Eutanasia? Andare oltre le impostazioni ideologiche: prima di tutto il rispetto della persona e della sua volontà. La scienza e le tecnologie ci aiutano
L’8 giugno L’Unione Sarda ha pubblicato un’intervista di Giorgio Pisano al prof. Giuseppe Maria Saba – già professore ordinario di Anestesiologia e Rianimazione, prima nell’Università di Cagliari e successivamente nell’Università La Sapienza di Roma, da diversi anni in quiescenza – sul delicatissimo argomento del fine-vita. Non riassumiamo i contenuti dell’articolo, rinviando a una sua lettura, peraltro agevole, consentita dalla riproduzione dello stesso in appendice di questa sezione della news. Nella circostanza diamo spazio a un intervento del dott. Paolo Castaldi, primario del reparto di rianimazione dell’Ospedale Marino di Cagliari, che non costituisce una risposta alle considerazioni del prof. Saba, quanto piuttosto una puntualizzazione rispetto al dibattito in corso sia per gli aspetti etici sia per quelli strettamente collegati all’intervento legislativo, allo stato decisamente carente, che deve consentire ai medici “di operare con maggior attenzione e rispetto delle volontà del singolo individuo, sempre nel rispetto della vita ma con attenzione alla dignità della persona, alla qualità della vita e al controllo del dolore”.
Come Aladinews riteniamo giusto che si debba discutere di tali tematiche, offrendo un spazio aggiuntivo rispetto a quello fondamentale proprio delle comunità scientifiche e dei comitati etici, trattandosi di questioni che ci coinvolgono tutti direttamente in quanto persone, intimamente e come appartenenti alla società degli umani.
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di Paolo Castaldi *
Gentilissimo Direttore
Vorrei intervenire nel dibattito che si è aperto sul suo giornale in questi giorni [NdR. Si fa particolare riferimento all’intervista di Giorgio Pisano al prof. Giuseppe Saba apparsa su L’Unione Sarda dell’8 giugno u.s. e ripresa da molte agenzie e rassegne stampa] per provare a dare un contributo che chiarisca il lavoro e l’impegno che gli anestesisti rianimatori esprimono ogni giorno nelle sale operatorie, nelle rianimazioni, nelle corsie degli ospedali, nelle reti di emergenza, nei servizi di terapia del dolore, negli hospice, nella medicina iperbarica, nell’assistenza domiciliare ai pazienti critici.
L’obiettivo e la ragione di ogni azione sanitaria è il curare l’uomo sofferente e come tale esso può svilupparsi in due azioni differenti: da un lato la ricerca della salute dell’individuo e dall’altro il controllo della sofferenza e del dolore fisico e psichico.
Davanti alla sofferenza si consiglia la prudenza e un ascolto attento per cogliere la domanda che viene posta e per trovare una risposta possibile, il più coerente con la volontà del paziente.
Alla luce di questi presupposti, ed in linea con il codice deontologico, i documenti delle nostre Società Scientifiche ci invitano a distinguere tra il concetto di procurare la morte di un individuo e quello di garantire la dignità e il controllo del dolore nel paziente terminale. Non vi può essere alcun dubbio: la nostra storia culturale e le scelte che storicamente ci hanno portato a operare nei servizi di terapia del dolore, negli hospice, nelle cure palliative, nella assistenza domiciliare ai pazienti critici, nell’analgesia per il parto, nella promozione di un uso più ampio dei farmaci oppiacei anche nella rete territoriale, dimostrano la nostra volontà e il nostro operare incondizionato verso la tutela dell’uomo sofferente.
Evidentemente alcuni strumenti come il testamento biologico, il consenso informato, il dialogo tra il medico, il paziente ed i familiari potrebbero rafforzare la scelta di un percorso sanitario tra la possibilità di una cura, il controllo della sofferenza, l’accanimento terapeutico o la desistenza terapeutica. Non amo quest’ultimo termine che potrebbe sapere di abbandono terapeutico. Penso che sia giusto parlare di presa in carico del paziente con una scelta condivisa di un percorso di cura o verso una limitazione delle stesse e un approccio verso le cure palliative nel rispetto della persona. Papa Paolo VI già nel 1970 richiamava la necessità di rispettare la dignità della persona verso una tecnologia che avanzava e che poneva già allora problemi etici.
