Repubblica, mentre sostengono che i cittadini non devono eleggere più neanche i senatori.
Da un lato tutti, cioè la politica nel suo insieme viene a perdere credibilità e autorevolezza, con questi acrobatismi incredibili; dall’altro si allunga un’ombra inquietante sul nostro futuro.
Non è quella della possibile elezione da parte dei cittadini del Presidente della Repubblica così come avviene negli Stati Uniti: è quella di un Presidente eletto, senza contrappesi autonomi, senza Camere e Senato forti e legittimati.
E’ quella insomma, di un modello regionale che diventa nazionale, mentre dovrebbe essere profondamente corretto.
Già ora – con la ghigliottina così formulata, anche se migliorata, ma in modo insufficiente – si spostano equilibri sul governo. Al tempo stesso bisogna rivedere, riducendolo in modo significativo il numero delle firme necessarie per Referendum e Leggi elettorali.
Voglio partire, anche per contribuire ad un confronto schietto, forte, ma di merito e costruttivo, dai punti che mi convincono: solo la Camera darà la fiducia al governo e avrà l’ultima parola su gran parte delle leggi. Sta qui il superamento del bicameralismo paritario. E’ questo il nucleo forte da salvaguardare. Sul resto si può e si deve discutere e poter cambiare. Concordo anche sul diritto, assicurato alle minoranze di ricorrere alla Corte sulle leggi, prima della loro attuazione.
Altri punti – non solo il modello di elezione al Senato – non mi convincono: a mio giudizio aprono anzi problemi enormi, di equilibrio tra istituzioni di impoverimento di ruoli di garanzia tra poteri dello Stato.
Il nuovo Senato è una peculiarità continentale: lo ha detto la Senatrice Finocchiaro e la ringrazio perché ha evitato una semplificazione propagandistica, non vera: quella che sarebbe come il Bundesrät. Una affermazione quest’ultima che non sta né in cielo né in terra. Che il nuovo Senato sia una “peculiarità continentale” è vero: in particolare su due questioni.
a) Modalità di nomina dei 21 sindaci e 74 consiglieri regionali che saranno senatori, con alcune norme di elezione indiretta messe addirittura in Costituzione, norme oltretutto ambigue e confuse: i Consigli regionali dovranno tenere conto da un lato dei voti avuti dalle forze politiche alle elezioni (riferimento proporzionale), dall’altro della loro composizione, cioè della composizione dei gruppi: un riferimento del tutto opposto, visto che in ogni Regione scatta un premio di maggioranza forte. Quasi ovunque con il 40% dei voti si ha un premio che assegna il 60% dei consiglieri.
Come si scioglierà questa nuova “conciliazione degli opposti”, da sempre “bizantina compagna” delle non scelte della politica italiana: con trattative regione per regione, tra maggioranza e opposizioni, nelle maggioranze, nelle opposizioni; con qualche maggioranza che deciderà la minoranza da far rappresentare al Senato? Oltre a questo, il disegno si completa poi con la sussunzione dei sindaci, in uno schieramento politico, di maggioranza o opposizione, ledendo il loro ruolo istituzionale, che non a caso li definisce primi cittadini. Chi rappresenteranno? Non la loro città, ma il loro partito, uno schieramento!
E in prima applicazione lista unica in più la presenza immediata del Sindaco di Bolzano, unico certo di essere domani senatore.
Non conosco il sindaco di Bolzano, ma eviterei misure ad personam in una norma transitoria relativa alla riforma della costituzione.
b) Secondo punto: nelle grandi democrazie europee non esiste il bicameralismo paritario: ma prendete la Francia, la Germania, la Spagna. Nessuno ha sperimentato questa via di una elezione indiretta, bloccata, con la nomina dei soli sindaci e consiglieri regionali, con un mix indecifrabile come ho detto di riferimento al proporzionale e al maggioritario. C’è il Bundesrät: ne fanno parte i governi regionali, con voto unitario. Vi si collega una legge per la loro Camera, il Bundestag; che prevede sostanzialmente il proporzionale, con lo sbarramento al 5%. C’è il Senato francese: nelle competenze assai “bicamerale”, certo più del Senato italiano che verrà, eletto da una platea più ristretta (consiglieri comunali, dipartimentali, regionali, deputati nazionali ed europei della circoscrizione), ma eletto, e che dalle prossime elezioni vedrà l’incompatibilità tra Sindaci, Presidenti di Regione e parlamentari. All’Assemblea nazionale la legge elettorale è maggioritaria a doppio turno di collegio. C’è il Senato spagnolo, per 4/5 eletto direttamente dai cittadini, per 1/5 dalle comunità regionali. La legge elettorale per la Camera ha uno sbarramento al 3%, con i resti dei voti bruciati nelle circoscrizioni.
