Senza lavoro la società muore, senza l’identità del lavoro non c’è niente che sorregga un progetto, né individuale né collettivo
I suicidi e la distorsione cognitiva della classe politica
di LILLI PRUNA
Articolo pubblicato il 22 aprile 2014 su SardiniaPost / – segue -
Non credo che uccidersi sia un gesto inspiegabile. Inspiegabile è la distorsione cognitiva della classe politica che ci governa, che a fronte di un milione e mezzo di persone in cerca di lavoro che ha più di 35 anni e un altro milione (quasi) che è tra i 25 e i 34 anni, parla solo dei 655 mila giovani senza lavoro, che sono ragazze e ragazzi con un’età compresa tra i 15 e i 24 anni. Per un inspiegabile fenomeno, i governanti e governatori di questo strano Paese sembrano vedere e ragionare solo del 20 per cento circa della disoccupazione complessiva, costituito appunto dai giovani tra i 15 e i 24 anni, mentre non danno segno di accorgersi dell’80 per cento della massa di disoccupati e disoccupate, costituito da due milioni e mezzo circa di adulti, che hanno superato i 25 anni e in larga parte anche i 35: in Italia ci sono 770 mila persone disoccupate che hanno più di 45 anni.
Al di sopra dei 35 anni di età si tratta in larga parte di genitori disoccupati. Genitori con figli piccoli o con figli adolescenti, che vanno a scuola – o dovrebbero andarci – e stanno attraversando una fase della vita cruciale per il loro futuro. Qual è il danno che viene causato alle loro opportunità e alla qualità della loro esistenza dalla disoccupazione e dalla precarietà dei genitori, dall’insicurezza economica della famiglia, dalle preoccupazioni e dall’ansia che nascono dalla mancanza di un lavoro e di un reddito sicuro? Qual è la misura del danno e quanto può essere accettabile? Al milione e mezzo di persone disoccupate che hanno più di 35 anni si aggiungono più di 500 mila lavoratori e lavoratrici in cassa integrazione: nessuno di loro è giovane e neppure vecchio, tutti hanno una famiglia, molti hanno figli, una casa, un mutuo o un affitto da pagare.
Tra qualche mese, nel pieno dell’estate, finirà il sesto anno consecutivo di crisi economica e sociale e non sappiamo se sarà l’ultimo. Se anche lo fosse ci vorrà molto tempo, anni e anni, per recuperare un po’ di benessere diffuso e forse niente sarà più come prima. Non torneranno le tante persone che hanno rinunciato a vivere per le troppe difficoltà in cui sono precipitate, non torneranno i posti di lavoro perduti, non tornerà facilmente la fiducia nelle istituzioni e nel futuro che ci consegnano. Sfido chiunque a trovare una sola scelta rilevante adottata dai governi che si sono succediti da sei anni a questa parte, che sia stata proporzionata alla gravità della situazione e che abbia avuto al centro le persone e il loro destino. Qualcosa che assomigli vagamente al New Deal o anche molto meno, qualcosa che abbia dato il segno della consapevolezza di uno sconvolgimento tanto profondo della vita.
Niente. Sei anni di crisi, sei anni di disoccupazione, di povertà, fallimenti, disperazione, e niente. Alternanze di governi, foto di ministri, e nient’altro. Roosevelt (che non a caso è stato l’unico presidente degli Stati Uniti ad essere eletto per ben quattro mandati consecutivi, dal 1932 al 1948) aveva preso provvedimenti coraggiosi dopo la grande crisi del 1929: per esempio un robusto stanziamento di risorse per impiegare i disoccupati in programmi di lavori pubblici (costruzione e manutenzione di strade, scuole, parchi, ecc.), o l’istituzione del Civilian Conservation Corps, che dal 1933 al 1942 occupò più di tre milioni di disoccupati che furono incaricati di curare la manutenzione e la conservazione delle risorse naturali (un dettaglio: furono piantati oltre tre miliardi di alberi). Se avessero avuto i nostri beni culturali e il nostro patrimonio archeologico e architettonico avrebbero messo in piedi un esercito di restauratori, conservatori e custodi di tale bellezza.
La sinistra che partecipa al governo di questa regione dovrebbe fare sentire la propria voce, dovrebbe incalzare l’intera giunta e spingere l’azione politica in modo determinato verso un intervento diretto per la creazione di occupazione. Abbiamo risorse da spendere, bisogni da soddisfare, lavori da realizzare. Non è vero che il lavoro lo creano solo le imprese e che dobbiamo aspettare che si “risvegli” il mercato – quello locale – per avere nuova occupazione: non era vero per Roosvelt e non lo è neanche adesso. L’azione pubblica è essenziale per riattivare i meccanismi che producono lavoro in tutti i settori – a cominciare da quelli più trascurati, come l’istruzione e la cultura – e tentare di innescare un circolo virtuoso che crei lavoro e un contesto migliore in cui vivere.
Lo dico con il tono di un appello, io che odio gli appelli perché sono una ammissione di impotenza: senza lavoro la società muore, senza l’identità del lavoro non c’è niente che sorregga un progetto, né individuale né collettivo (perdonatemi, ma è questa l’identità più preziosa da difendere). Quello che non si può avere con il lavoro, non si può avere con niente, ha scritto Saramago, ed è questa la prima enorme responsabilità di chi governa dopo una crisi così lunga e profonda: creare lavoro, difenderlo, qualificarlo, arricchirlo, renderlo sicuro, rispettarlo e farlo rispettare. Non solo per i giovani, ma per tutti. Soprattutto per tutti.
Lilli Pruna
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