L’alluvione in Sardegna. L’aiuto e la solidarietà per le popolazioni, innanzitutto. Ma anche l’individuazione di cause e responsabilità e la ricerca e la pratica della buona politica per salvaguardare la vita e i territori

foto editoriale VTola alluvionesedia-van-gogh-4-150x150-bis1di Vanni Tola
Il dramma dell’alluvione in Sardegna è ancora troppo recente per avviare una riflessione sulle cause dell’evento e sul controllo idrogeologico del territorio. L’aiuto e la solidarietà verso le popolazioni colpite è, e naturalmente resta il primo punto all’ordine del giorno. Anche noi non intendiamo precorrere i tempi delle indagini e la conseguente individuazione di cause e responsabilità, personali e politiche dei singoli e delle istituzioni alle quali compete la gestione del territorio. Ci limiteremo pertanto a elencare alcune questioni, come appunti “a futura memoria” per il dibattito sulle cause e le responsabilità che certamente seguirà la fase dei soccorsi. E’ indubbio che, in generale, e in particolare per il territorio di Olbia, una delle concause del disastro sia rappresentata da una folle politica idrogeologica e da una forsennata edificazione in aree non adatte a ospitare edifici. Ma è altrettanto vero che moltissime testimonianze udite nei telegiornali e rilasciate prevalentemente da anziani parlano con una certa insistenza di un’ondata improvvisa, di una massa d’acqua mai vista in quell’area che pure non nuova ad eventi alluvionali. Qualcuno degli intervistati è andato perfino oltre affermando che probabilmente l’ondata improvvisa poteva essere attribuita ad una gestione scriteriata dei bacini controllati da dighe. Per dirla tutta alcuni prospettano che nel bel mezzo della tempesta, quando l’area di Olbia era già invasa dall’acqua, si sia proceduto a un inopportuno, improvviso e massiccio intervento di svuotamento dei bacini artificiali per alleggerire il carico d’acqua che cominciava a preoccupare i gestori delle dighe. Un’ipotesi tutta da verificare che comunque potrebbe spiegare l’origine di quell’ondata improvvisa ed anomala che molti hanno avvertito e raccontato e che non dovrebbe essere compatibile con un innalzamento del livello dell’acqua che, per quanto consistente, s’immagina progressivo e graduale in un contesto di alluvione. Altra considerazione. Moltissimi ponti e diversi tratti di strada si sono letteralmente sbriciolati causando, purtroppo, anche alcuni decessi. Non sarà forse il caso di monitorare con urgenza lo stato di questo tipo di infrastrutture nell’isola giacché, paradossalmente, i ponti in cemento armato sono venuti giù come birilli mentre hanno resistito soltanto antichi ponti esistenti da secoli? E ancora, si attribuisce la causa del gravissimo dissesto idrogeologico all’abbandono delle aree collinari, alla mancanza di interventi adeguati alla regimentazione delle acque piovane, all’abbandono delle terre da parte di contadini e pastori. Tutto vero, per carità. Lascia però l’amaro in bocca e fa sorgere più di un dubbio sull’efficacia di determinati interventi di difesa del territorio, il fatto che nell’area di Monte Pino, lungo la strada Tempio-Olbia – nella quale si è registrato l’ennesimo crollo di un ponte che ha causato la morte di tre persone – operi da almeno trent’anni un vasto cantiere della forestale che, si presume, avrebbe potuto provvedere, in cosi tanto tempo a una sistemazione ottimale dell’assetto idrogeologico della zona. Quanti cantieri forestali operano, spesso da decenni, nelle zone che sono state oggetto di alluvioni e frane? Ma soprattutto quale è stata, se c’è stata, l’efficacia in termini di regimentazione delle acque e sistemazione idrogeologica di tali interventi che, come in tutto il meridione, occupano una notevole quantità di lavoratori e impegnano consistenti risorse finanziarie? Non crediamo si tratti di questioni di poco conto, se ci si colloca in una logica di programmazione di efficaci interventi per limitare il ripetersi di eventi calamitosi di tale portata.

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