Dio è morto … è per tre giorni: poi risorge!
“Dio è morto… è per tre giorni: poi risorge!”. Per tutta l’estate del 1965 la canzone di Guccini impazzava nelle radio e nei jukebox di tutte le spiagge. Chi avrebbe previsto che dei cattolici ancora adolescenti, qualche anno più tardi, avrebbero abbandonato il secolare moderatismo del loro ambiente per infiammare le università e le scuole, prima, e le fabbriche, subito dopo? Quei giovani sono ora quasi tutti in età di pensione.
A loro, soprattutto, è arrivato il regalo di un ‘papa’ Francesco. A quelli, pochi, che hanno resistito in una Chiesa ritornata, passo dopo passo, non più il conciliare ‘popolo di Dio’ ma l’esclusiva proprietà dei preti. Ai border-line del cattolicesimo, a coloro che avevano capito che la riforma della Chiesa cattolica l’aveva iniziata Martin Lutero e che, bene o male, con le sue domande bisognava ancora fare i conti. Questo Papa parla di nuovo a quegli studenti e operai che tentarono di costruire ‘la giustizia in questa terra’, delusi dalla pratica politica dei cattolici (la DC), per cercarla nella sinistra, quasi sempre estrema (giudicata più coerente) e, persino, nella lotta armata (in pochi, ma maggioritari in essa).
Papa Francesco è un regalo … (ma, speriamo non lo facciano santo … si sta esagerando con le santificazioni, specie se di papi recenti: sembra quasi trattarsi di interesse personale in atti d’ ufficio! … ). Questo Papa è stato chiamato dall’ex Terzo Mondo di quella gioventù cattolica che proprio nella riflessione sul neo-colonialismo motivò la sua “scelta di classe”, lo studio del marxismo e la militanza a sinistra. E’ un dono, per quello che fa, per quello che dice e per quello che pensa (e, sospetto, … che in parte non può dire, e che forse non può ancora fare).
“Dio è morto … è per tre giorni: poi è risorto!”. Il refrain della canzone è lo stesso delle innumerevoli ‘via crucis’ delle cinque settimane di quaresima e di quella di avant’ieri al Colosseo. E’ difficile che i refrain non annoino. I dolori delle vie crucis, poi. Stavo per spegnere quelle bellissime inquadrature romane. Ma, seguendo meglio le letture… stazione dopo stazione … erano le constatazioni sulla società e le migliori prese di posizione della nostra giovinezza. I contenuti giuridici dell’estremo giudizio del Dio cristiano: “io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi (Mt. 25,31-46)”.
Stazione dopo stazione, l’energica e veloce lettura di Virna Lisi ci parlava in eurovisione dei guai dell’oggi, degli affamati, dei prigionieri, degli immigrati, dei senza casa, senza lavoro, senza dignità, senza speranza, dei senza …
Avrei potuto/dovuto dire a me stesso che, in fondo, è il discorso dei vangeli, che conosciamo da duemila anni. Sì, tutto vero. Ma, allora, perché, se detto da Francesco, ci sembra tutto nuovo? Anche padre Cantalamessa, che da anni sa dire belle verità, appare innovativo quando afferma: “… Giuda cominciò con sottrarre qualche denaro dalla cassa comune. Dice niente questo a certi amministratori del denaro pubblico?”. Il frate parlava in San Pietro ai presenti, compreso i cardinali con il Papa, i vescovi ed il popolo cristiano del venerdì santo. Lo leggeranno oggi sui giornali anche le curie e quegli ordini religiosi che non pagano le tasse. E poi proseguiva: “E’ scandaloso che alcuni percepiscano stipendi e pensioni cento volte superiori a quelli di chi lavora alle loro dipendenze… l’attaccamento al denaro, dice la Scrittura, è la radice di tutti i mali”.
Siamo al dunque. Quelle parole sono state pronunciate avant’ieri nella basilica più ricca del mondo. Ben lontana e diversa dalla bottega del falegname di Nazareth, quello issato sulla croce. Il viaggio di Francesco è lungo … ma quella è la direzione e la meta per i credenti nel “Morto in croce che Dio ha resuscitato dai morti”. E che, per chi crede, risulterà la sopresa dell’aldilà. Dove, forse, con Francesco, ritornerà ‘la meglio gioventù’.
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PASQUAOGGI 20 Aprile 2014. Riprendiamo, condividiamo e rilanciamo dal sito Democraziaoggi
Signore, insegnaci a lottare per il lavoro
Francesco
Oggi Pasca manna, nell’augurare a tutti un futuro sereno, ci piace ricordare il discorso e la preghiera di papa Francesco nell’incontro coi lavoratori a Cagliari nel settembre scorso. E’ un invito alla lotta per il lavoro e per la dignità dell’uomo, che può trovare spazio solo in un rilancio democratico del Paese e dell’Isola. Il contrario, per intenderci, di quanto si propongono R&B.
