L’Evangelii gaudium: per un’economia al servizio dell’uomo
Eco-nomia o Eco-Anarchia?
Dall’Esortazione un messaggio forte al mondo dell’economia e della politica
di Luigino Bruni
pubblicato su Settimana del 26/01/2014
Questa riflessione non vuole essere un’analisi sistematica dei tanti passaggi economici dell’esortazione pontificia, ma l’individuazione di alcune piste di riflessione. Finora economisti ed esperti si sono soffermati su aspetti marginali, senza prendere sul serio la forza dirompente della denuncia e della profezia contenuta nel documento.
L’Evangelii gaudium (EG) apre una nuova stagione nel genere letterario usato nei documenti ufficiali papali. E un testo che non parla soltanto, né primariamente, a teologi e a intellettuali, ma al popolo, all’interno del quale sono visti anche intellettuali e teologi. – segue -
E quindi un’esortazione espressione di un’ecclesiologia di popolo (in continuità con il concilio), ma anche di un’ecclesiologia popolare, che ha caratterizzato questo pontificato dal quel primo “buona sera” del 13 marzo. E da questa prospettiva che va accolto e letto, ed e su questo terreno che va valutato e analizzato criticamente questo documento, inclusi i suoi (molti) paragrafi che trattano di faccende sociali ed economiche.
La EG è una lunga lettera pastorale indirizzata ai cristiani, tenendo presente che, per papa Bergoglio, i confini della Chiesa sono molto ampi, e su quei larghi confini si parla, si dialoga e si ama chi si trova al di la di essi. Non è quindi, né voleva essere, un trattato di teologia, né tantomeno di teoria sociale o economica, e neanche un’enciclica sociale. Ciò non significa che l’EG non sia rilevante e stimolante sia per la dottrina sociale che per quella economica.
Dall’impostazione popolare del testo e del papato emerge poi una precisa visione dell’economia, che non è considerata una faccenda tecnica, per i soli addetti ai lavori. L’economia della EG è vitale, è un brano divita, di cui anche la Chiesa può e deve occuparsi.
Il consumismo solitario e nichilista.
Per questa ragione, un messaggio importante dell’Evangelii gaudium un messaggio scritto in filigrana, ma chiaro per chi sa individuarlo è l’impossibilità di dar vita ad una società giusta senza la realizzazione di un’economia giusta, una giustizia che si misura soprattutto col metro dell’equità e dell’inclusione. Per questa ragione l’economia va criticata, perché diventi ciò che dovrebbe essere per “vocazione”, e che non e ancora.
Questo tipo di critica e una vocazione ineludibile ed essenziale del cristianesimo che, se smettesse di indicare il non ancora di ogni sistema storico, smetterebbe di dare forse il suo principale contributo al bene sociale e civile.
Questa dimensione sfugge a lettori come Michael Novak (cf. Il Corriere della Sera, 12 dicembre 2013) che, di fatto, ha liquidato l’EG come un documento regionale (valido per Argentina di qualche anno fa o, al massimo, per l’America Latina), scritto da qualcuno che non conosce la storia dell’Occidente e dei beni sociali prodotti dal libero mercato. Dire che l’EG va letta «attraverso lo sguardo di quel professore vescovo papa nato e cresciuto in Argentina», significa depotenziarne completamente la portata culturale generale, e renderla, di fatto, irrilevante.1
Per papa Bergoglio l’economia ha un posto centrale nella ricerca del bene comune. E questo perché l’economia, a differenza di quanto pensa la cultura economica oggi dominante, non è mai attività eticamente neutrale o indifferente. Se l’economia non è per la persona, è contro di essa; se non rispetta l’ambiente, lo distrugge; se non riduce la miseria, la crea; se non e per la pace, costruisce guerra; se non è civile, è incivile; se non è fraterna, è fratricida. Quando la gente, soprattutto i poveri, non vivono in un’economia giusta e sostenibile, la gioia del Vangelo resta annuncio e profezia, ma esperienza storica di pochi, e non diventa realizzazione di quel Regno della letizia, della giustizia e della pace preannunciato dai profeti. Senza un’economia capace di comunione, i “cieli nuovi e la terra nuova” restano di fatto utopia (no luoghi), indicano qualcosa di ultimo, che appare troppo distante e astratto per cambiare in meglio le nostre vite penultime.
La centralità dei temi economici nella EG emerge già dai primissimi paragrafi del documento: «Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata›› (n. 2).
