Dio è morto … è per tre giorni: poi risorge!

silenzio IMG_6914cielo CAdi Salvatore Cubeddu

“Dio è morto… è per tre giorni: poi risorge!”. Per tutta l’estate del 1965 la canzone di Guccini impazzava nelle radio e nei jukebox di tutte le spiagge. Chi avrebbe previsto che dei cattolici ancora adolescenti, qualche anno più tardi, avrebbero abbandonato il secolare moderatismo del loro ambiente per infiammare le università e le scuole, prima, e le fabbriche, subito dopo? Quei giovani sono ora quasi tutti in età di pensione.
A loro, soprattutto, è arrivato il regalo di un ‘papa’ Francesco. A quelli, pochi, che hanno resistito in una Chiesa ritornata, passo dopo passo, non più il conciliare ‘popolo di Dio’ ma l’esclusiva proprietà dei preti. Ai border-line del cattolicesimo, a coloro che avevano capito che la riforma della Chiesa cattolica l’aveva iniziata Martin Lutero e che, bene o male, con le sue domande bisognava ancora fare i conti. Questo Papa parla di nuovo a quegli studenti e operai che tentarono di costruire ‘la giustizia in questa terra’, delusi dalla pratica politica dei cattolici (la DC), per cercarla nella sinistra, quasi sempre estrema (giudicata più coerente) e, persino, nella lotta armata (in pochi, ma maggioritari in essa).
Papa Francesco è un regalo … (ma, speriamo non lo facciano santo … si sta esagerando con le santificazioni, specie se di papi recenti: sembra quasi trattarsi di interesse personale in atti d’ ufficio! … ). Questo Papa è stato chiamato dall’ex Terzo Mondo di quella gioventù cattolica che proprio nella riflessione sul neo-colonialismo motivò la sua “scelta di classe”, lo studio del marxismo e la militanza a sinistra. E’ un dono, per quello che fa, per quello che dice e per quello che pensa (e, sospetto, … che in parte non può dire, e che forse non può ancora fare).
“Dio è morto … è per tre giorni: poi è risorto!”. Il refrain della canzone è lo stesso delle innumerevoli ‘via crucis’ delle cinque settimane di quaresima e di quella di avant’ieri al Colosseo. E’ difficile che i refrain non annoino. I dolori delle vie crucis, poi. Stavo per spegnere quelle bellissime inquadrature romane. Ma, seguendo meglio le letture… stazione dopo stazione … erano le constatazioni sulla società e le migliori prese di posizione della nostra giovinezza. I contenuti giuridici dell’estremo giudizio del Dio cristiano: “io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi (Mt. 25,31-46)”.
Stazione dopo stazione, l’energica e veloce lettura di Virna Lisi ci parlava in eurovisione dei guai dell’oggi, degli affamati, dei prigionieri, degli immigrati, dei senza casa, senza lavoro, senza dignità, senza speranza, dei senza …
Avrei potuto/dovuto dire a me stesso che, in fondo, è il discorso dei vangeli, che conosciamo da duemila anni. Sì, tutto vero. Ma, allora, perché, se detto da Francesco, ci sembra tutto nuovo? Anche padre Cantalamessa, che da anni sa dire belle verità, appare innovativo quando afferma: “… Giuda cominciò con sottrarre qualche denaro dalla cassa comune. Dice niente questo a certi amministratori del denaro pubblico?”. Il frate parlava in San Pietro ai presenti, compreso i cardinali con il Papa, i vescovi ed il popolo cristiano del venerdì santo. Lo leggeranno oggi sui giornali anche le curie e quegli ordini religiosi che non pagano le tasse. E poi proseguiva: “E’ scandaloso che alcuni percepiscano stipendi e pensioni cento volte superiori a quelli di chi lavora alle loro dipendenze… l’attaccamento al denaro, dice la Scrittura, è la radice di tutti i mali”.
Siamo al dunque. Quelle parole sono state pronunciate avant’ieri nella basilica più ricca del mondo. Ben lontana e diversa dalla bottega del falegname di Nazareth, quello issato sulla croce. Il viaggio di Francesco è lungo … ma quella è la direzione e la meta per i credenti nel “Morto in croce che Dio ha resuscitato dai morti”. E che, per chi crede, risulterà la sopresa dell’aldilà. Dove, forse, con Francesco, ritornerà ‘la meglio gioventù’.
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Giorgio-De-Chirico,-Gesù-divino-lavoratore-(1951),-olio-du-tela
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PASQUAOGGI 20 Aprile 2014. Riprendiamo, condividiamo e rilanciamo dal sito Democraziaoggi
Signore, insegnaci a lottare per il lavoro