In Italia, invece, si è stabilito un dogma: il voto dei cittadini è conservazione; manterrebbe il bicameralismo paritario. Una doppia falsità: si voterebbe in concomitanza con la elezione dei consigli regionali. E dunque il Senato non si costituirebbe con una elezione nazionale, né verrebbe sciolto ad una scadenza comune, fissa.
Sul voto dei cittadini, mi permetto di invitare ad un di più di attenzione e di riflessione: in democrazia i cittadini sono sovrani, sempre. Sostenere che se, passasse la conferma del diritto dei cittadini a scegliere con il voto i loro rappresentanti, la riforma sarebbe compromesso, è una assurdità. In queste impostazioni c’è il riflesso non di una cultura innovatrice, ma di tesi datate XIX secolo, cioè 1800: si, in quegli anni si sosteneva, da parte di alcune forze politiche conservatrici e dalle classi dirigenti, il ricorso a forme di elezione indiretta o di nomina dei parlamentari, come un argine rispetto alla democrazia come diritto di tutti a partecipare alle decisioni della comunità; si temevano i contagi del popolo, per la differenza di ceto, di conoscenza, di cultura.
E’ in questo contesto ad esempio che negli Stati Uniti all’inizio, il Senato veniva eletto in modo indiretto, dalle Assemblee legislative dei vari Stati: nel 1913, non ieri, fu decisa una riforma, che affidava ai cittadini il diritto di eleggere i senatori. Due i motivi che spinsero a questa riforma: l’eccesso di corruzione; il prevalere del localismo, di fronte alla funzione nazionale da assolvere.
Chiedo ai relatori: che cosa vi persuade nel ritenere che noi siamo immuni da queste derive? Non esiste già il cancro della corruzione? E le nostre regioni hanno forse una dimensione più ampia e popolazione più numerosa degli Stati americani?
La sfida che oggi incombe sulla democrazia rappresentativa si affronta e si può vincere se si estende la partecipazione, non se si rafforzano le deleghe a pochi. La globalizzazione non richiede forse che la democrazia rappresentativa esca dai confini nazionali e si dia nuovi strumenti, non affidati ai soli esecutivi ed alle loro concertazioni?
Chi è convinto che in Europa si debba costruire una vera democrazia sovranazionale, pensa di poterla realizzare con i popoli o senza di essi? Penso forse che per la democrazia i popoli siano necessari in Europa e se ne possa fare a meno all’interno degli Stati nazionali?
Non esiste democrazia senza i cittadini, né riformismo senza popolo. Nella società si vivono esperienze straordinarie di partecipazione: dal volontariato, ai Forum di confronto e di impegno per le scelte delle città.
Compito nostro dovrebbe essere quello di collegare la democrazia rappresentativa a esperienze, a volontà di partecipazione, non di chiuderla in piccole stanze di addetti ai lavori. Stiamo attenti, perché stiamo imboccando in senso contrario l’autostrada del futuro della democrazia.
Altri aspetti di questo progetto non mi convincono: li richiamerò in modo più schematico.
a) Competenze paritarie con la Camera. Ritenete debbano essere prerogative della maggioranza di governo la libertà religiosa? I diritti delle minoranze? le leggi di natura etica, come il testamento biologico?
Mentre il senatore Calderoli ha espresso sensibilità sul fatto che libertà religiosa e leggi eticamente sensibili non siano affidate preminentemente alla Camera dei Deputati e dunque a una maggioranza di governo, colleghi come il sen. Casini e il sen. Quagliariello, per i quali ho una stima che viene da lontano e con i quali ho avuto lunghe discussioni e a volte differenze, dando priorità alla realpolitik si mostrano sordi a questa esigenza. Insomma, per dirlo in modo schematico, è come se dai cosiddetti valori non negoziabili – impostazione che non ho mai condiviso – oggi bruscamente si passasse a quella di valori potenzialmente calpestabili. Immaginate cosa avverrà, domani: chi non è d’accordo su temi etici, sentiti e complessi, avrà a disposizione solo i referendum o la piazza!
b) Leggi non bicamerali: il testo e i relatori parlano su alcuni temi – bilancio, trattati internazionali – di procedura rafforzata, cioè maggioranza assoluta alla Camera per modificare una proposta del Senato, se – è il caso del Bilancio – il Senato stesso abbia votato a maggioranza assoluta. Ricordo ai colleghi che l’Italicum prevede che chi vince le elezioni – con o senza bisogno di ballottaggio – conquisti tra il 52 e il 54 % dei seggi alla Camera.
