Rashomon: l’opera d’arte come spazio mentale

Rashomon

Quando l’inesprimibile può essere espresso, l’incomunicabile comunicato

di Carla Deplano

Rashomon, prima mostra antologica dei camouflage di Rosanna Rossi, prende evocativamente in prestito il suo nome dal film di Akira Kurosawa, parabola della relatività e delle molteplici sfaccettature della “verità”.

Se facciamo nostro il detto di Protagora “l’uomo misura di tutte le cose”, la dislocazione in cinque differenti luoghi e l’affidamento a ben cinque curatori riflette la ricerca di una conoscenza plurima fondata sull’eterogeneità e la complementarietà condivisa, sulla sinergia di diversi punti di vista che, da soli, risulterebbero di per sé parziali perché filtrati da percezioni individualistiche e quindi, in una parola, relativi.  

Negando l’esistenza di una verità assoluta o definitiva, sulla scorta dell’idea popperiana della “società aperta”, si percepisce il desiderio dell’artista di confrontarsi con una società democratica, libera e aperta, legata al relativismo inteso come rifiuto di ogni verità oggettiva. La pretesa di conoscere una verità condurrebbe alla società chiusa e autoritaria, foriera di conflitti bellici che vengono evocati, attraverso la tematica del camouflage, sul filo della memoria individuale (di chi li ha vissuti in prima persona) che diventa ora memoria collettiva e monito per le generazioni future. Ricordando, almeno negli intenti, l’opera di Roman Opalka.

Il tema del camouflage è stato interpretato variamente nel tempo secondo declinazioni impressioniste, divisioniste, dadaiste, surrealiste, costruttiviste, trovando ulteriori e più espliciti esiti nell’arte del dopoguerra: nella Pop Art, come in tanti artisti che hanno continuato a subirne il fascino, da Fontana a Sherman, Palmen, Luthi, Ontani, Bolin, Favelli e Bismuth, per citare i più noti.

Quella di Rosanna Rossi è una pittura contemplativa e carica di riferimenti oltre la contingenza fenomenica della vita. L’artista crea un luogo pittorico trascendentale in cui coesistono valori percettivi e stimolazioni emotive e inconsce. Il suo camouflage è dominato dalla componente segnico-gestuale; nella forza di comunicazione, potente e astratta, nell’incisività dei segni che si dispongono sulle superfici viene evocata una drammatica condizione esistenziale.

Il segno, elemento primario della composizione visiva, diviene cellula generatrice del linguaggio di Rossi. Si stampa sulla tela e sul legno come scrittura e diventa intelaiatura, architettura intricata eppure dotata di un ritmo interiore ordinato e armonioso, segno ancestrale pregno di significati sfuggenti che vengono dal profondo: da quell’inconscio collettivo junghiano che è l’interiorità individuale e universale in cui ciascuno si riconosce.

Rossi indaga, attraverso la pittura, i risvolti più enigmatici e reconditi  legati alle proprie esperienze di vita e alla realtà contingente, trasfigurandoli in immagini evocative di sensazioni ed emozioni in una sorta di “astrazione lirica”.

Ci si trova di fronte a teorie reiterate di segni caratterizzati da modificazioni cromatiche che generano vibrazioni di superficie capaci di potenziare le emozioni  trasmesse dall’intera opera. Che diventa, così, strumento per una pratica contemplativa lontana dalla pretesa tipicamente occidentale di decifrare razionalmente il contenuto di una composizione, laddove gli elementi compositivi possiedono un valore estetico autonomo rispetto a quello semantico e fonetico.

Come in certe opere di Mathieu o di Tobey, si dà vita ad una scrittura interiore, la cui espressività è sottolineata dall’incisività del gesto. Accanto a pitture caratterizzate da segni di natura più propriamente organica che rimandano al mondo della flora, la maggior parte delle opere mostra impianti reticolari che, come le strutture molecolari, si sviluppano dalla ripetizione seriale di modelli triangolari attraverso una meditata struttura compositiva. Secondo una concezione orientale del segno-ideogramma triangolare in cui è contenuta la totalità del reale, si viene così a delineare uno spazio sacro, intimo e al contempo universale, che esce dai confini della tela.