Francesco

Oggi Pasca manna, nell’augurare a tutti un futuro sereno, ci piace ricordare il discorso e la preghiera di papa Francesco nell’incontro coi lavoratori a Cagliari nel settembre scorso. E’ un invito alla lotta per il lavoro e per la dignità dell’uomo, che può trovare spazio solo in un rilancio democratico del Paese e dell’Isola. Il contrario, per intenderci, di quanto si propongono R&B.
Riprendiamo la sintesi del discorso di Francesco da Rainews24.

Il Papa a Cagliari il 2 settembre scorso ha incontrato i lavoratori: “Senza lavoro non c’è dignità”.”La mancanza di lavoro porta alla mancanza di dignità”. Papa Francesco parlando a braccio alle migliaia di lavoratori che lo ascoltavano a Cagliari, li ha esortati ad avere coraggio, a non lasciarsi rubare la speranza

“Mio papà da giovane è andato in Argentina pieno di illusioni, convinto di trovarvi l’America e ha sofferto la crisi del Trenta, hanno perso tutto, non c’era lavoro”. Comincia così l’appassionato discorso a braccio pronunciato dal Papa davanti al mondo del lavoro a Cagliari, in Largo Carlo Felice.
“Ho sentito nella mia infanzia parlare di questo tempo a casa, non l’ho visto, perché non ero ancora nato, ma ho sentito dentro casa questa sofferenza, parlare di questa sofferenza”.
“Conosco bene questo,
- ha aggiunto – ma devo dirvi coraggio, ma anche sono cosciente che devo fare tutto del mio perché questa parola ‘coraggio’ non sia una bella parola di passaggio, non sia soltanto un sorriso di impiegato cordiale, un impiegato della chiesa che viene e vi dice ‘coraggio’, no questo non lo voglio, vorrei che questo coraggio venga da dentro e vi spinga a fare di tutto, devo farlo come pastore, come uomo: dobbiamo affrontare con solidarietà tra voi, anche tra noi, tutti con solidarietà e intelligenza questa sfida storica”.
“Questa – ha osservato papa Francesco – è la seconda città che visito dell’Italia, la prima Lampedusa, tutte e due sono isole, nella prima ho visto la sofferenza di tanta gente che cerca, rischiando la vita, dignità, pane, salute, il mondo dei rifugiati, ho visto la risposta di quella città che essendo isola non ha voluto isolarsi, e riceve con quello che ha. Fa suo chi riceve, ci dà un esempio di accoglienza, lì – ha osservato – c’è sofferenza e una risposta positiva, qui in questa seconda isola che visito, anche qui trovo sofferenza, una sofferenza che uno di voi ha detto che indebolisce e finisce con rubarti la speranza. Una sofferenza da mancanza di lavoro che ti porta, scusatemi se sono un po’ forte ma dico la verità, che ti porta a sentirti senza dignità, dove non c’è lavoro manca la dignità”.
“E questo – ha sottolineato il Papa – non è un problema della Sardegna, soltanto, o solo dell’Italia o di altri paesi d’Europa, è la conseguenza di una scelta mondiale, di un sistema economico che porta a questa tragedia, un sistema economico che ha al centro un idolo che si chiama denaro, Dio ha voluto che al centro del mondo non sia un idolo, ma siano l’uomo l’uomo e la donna, che portino avanti il mondo con il loro lavoro. Ma adesso in questo sistema senza etica al centro c’è un idolo e il mondo è diventato idolatra di questo dio denaro, comandano i soldi, il denaro, tutte queste cose che servono a lui, a questo idolo, e succede che per difendere questo idolo si ammucchiano tutti al centro e cadono gli estremi, cadono gli anziani perché in questo mondo non c’è posto per loro, alcuni parlano di questa abitudine di eutanasia nascosta, di non curare gli anziani, di non considerarli”.
“E cadono anche i giovani – ha proseguito il Pontefice – che non trovano lavoro”. “Ma in un mondo in cui due generazioni di giovani non hanno lavoro, questo mondo non ha futuro, perché loro non hanno dignità e questa è la vostra sofferenza, questa è la preghiera, ‘lavoro, lavoro, lavoro’, è una preghiera necessaria, vuol dire dignità, portare pane a a casa, amare, per difendere questo sistema economico idolatrico che istaura la cultura dello scarto, si scartano i nonni e si scartano i giovani, e noi dobbiamo dire ‘no’ a questa cultura dello scarto, dobbiamo dire ‘vogliamo un sistema giusto che ci faccia andare avanti tutti’, dobbiamo dire ‘non vogliamo questo sistema economico globalizzato che ci fa tanto male, al centro deve esserci l’uomo e la donna, come Dio vuole, non il denaro”.
“Avevo scritto alcune cose per voi, – ha poi spiegato papa Francesco – ma guardandovi mi sono venute queste parole consegnerò, al vescovo queste parole scritte come se fossero state dette, ma volevo dirvi con il cuore guardandovi in questo momento, è facile dire ‘non perdere la speranza’, ma a a tutti voi quelli che avete lavoro e quelli che non avete, vi dico ‘non lasciatevi rubare la speranza, forse la speranza è come la brace sotto la cenere, aiutiamoci con la solidarietà soffiando sulla cenere, la speranza ci porta avanti, quello non è ottimismo, è un’altra cosa, la speranza dobbiamo sostenerla tutti, è nostra, vostra, è cosa di tutti, per questo vi dico non lasciatevi rubare la speranza, ma siamo furbi, perché il Signore ci dice che gli idoli sono più furbi di noi, ci invita ad avere la furbizia del serpente con la bontà della colomba, abbiamo questa furbizia e diciamo le cose con il suo nome, in questo momento nel nostro sistema economico proposto di vita al centro c’è un idolo e questo non si può fare, lottiamo tutti insieme perché al centro ci siano la famiglia, e le persone, e si possa andare avanti e non lasciatevi rubare la speranza”. E a questo punto ha invitato a pregare insieme. ”Signore, insegnaci a lottare per il lavoro”-