Riprendiamo la sintesi del discorso di Francesco da Rainews24.
Il Papa a Cagliari il 2 settembre scorso ha incontrato i lavoratori: “Senza lavoro non c’è dignità”.”La mancanza di lavoro porta alla mancanza di dignità”. Papa Francesco parlando a braccio alle migliaia di lavoratori che lo ascoltavano a Cagliari, li ha esortati ad avere coraggio, a non lasciarsi rubare la speranza
“Mio papà da giovane è andato in Argentina pieno di illusioni, convinto di trovarvi l’America e ha sofferto la crisi del Trenta, hanno perso tutto, non c’era lavoro”. Comincia così l’appassionato discorso a braccio pronunciato dal Papa davanti al mondo del lavoro a Cagliari, in Largo Carlo Felice.
“Ho sentito nella mia infanzia parlare di questo tempo a casa, non l’ho visto, perché non ero ancora nato, ma ho sentito dentro casa questa sofferenza, parlare di questa sofferenza”.
“Conosco bene questo, - ha aggiunto – ma devo dirvi coraggio, ma anche sono cosciente che devo fare tutto del mio perché questa parola ‘coraggio’ non sia una bella parola di passaggio, non sia soltanto un sorriso di impiegato cordiale, un impiegato della chiesa che viene e vi dice ‘coraggio’, no questo non lo voglio, vorrei che questo coraggio venga da dentro e vi spinga a fare di tutto, devo farlo come pastore, come uomo: dobbiamo affrontare con solidarietà tra voi, anche tra noi, tutti con solidarietà e intelligenza questa sfida storica”.
“Questa – ha osservato papa Francesco – è la seconda città che visito dell’Italia, la prima Lampedusa, tutte e due sono isole, nella prima ho visto la sofferenza di tanta gente che cerca, rischiando la vita, dignità, pane, salute, il mondo dei rifugiati, ho visto la risposta di quella città che essendo isola non ha voluto isolarsi, e riceve con quello che ha. Fa suo chi riceve, ci dà un esempio di accoglienza, lì – ha osservato – c’è sofferenza e una risposta positiva, qui in questa seconda isola che visito, anche qui trovo sofferenza, una sofferenza che uno di voi ha detto che indebolisce e finisce con rubarti la speranza. Una sofferenza da mancanza di lavoro che ti porta, scusatemi se sono un po’ forte ma dico la verità, che ti porta a sentirti senza dignità, dove non c’è lavoro manca la dignità”.
“E questo – ha sottolineato il Papa – non è un problema della Sardegna, soltanto, o solo dell’Italia o di altri paesi d’Europa, è la conseguenza di una scelta mondiale, di un sistema economico che porta a questa tragedia, un sistema economico che ha al centro un idolo che si chiama denaro, Dio ha voluto che al centro del mondo non sia un idolo, ma siano l’uomo l’uomo e la donna, che portino avanti il mondo con il loro lavoro. Ma adesso in questo sistema senza etica al centro c’è un idolo e il mondo è diventato idolatra di questo dio denaro, comandano i soldi, il denaro, tutte queste cose che servono a lui, a questo idolo, e succede che per difendere questo idolo si ammucchiano tutti al centro e cadono gli estremi, cadono gli anziani perché in questo mondo non c’è posto per loro, alcuni parlano di questa abitudine di eutanasia nascosta, di non curare gli anziani, di non considerarli”.
“E cadono anche i giovani – ha proseguito il Pontefice – che non trovano lavoro”. “Ma in un mondo in cui due generazioni di giovani non hanno lavoro, questo mondo non ha futuro, perché loro non hanno dignità e questa è la vostra sofferenza, questa è la preghiera, ‘lavoro, lavoro, lavoro’, è una preghiera necessaria, vuol dire dignità, portare pane a a casa, amare, per difendere questo sistema economico idolatrico che istaura la cultura dello scarto, si scartano i nonni e si scartano i giovani, e noi dobbiamo dire ‘no’ a questa cultura dello scarto, dobbiamo dire ‘vogliamo un sistema giusto che ci faccia andare avanti tutti’, dobbiamo dire ‘non vogliamo questo sistema economico globalizzato che ci fa tanto male, al centro deve esserci l’uomo e la donna, come Dio vuole, non il denaro”.