Il Bundesrät ha altre regole: lo dico perché, come ricordavo, si finge di costruire una istituzione simile. Niente, invece, di più distante! La procedura non straordinaria, ma normale del Bundesrät è che le sue proposte, sulle leggi non bicamerali, possano essere modificate da Bundestag – la loro Camera – solo con la stessa maggioranza con le quali il Bundesrät le ha approvate. E in Germania, il Bundestag non ha premi di maggioranza: il 50% dei seggi è a collegi, il 50 a proporzionale, con il 5% di sbarramento. E’ vero, sono tedeschi: e non hanno la creatività irraggiungibile su pluralità di soglie e “costrizione” per dare vita a coalizioni, che ha Denis Verdini.
Ma quando si parla di equilibri tra istituzioni, e all’interno della Costituzione, si intende questo. Non altro. Il nuovo Senato, sulle leggi non bicamerali, darà luogo a nobili pareri. NOBILI ma sempre PARERI!
c) Sull’immunità una sola considerazione. Se fate la scelta di un Senato nel quale saranno nominati 21 sindaci e 74 consiglieri regionali, ci sono due strade, se non si vuole rendere più facile ancora l’ampliarsi di non trasparenza e possibile illegalità. Lasciare in vigore solo il 1° comma dell’art. 68, che assicura l’insindacabilità delle attività parlamentari (per me è da preferire); oppure differenziare tra deputati – eletti per quanto con scelta vincolata – e senatori. Per questi ultimi lasciando in vigore il solo comma 1, mentre per i deputati aggiungere all’attuale formulazione dell’art. 68, il ricorso finale alla decisione della Corte Costituzionale.
d) Numero dei Deputati. Si innova a senso alterno, in questo progetto di riforma costituzionale. Ci si propone di farlo, al Senato; intoccabile deve restare la Camera. Per la Camera non ci sarebbero problemi di efficienza, di funzionalità, di risparmio della spesa pubblica. Anzi il ministro non vede neppure lo squilibrio che determina – in primo luogo per la elezione del Presidente della Repubblica – un rapporto tra 100 senatori e 630 deputati, non superato né con soglie più alte nelle prime 8 elezioni per eleggere il Capo dello Stato – perché dalla nona saranno sufficienti 366 voti – né con l’inserimento – che pure sostengo – dei deputati europei tra i partecipanti a quel voto. Serio è ridurre il numero dei deputati: sarebbe innovativo attestarsi a 315, ma almeno fermarsi ai 470, quanti erano i Collegi della Legge Mattarella.
Ritengo poi indispensabile – quale che sia il Progetto di riforma che verrà approvato – il ricorso al referendum confermativo. Sulla Costituzione l’ultima parola spetta ai cittadini, non a noi. Non dimentichiamo il giudizio della Corte Costituzionale sulla legge elettorale. Noi abbiamo legittimità formali ad agire e decidere, ma conviene non lasciare ombre, riserve politiche e etiche su una scelta di questo rilievo.
Sul Titolo V invito tutti a leggere l’intervento di Ugo De Servio su La Stampa del 15 luglio. Ne cito solo un passo: “La proposta resta però caratterizzata da due discutibili scelte di fondo: in primo luogo, diminuiscono molto i poteri legislativi ed amministrativi delle Regioni… anche al di là di quanto era stato ipotizzato dagli stessi critici delle Regioni negli ultimi anni; tutte le innovazioni relative a Regioni e Provincie non si applicano che alle quindici Regioni ad autonomia ordinaria, mentre per le altre tutto resta come prima”.
Vi rendete conto, Colleghi che si stanno mettendo vere e proprie bombe ad orologeria, ampliando divari e disuguaglianze tra cittadini e non solo istituzioni.
Infine, una questione che seguirà nei nostri lavori alla riforma del Senato, ma sulla quale qui, in Aula, – come è degno di una democrazia – e ora, si dovrebbero avere lumi, conoscenze, perché è un aspetto fondamentale, che ha un peso rilevante sulle modifiche costituzionali: mi riferisco alla legge elettorale.