La Sardegna ha visto nascere negli anni 50 la sue due scuole di anestesia e rianimazione con due uomini di grande spessore e cultura che avevano messo allora le basi di questa nuova scienza e costruito una classe di specialisti anestesisti rianimatori, i cui allievi operano tutt’ora nei nostri ospedali: il Prof. Saba a Cagliari ed il Prof. Ruiu a Sassari. Sono stati tra i primi cattedratici in Italia. Le cure palliative sono nate successivamente proprio rispondendo ad esigenze già evidenziate profeticamente da loro, e che oggi vediamo svilupparsi. Proprio recentemente la Regione Sardegna ha recepito la legge nazionale n. 38 per la creazione di tre reti di assistenza domiciliare per le cure palliative, per il trattamento del dolore e per la parte pediatrica.
Le dichiarazioni del Prof. Saba esprimono con forza la necessità di fare chiarezza e di dotarci di strumenti legislativi come “le dichiarazioni anticipate di trattamento”, che permettano al medico di operare con maggior attenzione e rispetto delle volontà del singolo individuo, sempre nel rispetto della vita ma con attenzione alla dignità della persona, alla qualità della vita e al controllo del dolore.
Diversi significati vengono dati al termine eutanasia, tanto che il Prof. Veronesi e il filosofo Giovanni Reale hanno proposto di superare questo termine che genera confusione e viene spesso richiamato a sproposito per rafforzare ambienti e culture ideologiche che nulla hanno a che fare con la pietas e la sofferenza. È necessario distinguere all’interno dello stesso termine di eutanasia l’atto volontario di procurare morte dal controllo del dolore nella fase terminale della vita.
Il richiamo di Prof. Saba al pensiero del Cardinale Martini ricorda a tutti noi, attraverso la testimonianza della nipote, all’indomani della sua morte, l’ultimo dono del cardinale per noi tutti. Con la sua morte ha voluto dare testimonianza sulle scelte di fine vita chiedendo di poter affrontare il trapasso in sedazione per limitare il senso di ansia e di sofferenza.
Oggi la tecnologia va molto più velocemente dei tempi richiesti dalla nostra società nel dare risposte legislative e normative alle domande etiche che ogni giorno si impongono. Le nostre società scientifiche si sono dotate di commissioni etiche che elaborano documenti e linee di indirizzo che ci aiutano a dare risposte e che orientano il nostro operare quotidiano.
La saluto cordialmente
* Paolo Castaldi
Rianimazione Osp. Marino
Cagliari
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Da L’Unione Sarda del 08 giugno 2014
«Vi racconto le mie eutanasie»
- di Giorgio Pisano
«Quante volte? Almeno un centinaio nell’arco della mia carriera».
Può essere più preciso?
«No. Per la semplice ragione che nessuno terrebbe il conto delle persone che ha aiutato a morire».
Fino a quando l’ha fatto?
«Finché ho potuto. Era questione di pietà».
Giuseppe Maria Saba, Peppinello per gli amici, irrompe nel dibattito sull’eutanasia con una confessione che lascia sbalorditi: per lucidità e coraggio. Sassarese, 87 anni, in pensione dal 1999, dopo la laurea in Medicina ha vissuto tre anni in Inghilterra grazie a una borsa di studio del British Council. Al rientro in Italia, ha esordito da primario ospedaliero per diventare poi professore ordinario della cattedra di Anestesiologia e Rianimazione: prima all’università di Cagliari e successivamente a La Sapienza di Roma. Detto in altre parole, l’autorevolezza è indiscussa. Dal salotto iperpanoramico della sua casa cagliaritana parla con la lentezza di chi deve e vuole pesare ogni parola che finirà sul giornale.
Perché ha deciso di parlare?
«Perché non ne posso più del silenzio su cose che sappiamo tutti. Parlo dei Rianimatori, s’intende. Questa ipocrisia del dire e non dire va avanti da troppo tempo».
Cattolico?
«Laico, ma ho una grande ammirazione per giganti del pensiero come il cardinale Carlo Maria Martini».
Crede nei miracoli?
«Decisamente no. Perché mi fa questa domanda?»
Perché un malato terminale potrebbe guarire all’improvviso.
«Dove e quando? In oltre mezzo secolo di carriera a me non è mai capitato. Tutti quelli che avevano imboccato l’ultimo tratto di strada sono puntualmente morti. Bisogna fare però una precisazione».
Facciamola.
«Sbagliato parlare di anestesia letale. Io la chiamo dolce morte e l’ho favorita ogni volta che mi è stato possibile. Del resto, non è la prima volta che lo dico».
In che senso?
«Nel 1982, proprio in un’intervista a un settimanale, intervista poi ripresa anche da L’Unione Sarda, ho raccontato di aver dato una mano ad andarsene a mio padre e, più tardi, anche a mia sorella. Risultato, qualcuno ha detto che in fondo ero un assassino».