Il simbolismo universale del triangolo si ritrova diacronicamente presso tutte le tradizioni (pitagorica piuttosto che platonica e alchemica): rappresentando la manifestazione del ritorno all’unità primordiale, esprime generalmente l’idea della divinità – riscontrabile nella simbologia della trinità – quanto l’idea dell’ascesi dell’uomo verso la trascendenza divina, l’Universale; quindi il microcosmo che si innalza verso un macrocosmo e viceversa, la protezione Divina (o delle potenze celesti) verso l’umanità e la natura.

A parte la suggestione dell’allestimento della cripta del Santo Sepolcro, che nel primo ambiente a sinistra ricorda evocativamente la Tomba degli Scudi di Tarquinia, il motivo della rete richiama per associazione di idee il betile dell’Omphalos di Delfi. Che, prima che un manufatto, é un concetto. Ombelico come centro fisico e spirituale da cui si è irradiato il mondo, centro del microcosmo umano, rappresentazione astratta del divino o di collegamento con il sacro e con le potenze ctonie (Ge, la terra, vista come Dea Madre). Ma il concetto di “centro del mondo”, lungi dall’essere una prerogativa della cultura greca, si ritrova ancor prima in Mesopotamia, in Cina e in India, con riferimento a quel luogo dove le diverse modalità dell’essere si incontrano: il luogo dove si rende possibile la comunicazione e il passaggio. L’allestimento dello Spazio (In)Visibile, invece, appare molto interessante per la singolare disposizione dei quattro pannelli che, staccati dalle pareti, formano per completamento amodale uno spazio quadrato. Gli intrecci geometrici caratteristici di questo gruppo di tele sembrano sfondare tridimensionalmente la superficie dando, così, vita ad una struttura plastico-pittorica mobile. Una vera e propria installazione all’incrocio tra pittura, scultura e architettura che invita lo spettatore ad un’osservazione da più punti di vista, avvolgendolo fisicamente e sollecitandolo ad interagire attraverso una fruizione mai passiva e distaccata, che si richiama idealmente ad un principio dinamico elaborato da Marinetti, come alle esperienze dell’Action painting. Ma il riferimento più pregnante, al riguardo, è la serie dei Plurimi di Emilio Vedova, in cui lo spazio figurativo diventa un luogo psicologico e drammatico, laddove l’azione dell’artista si compie come “un urto di verità, catartico rovescio per un aprirsi di una nuova coscienza.”

Se taluni effetti percettivi e cromatici imprevedibili indotti dalla studiata interazione tra le strutture, le composizioni, i rapporti tra i colori, sono riscontrabili in Trois superpositions di François Morellet, è più propriamente attraverso una originale elaborazione spazialista e l’eredità di Forma 1,  che il camouflage di Rossi si fa, per così dire, intuizione, filo magico che permette di penetrare il mistero delle cose, ponendo lo spettatore nella condizione di crearsi da sé la dimensione spaziale e figurativa attraverso la propria fantasia e le emozioni che riceve.

È uno spazio nuovo che va al di là della superficie: una realtà interna alla nostra coscienza attraverso cui passa l’infinito di leopardiana memoria ed in cui pulsa un ritmo “primitivo”, quasi espressione di un ordine arcaico precostituito, scritto nella natura con segni forti e ossessivi.

Il valore concettuale dell’opera d’arte di Rossi consiste proprio in questo: nella proposizione di un percorso creativo individuato da sinergie percettive tra spazio compositivo e variazioni cromatiche che permette al pubblico di aprire gli occhi su nuovi spazi, universi paralleli, una realtà cangiante e polisemica, sorta di “non-luogo” mentale in cui ci si sente sospesi in una dimensione temporale qualitativa e psicologica bergsoniana in cui tutto è nuovo e, allo stesso tempo, conservato.