“Avevo scritto alcune cose per voi, – ha poi spiegato papa Francesco – ma guardandovi mi sono venute queste parole consegnerò, al vescovo queste parole scritte come se fossero state dette, ma volevo dirvi con il cuore guardandovi in questo momento, è facile dire ‘non perdere la speranza’, ma a a tutti voi quelli che avete lavoro e quelli che non avete, vi dico ‘non lasciatevi rubare la speranza, forse la speranza è come la brace sotto la cenere, aiutiamoci con la solidarietà soffiando sulla cenere, la speranza ci porta avanti, quello non è ottimismo, è un’altra cosa, la speranza dobbiamo sostenerla tutti, è nostra, vostra, è cosa di tutti, per questo vi dico non lasciatevi rubare la speranza, ma siamo furbi, perché il Signore ci dice che gli idoli sono più furbi di noi, ci invita ad avere la furbizia del serpente con la bontà della colomba, abbiamo questa furbizia e diciamo le cose con il suo nome, in questo momento nel nostro sistema economico proposto di vita al centro c’è un idolo e questo non si può fare, lottiamo tutti insieme perché al centro ci siano la famiglia, e le persone, e si possa andare avanti e non lasciatevi rubare la speranza”. E a questo punto ha invitato a pregare insieme. ”Signore, insegnaci a lottare per il lavoro”-
Nell’ultimo riquadro: dipinto di Giorgio De Chirico “Gesù divin lavoratore” Galleria della Pro Civitate Christiana di Assisi
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Cagliari malata di “sviluppite”
— Giorgio Todde, 16.4.2014
Da il manifesto
La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama «sviluppo»
Cagliari, il quartiere Sant’Elia
Cagliari ha tremila anni. Qua, a novanta miglia dall’Africa, i fondatori trovarono un golfo sul palmo di un dio, promontori e colli di roccia bianca dove vivere era facile.
I nuragici ermetici. Poi i Fenici tracciano le rotte. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. Poi i Vandali. Poi Bisanzio e i due evi medi. L’epoca dei Giudicati, le invasioni moresche, i Pisani e i Genovesi. Eleonora d’Arborea e il suo nuovo ordinamento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spagnoli e la decadenza. Il Settecento, i Savoia, il Regno di Sardegna la rivoluzione poi e la modernizzazione ottocentesca. Gli echi del Risorgimento.
Poi il XX secolo. Antonio Gramsci fa il suo liceo a Cagliari. La carneficina della Grande Guerra. Pastori e contadini, riuniti nella Brigata Sassari mandati a morire sul Carso e Emilio Lussu. Poi il fascismo, la seconda guerra, l’occupazione tedesca senza sangue, i bombardamenti anglo-americani del ‘43. La città inizia la sua ricostruzione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe dirigente insieme ai nuovi brutti quartieri, anni 50 e 60, che la raffigurano. L’edilizia caccia via l’architettura. Impresari e commercianti disegnano la città sulla propria immagine e producono una generazione politica conformata, come un calco di gesso, alla loro visione materiale delle cose. I cosiddetti intellettuali si rifugiano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lontano dalle azioni.
Ma qualcosa cambia negli ultimi decenni. Si smette di masticare i fiori di loto e la memoria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si riconosce. Si risveglia un’anima critica che comunica, osserva ed è interessata alle proprie origini. E ricava energia dal passato senza essere passatista. Guarda indietro per essere moderna perché quando uno sa da dove viene non ha bisogno di altro. E si oppone alla frenesia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mercantile, resta forte.
La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama «sviluppo» mentre dimostra che quando la politica si confonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.
Cagliari è un’incubatrice di questa malattia. Però la storia è incancellabile. I luoghi resistono e mettono in movimento gli avvenimenti. I morti della necropoli di Tuvixeddu possiedono la forza dell’assoluto e ancora determinano conseguenze. La rocca medievale resiste ai tentativi di renderla «progredita» con scale mobili e ferraglia. Il promontorio sacro della Sella del Diavolo resterà intatto anche se la città famelica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resisterà ai nuovi assedianti che oggi vogliono un volgare garage dentro le sue mura.
Nel 1956 avevo cinque anni. Il braccio quasi lussato quando passeggiavo a traino delle mani inaccessibili di mio padre, il lungomare, il mercato al centro della città, le barche che tornavano tanto cariche che i pescatori stavano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sembravano piovre, le anguille scappavano dalle cesti nelle corsie del mercato, i pesci boccheggiavano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.
Ma i fattisi muovevano per necessità che non comprendevo. E non obbedivano a nessuno.
Ero troppo piccolo per capire cosa accadeva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, semplicemente, non guardavo perché, appeso alla mano di mio padre, osservavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico orizzonte per me.