Su eventuali cambiamenti c’è chi sa, magari al di fuori delle Camere; c’è chi immagina, chi sogna; chi – come gli amici del Nuova Centro Destra – annuncia battaglie che, vedendo le vicende di questi mesi, mai probabilmente si faranno. E’ una nota di colore, non un rilievo politico. Quello che importa è avere, in questo dibattito – nella replica del governo – risposte chiare, su temi precisi:
1. Si assume l’impegno che vi saranno o Collegi uninominali o preferenze?
2. Si assume l’impegno che vi sarà una sola soglia di sbarramento del 4 o 5%?
3. Si assume l’impegno che non ci si potrà candidare in più circoscrizioni? (non ci potranno cioè essere pluricandidature)
4. Si assume l’impegno che i voti dei partiti che non superano la soglia per l’accesso ai seggi non saranno conteggiati per conquistare il premio di maggioranza?
5. Si assume l’impegno – questo è più facile – perché la soglia per il premio, senza procedere al ballottaggio, sia posta almeno al 40% (meglio se ancora sopra)?
Sono tutti – questi e quelli relativi alla riforma costituzionale – temi di merito: non pretendo la condivisione. Vorrei – questo sì – ascolto, rispetto, confronto. Vorrei soprattutto risposte, se ci sono.
Chi è convinto del Progetto, non dovrebbe avere difficoltà a sostenere nel merito, senza slogan di propaganda, le sue argomentazioni. Quello che stiamo facendo, la nostra discussione, il nostro voto, ci carica di responsabilità. Non riguarda solo noi: riguarda principalmente i cittadini italiani.
Si impiega la stessa frazione di secondo a votare in un modo o in un altro, a favore o contro: non è il freno o l’orologio quello che può qualificare e dare dignità a questo progetto. E’ quello che contiene. E’ come riorganizzerà le istituzioni della Repubblica. E’ come farà funzionare la nostra democrazia. Nessuno di noi può nascondersi dietro un “non sapevo”, né dietro il privilegio di una realpolitik, se questa mortifica punti qualificanti della nostra vita democratica. Sulla Costituzione non si possono fondare calcoli o convenienze. Nessuno, domani, potrà auto-assolversi – se il progetto non sarà positivo negli esiti e nei suoi fondamenti -, dietro un ordine di partito, di maggioranza, di governo o di opposizione. No, qui l’unico giudice per ognuno di noi sono le proprie convinzioni, è la propria coscienza; è ciò che la nostra libertà e responsabilità ci induce a fare.
Qualche collega del mio partito mi ha detto: è vero, in queste riforme ci sono aspetti non convincenti, ma bisogna farsene una ragione. E’ frutto anche di errori del passato, di inconcludenze, che hanno aperto varchi ai “nuovi barbari”. A differenza di questi amici io non vedo barbari, ma mentre loro voteranno questo progetto, io – se non cambia – sento il dovere di non approvarlo. Condivido la valutazione degli errori compiuti, per i quali ognuno di noi porta una parte di responsabilità: errori seri che hanno riguardato i diversi schieramenti. Non mi persuade però la logica che ad un errore si possa rispondere con errori più gravi ancora e che questo possa assolvere la nostra responsabilità, pacificare le nostre coscienze, il senso del nostro impegno.
Vorrei concludere con una citazione, di un grande filosofo contemporaneo, per il quale ho una particolare attenzione, Jurgen Habermas: “la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriva da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Questa «forma ragionevole» non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma deve caratterizzarsi come un «processo di argomentazione sensibile alla verità»”.
Una Costituzione – e dunque ogni sua riforma – deve saper garantire tre esigenze: partecipazione piena dei cittadini, i sovrani in democrazia; governabilità; senso del limite nei confronti del potere, chiunque, qualsiasi partito, lo eserciti. Valutiamo alla luce di questi criteri il Progetto di riforma, verifichiamo le sue coerenze con i fondamenti della democrazia nel XXI secolo. Su questo siamo chiamati a confrontarci tra noi e poi con i cittadini, e a decidere.

Roma, 16 luglio 2014
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Da L’Unione Sarda 23 luglio 2014

L’Ue e il miraggio della crescita
- L’ambiguità di Renzi

di Beniamino Moro

C ‘è una larga fetta di opinione pubblica in Italia convinta che la mancata crescita della nostra economia non dipenda dalle nostre inefficienze interne, causate tra l’altro dall’invadenza e dall’aumento patologico del settore della politica, l’unico a non conoscere crisi, ma dagli effetti negativi delle imposizioni restrittive dei vincoli europei (patto di stabilità e fiscal compact).