Nessuno può negare che il consumo è il grande protagonista della nostra società, e non solo né soprattutto in America Latina, ma negli USA e nei paesi ad alto reddito. La prevalenza del consumo sul lavoro non è un fatto inedito della nostra civiltà, perché accumuna tutte le civiltà decadenti. Nel Medioevo il centro della scena pubblica lo occupava la religione. Nell’Ottocento e fino all’avvento recente dell’era della globalizzazione, il grande protagonista della nostra vita in comune e stato il lavoro, soprattutto il lavoro della fabbrica e quello della terra, quindi il lavoro sociale, quello svolto assieme. Le culture del 19° e del 20° secolo non sono state culture del consumo ma culture del lavoro, della terra e del risparmio.
Il boom dei consumi del dopoguerra di molti paesi europei ha prodotto miracoli economici e civili perché era un consumo che nasceva dal lavoro e dalla sua tipica fatica buona. L’età attuale, invece, ha intronizzato il consumo come suo nuovo sovrano. Il lavoro vero della gente vera è uscito di scena, e la produzione dei beni e delle merci è sempre più eclissata, lontana, invisibile: «I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta che il consumismo sfrenato, unito all’iniquità, danneggia doppiamente il tessuto sociale» (60). Si trova in questa eclisse sociale del lavoro, e nel monopolio dei consumi, una ragione profonda della grave crisi del lavoro, che non si crea né si trova più, perché non lo si vede più. La EG, invece, ricorda la priorità del lavoro: «Nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita. Il giusto salario per mette l’accesso adeguato agli altri beni che sono destinati all’uso comune>› (192).
Oggi le analisi sociali, i dati empirici e anche i modelli teorici della teoria dei giochi (nia prima ancora l’osservazione della vita quotidiana) ci dicono l’irrazionalità individuale e collettiva di consumi intemperati, illimitati, sfrenati, in particolare di quei beni che chiamiamo “beni posizionali”, cioe di beni che non vengono acquistati per l’uso tipico del bene, ma per competere con gli altri, e per “posizionarci” nelle gerarchie sociali (auto, case, ma anche telefonini, tablet…).
Esclusione e “ricaduta favorevole”
La storia dell’Europa e del mondo ci mostra che, quando nelle città queste competizioni posizionali tramite i beni crescevano oltre un “punto critico”, iniziava la loro decadenza, prima produttiva, poi sociale e politica. Papa Francesco denuncia questo rischio: «La crisi mondiale che investe la finanza e l’economia manifesta i propri squilibri e, soprattutto, la grave mancanza di un orientamento antropologico che riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo» (55).
Le società progrediscono quando le persone orientano la loro natura competitiva e agonista nella produzione e nel lavoro; degradano e precipitano in trappole di povertà quando competono principalmente con il consumo. La EG è un grande monito, rivolto a tutti noi con una speciale attenzione alle società opulente, a non cadere complessivamente in questa trappola del consumo posizionale e, se vi siamo già caduti, l’invito forte a cercare di uscirne.
Papa Francesco coglie nel segno quando stigmatizza la nostra economia capitalistica come un’economia dell’esclusione: «Oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e dell’iniquità”. Questa economia uccide» (53). È forte, infatti, la tendenza a trasformare i beni comuni in beni di club, dove la differenza tra i due sta proprio nell’esclusione. I beni comuni dalla terra all’acqua sono tali proprio perché non possono essere esclusi a nessuno, perché sono beni di tutti. La crescente cultura della privatizzazione, invece, non fa altro che togliere beni comuni e bene comune alla gente, soprattutto ai poveri, che dovrebbero avere almeno i beni comuni, non riuscendo ad avere molti beni privati essenziali: la privatizzazione dei beni comuni penalizza di più i poveri.
L’economia capitalistica fa una grande fatica a comprendere i beni comuni perché non affronta, in genere, i problemi in prospettiva storica (il tempo), non vede relazioni ma individui separati, anche perché è tutta definita all’interno del registro maschile della razionalità. Nella creazione, gestione e non distruzione dei beni comuni c’è dunque inscritta una norma aurea di reciprocità, ma di una reciprocità più complessa di quella ordinarie e note (l’amicizia, i contratti, l’amore coniugale…)
Una cultura dell’esclusione che si estende anche al grande tema del lavoro: il lavoro, se e solo un costo di produzione, un capitale o un fattore produttivo, può essere sostituito da qualsiasi macchina o algoritmo meno costosi. La perfetta sostituibilità tra lavoro e capitali è una grande malattia del nostro tempo.