E magari tra quei qualcuno c’erano pure suoi colleghi.
«Possibile. Vede, la dolce morte è una pratica consolidata in tutti gli ospedali italiani ma per ragioni di conformismo e di riservatezza non se ne parla. Gli unici che alzano la voce su questo tema sono frange d’un estremismo cattolico tanto rigido quanto confuso».
In che modo un malato terminale chiede aiuto?
«Se non può parlare prova a dirlo con gli occhi. E tra i familiari c’è sempre qualcuno che conosce molto bene le volontà del paziente, sa cosa avrebbe voluto e sperato trovandosi in quelle condizioni. Non dimenticherò mai un amico carissimo inchiodato a letto senza speranza. Soffriva da cane e ogni giorno, quando passavo a visitarlo, mi implorava: fammi morire, per favore».
Accontentato?
«Proprio in quel caso, no. Se n’è andato prima che potessi dargli una mano».
E se lei si trovasse nelle stesse condizioni?
«Sono per l’auto-eutanasia. Ho un accordo preciso con mia moglie».
Alcuni parlano di desistenza terapeutica anziché di eutanasia.
«È un patetico gioco di parole per mettersi in pace la coscienza, essere rispettosi del Codice deontologico dei medici e con l’orientamento della Chiesa».
Però è desistenza e non eutanasia.
«Stiamo parlando della stessa cosa. Il termine desistenza, cioè smetto di ventilarti meccanicamente, significa che sto comunque staccandoti la spina. Qual è la differenza?»
Il momento di intervenire.
«Rispondo con un episodio. Avevo un amico ricoverato in Clinica medica: blocco renale e convulsioni. Il collega che lo seguiva mi ha chiesto: che facciamo? Ho risposto senza un attimo d’esitazione: io gli darei un Talofen».
Cos’è il Talofen?
«È un farmaco che, ad alto dosaggio, blocca la respirazione. Tecnicamente è un ganglioplegico».
E il suo amico, che fine ha fatto?
«Credo gliel’abbiano dato, il Talofen. Il giorno dopo era in obitorio».
Davvero non ricorda quante volte ha praticato un’eutanasia?
«Nel mio lavoro ho addormentato non meno di un milione e mezzo di persone. Non so quante siano quelle con cui sono andato più in là: so solo che l’ho fatto ogni volta che era necessario».
E quand’era necessario?
«Quando un malato te lo chiede e quando tu, nella veste di medico, ti rendi conto che ha ragione. Che senso ha prolungare un’agonia, assistere allo strazio di dolori insopportabili che non porteranno mai a una guarigione?»
Ritiene d’essersi comportato in maniera moralmente corretta?
«Non ho nulla da rimproverare a me stesso, e lo dico dall’alto della mia età. La verità è che la gente non sa cosa sia il dolore vero, almeno quello più atroce. La coscienza ti impone di non stare a guardare».
Mai un ripensamento, magari d’essere stato frettoloso?
«Prima di procedere, prima cioè di donare la dolce morte ad un uomo sofferente, ho pensato e ripensato se si trattava della soluzione giusta. Quando mi sono mosso l’ho sempre fatto di fronte a situazioni che non avevano altra via d’uscita».
La prima volta?
«Credo sia stato con mio padre ma non ne ho la certezza».
L’ultima?
«Se la memoria non mi tradisce, con un giovane che ho affidato a un neurochirurgo, sicuro che non sarebbe uscito vivo dalla sala operatoria. E così è stato».
Neanche un caso di pentimento, sicuro?
«Mai. Quella di aiutare un malato a morire non è una decisione che prendi a cuor leggero. Ricordo anzi di aver suggerito ad alcuni chirurghi, in piena febbre da bisturi negli anni ’70, di non tormentare il paziente: lascialo andare in pace …».
Legge sul fine-vita: la proposta di legge dorme in Parlamento da 300 giorni.
«Saremmo l’Italia se non fosse così? Ho un solo dubbio: mi domando come mai la polemica sull’eutanasia riesploda proprio adesso. Esiste da sempre ma solo ora riempie i giornali. Dev’esserci qualcosa sotto».
E se le chiedessero un aiuto oggi?
«Aiuto a morire? Me lo chiedono. Ma io ho chiuso bottega. C’è un momento per tutto e io non faccio eccezione».
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Nella foto piccola, Caspar David Friedrich: Die Lebensstufen Le età dell’uomo 1835. Museum der Bildenden Künste, Leipzig
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