Da Adriano Olivetti a Sergio Marchionne, per la legge del contrappasso
di Michela Loi
La Olivetti sappiamo tutti cosa è stata, anche chi non ha dato esami di organizzazione. Rappresenta tutt’oggi un’industria avanzata per la gestione del personale, ma forse sarebbe più giusto della comunità, per riprendere una delle parole chiave del pensiero di Adriano Olivetti.
Una comunità che non è fatta solo da tutto ciò che sta dentro le mura dell’industria, ma che vive e si preoccupa di ciò che sta fuori e con esso vive e si misura. Non è per caso che dentro l’Olivetti hanno lavorato architetti e urbanisti, impegnati a occuparsi di problemi dentro e fuori le mura della fabbrica. Ma questa è solo una virgola, diremo quasi un optional. Il fatto è che ha dato vita a molto di più.
In tal senso, credo sia opportuno rinfrescarsi la memoria e rivedere come l’impresa Olivetti abbia concepito la relazione con i suoi dipendenti, dando veramente centralità alla persona e alla soddisfazione della stessa, fino ad arrivare a disegnare modelli di assistenza sociale copiati poi dalla pubblica amministrazione, che prevedeva l’esistenza di un fondo per sussidi al reddito fino al medico e all’ospedale. Tanto per citare qualche esempio, più inerente alla vita delle persone dentro Olivetti, la formazione era all’ordine del giorno e la cultura idem. Nelle due ore di pausa pranzo era possibile che i dipendenti usufruissero di una biblioteca e prendessero libri in prestito. Era previsto anche lo spazio cinema e di alta qualità, ovviamente. Dentro l’azienda la mensa era uguale per tutti e le differenze di status non erano gradite, dirigenti e operai sedevano allo stesso tavolo. La Olivetti metteva a disposizione borse di studio per iscriversi all’università, ma non dovevi per forza diventare ingegnere, potevi scegliere anche filosofia e poi decidere di cambiare lavoro. Ha allestito dentro le sue mura una scuola di tecnici, dove i propri operai, ma anche i loro figli, potessero apprendere il meglio con la possibilità di far poi parte dell’azienda. Essere donna non era un handicap, l’asilo era standard, e poi lo è diventata anche la colonia estiva, nata da una segnalazione di un vetro rotto per opera di un bimbo, figlio di un dipendente Olivetti. È superfluo dire che qui è nato un laboratorio di sociologia e psicologia del lavoro che oggi fa invidia. Il lavoro era basato sulla relazione, e i dirigenti erano selezionati sulle capacità non solo tecniche, ma anche su quelle relazionali e sulle capacità di gestire i conflitti. Si vedevano ingegneri, umanisti ed economisti lavorare tutti insieme ad un medesimo problema, con l’obiettivo di conciliare le diverse visioni e di averle sempre presenti in azienda.
E questo clima ha portato alla nascita della divisione dell’elettronica dei grandi sistemi, che la Fiat, alla morte di Adriano Olivetti, ha ceduto alla General Electric.
Ci si può chiedere se questo sistema fosse antieconomico, ma negli anni ’30 il capitale della Olivetti era di poco più di un milione di lire, nel ’49 è passato a 1,2 miliardi per raddoppiare nel 1953, superando diverse crisi, senza mai licenziare nessuno. Anzi, in periodi di crisi ha assunto centinaia di persone e licenziato i cattivi consiglieri.
Mi si perdonerà lo spicciolo parallelo: anche Adriano Olivetti ha abitato in Svizzera, seppur come esiliato…
Fonte: l’articolo si è ispirato al documentario su Adriano Olivetti (nella foto), mandato in prima serata da Rai5, per festeggiare il primo maggio, la festa del lavoro, un grande assente dei giorni nostri.
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