Anche Matteo Renzi ha assunto al riguardo una posizione ambigua, lasciando prima intendere che il suo principale obiettivo in Europa fosse la modifica delle regole di bilancio. Poi, invece, constatata la difficoltà dell’impresa e preso atto del rifiuto anche formale espresso alle ultime riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin del 7-8 luglio scorso, ha realisticamente cambiato posizione, riaffermando che l’Italia rispetta i patti e accontentandosi di una non meglio precisata “flessibilità” interpretativa degli stessi vincoli, che lasciasse intravedere qualche margine di spesa da scomputare al loro interno. Perciò, il premier è stato accusato dall’opposizione di avere rappresentato solo una finzione scenica, ma in realtà ha accettato ancora una volta di sottomettersi politicamente a Berlino e Bruxelles, sacrificando in tal modo la nostra potenziale crescita.
Senza spingerci oltre in questa interpretazione politica degli ultimi avvenimenti europei, vediamo di analizzare gli aspetti economici del problema. La tesi (che molti definiscono keynesiana, facendo credere di possedere un solido bagaglio di teoria economica) secondo cui la crescita si fa con la spesa pubblica in deficit è molto radicata nei nostri politici, perché consente loro di spendere comodamente senza dover fare i conti con il fastidioso problema delle coperture di bilancio, ma è semplicemente sbagliata. La tesi corretta di Keynes era che la spesa in deficit dovesse correggere la fase negativa del ciclo economico, ma all’interno di un trend dove l’aumento del debito pubblico non superasse mai la crescita del Pil. Questa è la condizione teorica di stabilità e di sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico.
Chi rispetta questa regola, come la Germania, non è soggetto a crisi del debito sovrano e non viene attaccato dalla speculazione dei mercati, anche se fa politiche keynesiane.
L’Italia non ha rispettato questa regola. Negli anni ’80 si è data alla pazza gioia del deficit spending incontrollato, portando il suo debito pubblico dal 57% del Pil nel 1980 al 105% nel 1992, anno in cui i mercati ci hanno attaccato, costringendoci ad uscire dal sistema monetario europeo a tassi fissi allora vigente e a subire una forte svalutazione della lira. Per evitare il fallimento, il governo Amato fece la famosa manovra da 92 mila miliardi di lire. Fu proprio per evitare il ripetersi di situazioni di crisi analoghe e per imporsi un vincolo esterno, che costringesse i governi a darsi una disciplina di bilancio, che nello stesso anno fu approvato il Trattato di Maastricht, da cui è nata l’Unione monetaria. Questa ha funzionato benissimo nei suoi primi 13 anni di vita sino allo scoppio della crisi dei debiti sovrani nel 2010. Ancora una volta, la crisi è scoppiata per l’eccessivo indebitamento di alcuni Paesi, tra cui la Grecia, il Portogallo e l’Italia. Dalla crisi del debito sovrano, per fortuna, ne siamo usciti, almeno temporaneamente, ma non definitivamente, proprio grazie all’Europa e alla Bce, anche se la tendenza all’aumento del nostro debito pubblico non si è mai arrestata e tuttora prosegue a ritmo sostenuto. Per questo rimaniamo un Paese a rischio, che per noi sta garantendo la Bce. Se dovessimo uscire dall’euro, come qualche sconsiderato propone, il nostro fallimento in stile argentino sarebbe una prospettiva sicura.
Ma allora come si promuove la crescita? Nessuno ha la bacchetta magica al riguardo, anche se i Paesi come la Germania con bilancio pubblico in pareggio e surplus del 7% nella propria bilancia delle partite correnti, potrebbero, essi si, fare politiche keynesiane espansive. Noi no, non ce lo possiamo permettere, siamo guardati a vista dai mercati: se ripartiamo col deficit spending oltre il 3% del Pil, non c’è scampo: lo spread risale e non solo torniamo a rischio noi, ma mettiamo a repentaglio l’intera Unione monetaria europea (Ume). Perciò, i nostri partner europei non ce lo possono concedere e ci ripetono sino all’ossessione che le regole di bilancio, indispensabili perché l’Ume funzioni, non si toccano e vanno comunque rispettate. La strada per la crescita passa invece per l’eliminazione delle nostre inefficienze interne, degli sprechi e della corruzione, cioè per la riduzione della spesa improduttiva, non il contrario.

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