Dalla tradizione dell’economia sappiamo che l’esclusione dei poveri non è la fisiologia dei mercati, ma una loro malattia grave. L’economia di mercato fu inventata e pensata dalla scuola di Francesco (d’Assisi) nel Medioevo, e ha acquisito la sua legittimità etica proprio per la sua capacità di includere gli esclusi. L’inclusione produttiva non significa -rileva criticamente il papa- confidare nei meccanismi automatici e inintenzionali della «ricaduta favorevole» (56), che è l’idea aurea neo liberista la quale sostiene che, quando sale la marea, tutte le barche si sollevano, anche le più piccole: la ricchezza dei ricchi fa bene anche ai poveri, come ricorda anche Novak. È quindi bene lasciare i ricchi sempre più ricchi, in una versione del capitalismo che potremmo chiamare del “ricco Epulone” che, mentre mangia, lascia, senza volerlo, le briciole ai cagnolini sotto il tavolo.
La critica di papa Francesco va quindi letta come un forte appello a non lasciare la cura delle povertà e delle esclusioni agli effetti non intenzionali di comportamenti intenzionalmente tesi ai soli interessi individuali. La sua è una legittima e necessaria critica a un’idea di solidarietà di mercato e di bene comune affidata principalmente agli effetti indiretti (o esternalità), che non è altro che una riedizione della tesi di Bernard de Mandeville, Vizi privati, pubbliche virtù, formulata all’inizio del Settecento. La grande tradizione classica del bene comune, umanista e cattolica, quella di Aristotele, di Tommaso, dei francescani fino a Genovesi o a Toniolo, non ha mai pensato al bene comune come ad una faccenda di effetti positivi inintenzionali di azioni cercanti soltanto il proprio interesse, ma l’ha associata alle virtù private e pubbliche.
L’idea di mercato che nasce da questa tradizione, della quale Francesco e interprete e continuatore creativo, è quella di una grande intrapresa di cooperazione intenzionale, come esercizio di virtù sociali, come faccenda comunitaria e personale. Da questa prospettiva il mercato non e né luogo dell’egoismo né della filantropia, ma del mutuo vantaggio, della «mutua assistenza» (Antonio Genovesi), un network di azioni intenzionali con giunte per crescere insieme: «La parola “solidarietà” si è un po’ logorata e a volte la si interpreta male, ma indica molto di più di qualche atto sporadico di generosità. Richiede di creare una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni» (188). In questo mercato, l’inclusione dei “poveri” non è faccenda di filantropia appaltata al mondo non profit, né ricaduta indiretta di azioni di individui egoisti, ma è il fine stesso del mercato, e quindi la natura più profonda e vera del mercato civile, quello nato dal cuore dell’Europa cristiana medioevale.
Dalle fabbriche fino al movimento cooperativo (dove questa inclusione intenzionale e produttiva è stata massima), il mercato e le imprese sono stati e sono luoghi di inclusione, dei poveri soprattutto, per una crescita comune. La stessa inclusione produttiva operata oggi dal micro credito, e da tanta economia equa e inclusiva, continua questa grande tradizione di mercato comunitario, non anonimo, dove la solidarietà non è affidata alla “mano invisibile” ma alle mani visibili di tanti uomini e donne, imprenditori, lavoratori, istituzioni operanti al bene di tutti e di ciascuno (il bene comune): «Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato» (204).
Francesco ci ricorda che il modello del capitalismo che oggi sta dominando il mondo, e che in questi tempi di crisi sta colonizzando gli ultimi territori del pianeta, non e né il solo possibile, né il migliore. Le economie di mercato sono tutte costruzioni storiche, che mutano in base ai valori di chi i mercati li abita. Cioè i nostri valori. Oggi la EG ci ricorda con forza che un mercato che esclude nega la sua vocazione etica e la sua storia.
Con le nostre scelte quotidiane, micro e macro, soprattutto se in tanti, possiamo allora richiamarlo all’inclusione e alla comunione, che non solo sono compatibili con una moderna economia di mercato, ma ne sono la sua natura più vera e profonda.
Denaro e idolatria
L’idolatria è un tema ricorrente nell’insegnamento biblico (ad es. Geremia) e in quello delle Chiese. Nella EG occupa un posto centrale, e viene associata al denaro e alla sfera economica: «Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il denaro, poi ché accettiamo pacificamente il suo predomino su di noi e sulle nostre società. La crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che, alla sua origine, vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cf. Es 32,1 35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano» (55).