So che i monti che vedevo a meridione erano il profilo dei monti del golfo, ma allora credevo che fosse l’Africa perché sentivo ripetere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.
Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delusione. Però continuai a crederci.
Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova meraviglia che il maestro, ammirato dal progresso benché conservasse la sua casa come un salotto di Nonna Speranza, ci aveva già annunciato a scuola.
Il grattacielo.
Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo presente e tutti volevano solo presente e futuro.
Mai visto dal vero un palazzo così alto.Non fu stupore quello che provai vedendo quel lungo parallelepipedo grigio con decine e decine di finestre funerarie. Ancora oggi ricordo la sensazione di perdita che provai e ricordo che non compresi, ero troppo bambino, quel sentimento.
Quella costruzione infantilmente chiamata grattacielo, che ancora esiste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, talmente brutto che diventò proverbiale.
Però il brutto è epidemico e quando inizia si moltiplica con enigmatica testardaggine. Non lo fermi più. Deve, si vede, necessariamente trascorrere e concludersi un’epoca.
Eppure tutti vedevano.
Fu un’amnesia di massa che non è mai cessata da allora. E chissà se riacquisteremo mai la memoria.
Ma, l’ho detto, tutti volevano abbandonare il passato, anche quello buono.
Mia nonna, mentre passeggiavo e giocavo in un terrapieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che cominciava a esserci troppo cemento e che tutti questi nuovi arrivati dal contado — così chiamava gli inurbati che arrivavano da ogni parte dell’isola — stavano rendendo deforme la città. Che lei era comunista, ma questo non le impediva di capire che c’erano persone rese feroci proprio dall’arrivo in città e che avevano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un ignorante non sa mai di essere ignorante.
Appena tirano su un muro si fanno chiamare cavalieri e commendatori, ripeteva.
D’altronde il cemento aveva reso facile e possibile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribolliva di cemento, ma io non lo sapevo. E neppure nonna. Però osservava la sua città.
Lei vedeva la bruttezza del cemento, capiva che non si può mettere insieme cemento e pietra perché invecchiano in modo diverso, che la pietra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.
Il cemento è un materiale che non sa invecchiare. La pietra, invece, è già vecchia, esiste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a disegnare forme squallide.
Era squallido anche il bar aperto al piano terra nel «grattacielo», cattive le brioche, il caffè puzzava di bruciato e un moscone giaceva a pancia all’insù, mummificato per sempre in un angolo della vetrina pretenziosa.
Dentro quel palazzone c’erano però alcuni segnali importanti del presente che seduceva la comunità e la convinceva che il passato era vergognoso.
Però è vero che nella mia città una luce che non finiva neppure la notte e un sole felice anche d’inverno mi facevano sentire fortunato e lontano da ogni pericolo.
Traslocammo nel 1962 in una nuova casa.
E tutto mutò.
La nostalgia è un sentimento indispensabile, ma deve essere organizzato. Sennò si soffre. Oltretutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.
Traslocammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa luminosa, moderna, con due bagni, con davanzali, una portineria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.
Quel quartiere era il confine della città storica, però mi sembrava un salto nel futuro. E ogni volta che passavamo vicino alla vecchia casa trascinavo la mano che mi conduceva per entrare dentro il portone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.
Il trasloco cambiò i giorni e le ore della famiglia, cambiò perfino l’espressione dei genitori, il linguaggio, i vestiti, le abitudini a tavola, la pulizia domestica e perfino l’igiene del corpo, gli odori e la memoria degli odori.Il trasloco è l’allegoria del cambiamento inevitabile, ma non necessario.
Con il camion carico di mobili apparve la differenza tra presente e passato, tra una fine e un inizio.
Babbo aveva battuto a macchina il suo nome su un foglio, ritagliato la striscia di carta e l’aveva infilato nella fessura del nuovo campanello. Poi aveva letto a voce alta il proprio nome e schiacciato il pulsante. Quel trillo era il segnale della città nuova.
[…] Prendere sul serio il lavoro, nella concretezza delle sue forme e nel senso umano che lo abita, è dunque un investimento che ci permette di guadagnare, come singoli e come società, in dignità e inclusione, in gratuità, cura e libertà. È questo − come ricorda il titolo della Settimana sociale di Cagliari − il lavoro che vogliamo e che dobbiamo imparare a promuovere in maniera concreta. Ne vale certamente la pena e per questo lungo il 2017 Aggiornamenti Sociali cercherà di accompagnare i suoi lettori in questo cammino. ———————– Il quadro di G. De Chirico […]