Ma, forse, le istanze estetiche ed etiche espresse nell’opera di Rossi trovano la loro matrice più profonda nella filosofia Zen, allorché l’opera vive e pulsa nello spettatore perché lo spettatore vive in essa: l’immagine rimanda a un altrove, offrendo a chi la guarda il punto di partenza per una visione da lui personalmente vissuta. Ed è proprio  nell’annullamento del dualismo gestaltico figura-sfondo che soggetto e oggetto diventano un’unica realtà, superando ogni antitesi e distinzione.

Solo allora l’inesprimibile può essere espresso, l’incomunicabile comunicato.

Attraverso le variazioni cromatiche la pittura stimola la percezione visiva: si ha l’impressione di un cangiantismo, che gli elementi compositivi si muovano arretrando o avanzando allo sguardo con effetti stranianti non lontani dagli esiti dell’Optical art; ma, soprattutto, la pittura  genera emozione e raccoglimento, suscitando nello spettatore un’adesione contemplativa intima e spirituale.

Assemblamenti segnici-cromatici archetipici fluttuano sulla tela mutando la nostra percezione di tutto l’ambiente in modo tale che la rete non si qualifichi come un elemento divisorio, bensì come il punto generatore di uno spazio nuovo. Diaframma tra un al di qua dove siamo, hic et nunc, e un al di là, che non è altro che il resto del mondo. Microcosmo e macrocosmo. Emico-etico.

La porta identificata nel film di Kurosawa da un segnale come Rashōmon diventa nelle opere di Rossi metafora postmoderna dell’apertura verso l’esterno che, nel mantenimento della propria identità, condivide osmoticamente valori multiculturali fecondi in un rapporto “glocale” dialettico e dinamico.

Rete, network, connessione, ragnatela di significati. Non si tratta di oltrepassare la soglia dei fenomeni per cogliere la verità in un luogo come l’inconscio strutturale; si tratta di “sfogliare” uno ad uno i significati stratificati la cui trama costituisce il testo della cultura. Per l’antropologo Geertz, teorico dell’antropologia interpretativa, il significato non è un fatto privato, bensì intersoggettivo, pubblico, una caratteristica attribuibile alla cultura nella sua globalità. La cultura, infatti, appare costituita da azioni simboliche e, quindi, da ragnatele di significati (per citare Max Weber), configurandosi come un testo o un insieme di testi che si tenta di decifrare attraverso una “descrizione densa”. Una semplice lettura dell’oggetto, del dato fenomenico, non è una lettura del testo culturale che, proprio come il testo letterario e la ragnatela camouflage, ha una sua coerenza e una significazione fatta di rimandi interni, di riferimenti al proprio con-testo.  È all’interno di questo “testo” costituito dalla trama dei significati, un testo “pubblico” che si crea nell’interazione tra i soggetti, che si manifesta il processo di de-stratificazione interpretativa delle strutture significative in un’ermeneutica polisemica virtuosa, attraverso una critica fondata su un potente coinvolgimento emotivo e immaginativo.

La pittura segnica di Rossi ci racconta le nostre inquietudini attraverso il suo valore introspettivo e le implicazioni narrative. Imperniata sul valore del vuoto, del segno, del rigoroso equilibrio tra gli elementi, con una sensibilità nostalgica per una dimensione di serenità ideale fuori dal tempo e sempre anelata, la rete diventa l’emblema del vuoto esistenziale, che fronteggia catarticamente il timore nichilista per l’assoluto. In questo sta l’aspetto filosofico e investigativo dell’operazione artistica: con atteggiamento critico ma costruttivo, la Rossi-guru procede operativamente investita di un ruolo salvifico che, smuovendo le coscienze intorpidite dall’agghiacciante deriva di una società iper tecnologizzata e svilita nei propri riferimenti culturali, ci fa meditare recuperando, attraverso l’arte, l’armonia perduta tra uomo e natura.

Grazie Rosanna per la tua capacità di farci ancora sognare ad occhi aperti!

Rashomon su fb: http://www.facebook.com/events/367885723230299/
[le illustrazioni su fb]

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One Response to Rashomon: l’opera d’arte come spazio mentale

  1. rosanna rossi scrive:

    Un commento alle mie mostre, così attento e preopositivo, mi emziona.

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