Diversi filosofi, sociologi, psicologi hanno messo in luce la natura religiosa del capitalismo. La natura religiosa del capitalismo fu colta già dal genio filosofico di Antonio Rosmini quando il capitalismo era ancora ai suoi albori. Ma soltanto oggi il capitalismo sta rivelando pienamente la sua natura idolatrica. E non solo per la crescente devozione alla dea fortuna,divinità suprema della legione di “giochi” che sta possedendo nuove categorie di poveri e del capitalismo slot, o per i centri commerciali disegnati a forma di tempio, e neanche soltanto la creazione di un sistema finanziario basato sulla sola fede senza più alcun rapporto con l’economia reale… Da idolatria malattia di ogni civiltà religiosa con il capitalismo il culto del denaro si e trasformato in una vera e propria religione, con suoi sacerdoti, chiese, incensi, liturgie, accoliti, santi, con un culto feriale ad orario continuato. Mettendo l’accento sulla natura idolatrica del denaro, l’EG ci consente di entrare in uno dei punti chiave per comprendere la natura del nostro capitalismo.
La centralita del tempo
L’economia è vita, è faccenda popolare, che riguarda ogni persona, soprattutto i poveri. Per questo non possono essere i soli economisti, o gli addetti ai lavori, ad occuparsene, a scriverne, e a capirla. L’economia è troppo importante per la vita per lasciarla ai soli economisti. Non è ne cessario essere esperti di teoria economica per denunciare le false promesse di liberazione dei poveri, l’esclusione e l’idolatria che si cela dentro il nostro sistema capitalistico. La EG ci invita, allora, a riflettere più in profondità sulle dinamiche economiche che si compiono sotto gli occhi di tutti, e soprattutto a liberarci dalle ideologie che, larvatamente, occupano le nostre menti, e non ci fanno più sdegnare di fronte agli scandali del l’esclusione, degli egoismi, per un «anziano ridotto a vivere per strada» (53)
Infine, un messaggio forte all’economia, agli economisti e ai politici proviene da uno dei principi ispiratori del documento: Il tempo è Superiore allo spazio (222-226). Il nostro sistema di sviluppo e di crescita è tutto schiacciato sul qui e ora, e così rischia di spezzarsi il legame che unisce tra di loro le generazioni. Ridare priorità al tempo significherebbe, oggi, usare le risorse non rinnovabili della terra sapendo che le abbiamo ereditate dai padri e che dobbiamo lasciarle in eredità ai figli. E quindi fare calcoli diversi per misurare la nostra crescita e il nostro benessere. La «destinazione universale dei beni» (189), principio base della dottrina cristiana, riguarda senz’altro lo spazio ma interpella, soprattutto, il tempo. Il nostro capitalismo individualista baratta invece qualità dell”ambiente, dell’aria e dell’acqua di domani, il futuro di interi popoli (penso in particolare all’Africa), con qualche grado di temperatura in più o in meno nelle case del Nord del mondo, e continua a mangiare, con golosità, terra, ambiente, poveri. Non include le «periferie» (53), ma, come moderno ciclope, le divora in cerca di sempre nuovo cibo.
Riporre al centro il tempo significa giudicare le scelte di politica economica, micro e macro, dalla prospettiva di un bambino, o di una bambina, che oggi sta nascendo in un villaggio africano o asiatico, di quella dei suoi figli e ai nipoti, e poi nei sofisticati algoritmi delle nostre analisi costi benefici attribuire alla loro felicità un peso non minore della nostra.
Fin ad oggi gli economisti e gli “esperti” sono stati silenti, e i pochi che hanno parlato lo hanno fatto soffermandosi su aspetti marginali,2 senza prendere sul serio la denuncia e la profezia contenuta nel documento. Ma siamo ancora in tempo per recuperare il tempo prezioso perduto.
Note:
1 – L’articolo di Michael Novak è un ottimo esempio di dove può portare una lettura ideo logica di un documento, anche papale. A scrivere, ad esempio, frasi come: « il sistema americano si è dimostrato più “inclusivo” verso i poveri di qualunque altra nazione della terra». Completamente assenti dalla sua analisi i temi dell’ ineguaglianza, del consumismo, della dittatura della finanza, e dellidolatria del denaro, che sono invece al centro dell”esortazione.
2 Cf., ad esempio, la nota di Alberto Bisin: http://noisefromamerika.org/articolo/buon-anno-papa-francesco
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Per correlazione su Aladinews
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