Nell’ultimo riquadro: dipinto di Giorgio De Chirico “Gesù divin lavoratore” Galleria della Pro Civitate Christiana di Assisi
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Cagliari malata di “sviluppite”
— Giorgio Todde, 16.4.2014
Da il manifesto
La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama «sviluppo»
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Cagliari, il quartiere Sant’Elia

Cagliari ha tre­mila anni. Qua, a novanta miglia dall’Africa, i fon­da­tori tro­va­rono un golfo sul palmo di un dio, pro­mon­tori e colli di roc­cia bianca dove vivere era facile.
I nura­gici erme­tici. Poi i Fenici trac­ciano le rotte. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. Poi i Van­dali. Poi Bisan­zio e i due evi medi. L’epoca dei Giu­di­cati, le inva­sioni more­sche, i Pisani e i Geno­vesi. Eleo­nora d’Arborea e il suo nuovo ordi­na­mento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spa­gnoli e la deca­denza. Il Set­te­cento, i Savoia, il Regno di Sar­de­gna la rivo­lu­zione poi e la moder­niz­za­zione otto­cen­te­sca. Gli echi del Risorgimento.
Poi il XX secolo. Anto­nio Gram­sci fa il suo liceo a Cagliari. La car­ne­fi­cina della Grande Guerra. Pastori e con­ta­dini, riu­niti nella Bri­gata Sas­sari man­dati a morire sul Carso e Emi­lio Lussu. Poi il fasci­smo, la seconda guerra, l’occupazione tede­sca senza san­gue, i bom­bar­da­menti anglo-americani del ‘43. La città ini­zia la sua rico­stru­zione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe diri­gente insieme ai nuovi brutti quar­tieri, anni 50 e 60, che la raf­fi­gu­rano. L’edilizia cac­cia via l’architettura. Impre­sari e com­mer­cianti dise­gnano la città sulla pro­pria imma­gine e pro­du­cono una gene­ra­zione poli­tica con­for­mata, come un calco di gesso, alla loro visione mate­riale delle cose. I cosid­detti intel­let­tuali si rifu­giano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lon­tano dalle azioni.
Ma qual­cosa cam­bia negli ultimi decenni. Si smette di masti­care i fiori di loto e la memo­ria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si rico­no­sce. Si risve­glia un’anima cri­tica che comu­nica, osserva ed è inte­res­sata alle pro­prie ori­gini. E ricava ener­gia dal pas­sato senza essere pas­sa­ti­sta. Guarda indie­tro per essere moderna per­ché quando uno sa da dove viene non ha biso­gno di altro. E si oppone alla fre­ne­sia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mer­can­tile, resta forte.
La città è cre­sciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filo­so­fia del costruire. Amne­sia del pas­sato. Ha rico­perto di asfalto e cemento il suo con­tado agri­colo e lo chiama hin­ter­land. Detur­pato la sua spiag­gia abba­gliante. Vio­lato con bitume, palazzi e fab­bri­che gli sta­gni scon­fi­nati a est e a ovest. E tutto que­sto lo chiama «svi­luppo» men­tre dimo­stra che quando la poli­tica si con­fonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.
Cagliari è un’incubatrice di que­sta malat­tia. Però la sto­ria è incan­cel­la­bile. I luo­ghi resi­stono e met­tono in movi­mento gli avve­ni­menti. I morti della necro­poli di Tuvi­xeddu pos­sie­dono la forza dell’assoluto e ancora deter­mi­nano con­se­guenze. La rocca medie­vale resi­ste ai ten­ta­tivi di ren­derla «pro­gre­dita» con scale mobili e fer­ra­glia. Il pro­mon­to­rio sacro della Sella del Dia­volo resterà intatto anche se la città fame­lica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resi­sterà ai nuovi asse­dianti che oggi vogliono un vol­gare garage den­tro le sue mura.
Nel 1956 avevo cin­que anni. Il brac­cio quasi lus­sato quando pas­seg­giavo a traino delle mani inac­ces­si­bili di mio padre, il lun­go­mare, il mer­cato al cen­tro della città, le bar­che che tor­na­vano tanto cari­che che i pesca­tori sta­vano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sem­bra­vano pio­vre, le anguille scap­pa­vano dalle cesti nelle cor­sie del mer­cato, i pesci boc­cheg­gia­vano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.
Ma i fat­tisi muo­ve­vano per neces­sità che non com­pren­devo. E non obbe­di­vano a nessuno.
Ero troppo pic­colo per capire cosa acca­deva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, sem­pli­ce­mente, non guar­davo per­ché, appeso alla mano di mio padre, osser­vavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico oriz­zonte per me.
So che i monti che vedevo a meri­dione erano il pro­filo dei monti del golfo, ma allora cre­devo che fosse l’Africa per­ché sen­tivo ripe­tere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.
Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delu­sione. Però con­ti­nuai a crederci.
Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova mera­vi­glia che il mae­stro, ammi­rato dal pro­gresso ben­ché con­ser­vasse la sua casa come un salotto di Nonna Spe­ranza, ci aveva già annun­ciato a scuola.
Il grat­ta­cielo.
Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo pre­sente e tutti vole­vano solo pre­sente e futuro.
Mai visto dal vero un palazzo così alto.Non fu stu­pore quello che pro­vai vedendo quel lungo paral­le­le­pi­pedo gri­gio con decine e decine di fine­stre fune­ra­rie. Ancora oggi ricordo la sen­sa­zione di per­dita che pro­vai e ricordo che non com­presi, ero troppo bam­bino, quel sentimento.
Quella costru­zione infan­til­mente chia­mata grat­ta­cielo, che ancora esi­ste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, tal­mente brutto che diventò proverbiale.
Però il brutto è epi­de­mico e quando ini­zia si mol­ti­plica con enig­ma­tica testar­dag­gine. Non lo fermi più. Deve, si vede, neces­sa­ria­mente tra­scor­rere e con­clu­dersi un’epoca.
Eppure tutti vedevano.
Fu un’amnesia di massa che non è mai ces­sata da allora. E chissà se riac­qui­ste­remo mai la memoria.
Ma, l’ho detto, tutti vole­vano abban­do­nare il pas­sato, anche quello buono.
Mia nonna, men­tre pas­seg­giavo e gio­cavo in un ter­ra­pieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che comin­ciava a esserci troppo cemento e che tutti que­sti nuovi arri­vati dal con­tado — così chia­mava gli inur­bati che arri­va­vano da ogni parte dell’isola — sta­vano ren­dendo deforme la città. Che lei era comu­ni­sta, ma que­sto non le impe­diva di capire che c’erano per­sone rese feroci pro­prio dall’arrivo in città e che ave­vano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un igno­rante non sa mai di essere ignorante.
Appena tirano su un muro si fanno chia­mare cava­lieri e com­men­da­tori, ripeteva.
D’altronde il cemento aveva reso facile e pos­si­bile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribol­liva di cemento, ma io non lo sapevo. E nep­pure nonna. Però osser­vava la sua città.
Lei vedeva la brut­tezza del cemento, capiva che non si può met­tere insieme cemento e pie­tra per­ché invec­chiano in modo diverso, che la pie­tra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.
Il cemento è un mate­riale che non sa invec­chiare. La pie­tra, invece, è già vec­chia, esi­ste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a dise­gnare forme squallide.
Era squal­lido anche il bar aperto al piano terra nel «grat­ta­cielo», cat­tive le brio­che, il caffè puz­zava di bru­ciato e un moscone gia­ceva a pan­cia all’insù, mum­mi­fi­cato per sem­pre in un angolo della vetrina pretenziosa.
Den­tro quel palaz­zone c’erano però alcuni segnali impor­tanti del pre­sente che sedu­ceva la comu­nità e la con­vin­ceva che il pas­sato era vergognoso.
Però è vero che nella mia città una luce che non finiva nep­pure la notte e un sole felice anche d’inverno mi face­vano sen­tire for­tu­nato e lon­tano da ogni pericolo.
Tra­slo­cammo nel 1962 in una nuova casa.
E tutto mutò.
La nostal­gia è un sen­ti­mento indi­spen­sa­bile, ma deve essere orga­niz­zato. Sennò si sof­fre. Oltre­tutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.
Tra­slo­cammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa lumi­nosa, moderna, con due bagni, con davan­zali, una por­ti­ne­ria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.
Quel quar­tiere era il con­fine della città sto­rica, però mi sem­brava un salto nel futuro. E ogni volta che pas­sa­vamo vicino alla vec­chia casa tra­sci­navo la mano che mi con­du­ceva per entrare den­tro il por­tone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.
Il tra­sloco cam­biò i giorni e le ore della fami­glia, cam­biò per­fino l’espressione dei geni­tori, il lin­guag­gio, i vestiti, le abi­tu­dini a tavola, la puli­zia dome­stica e per­fino l’igiene del corpo, gli odori e la memo­ria degli odori​.Il tra­sloco è l’allegoria del cam­bia­mento ine­vi­ta­bile, ma non necessario.
Con il camion carico di mobili apparve la dif­fe­renza tra pre­sente e pas­sato, tra una fine e un inizio.
Babbo aveva bat­tuto a mac­china il suo nome su un foglio, rita­gliato la stri­scia di carta e l’aveva infi­lato nella fes­sura del nuovo cam­pa­nello. Poi aveva letto a voce alta il pro­prio nome e schiac­ciato il pul­sante. Quel trillo era il segnale della città nuova.

One Response to Dio è morto … è per tre giorni: poi risorge!

  1. […] Prendere sul serio il lavoro, nella concretezza delle sue forme e nel senso umano che lo abita, è dunque un investimento che ci permette di guadagnare, come singoli e come società, in dignità e inclusione, in gratuità, cura e libertà. È questo − come ricorda il titolo della Settimana sociale di Cagliari − il lavoro che vogliamo e che dobbiamo imparare a promuovere in maniera concreta. Ne vale certamente la pena e per questo lungo il 2017 Aggiornamenti Sociali cercherà di accompagnare i suoi lettori in questo cammino. ———————– Il quadro di G. De Chirico […]

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