Giovanni, piccolo Fratello

img_0841
————————
* Giovanni Cara ha compiuto 95 anni il 21 settembre scorso
———————————————————
Con la cachaça si prepara la caipirinha. Ma si può bere anche da sola.
Ricordando Giovanni Cara*.
Gianni Loy

Sardi entrambi. Ed entrambi frequentavamo gli stessi ambienti, quello dei cattolici che in un modo o nell’altro, laici o consacrati, maschi o femmine, interpretavano il messaggio del Concilio Vaticano II; ciascuno a modo suo, cercando un eremo lontano dove coltivare in silenzio la preghiera, o impegnandosi nel sociale secondo l’ispirazione della teologia della liberazione, con – tra i due estremi – tutte le sfumature della speranza. Insomma: facevamo parte dello stesso “giro”. E non le occasioni di incontro.
Eppure, per quanto lo conoscessimo, abbiamo incontrato Giovanni Cara una sola volta, Anna ed io; l’abbiamo incontrato lontano da qui, in Brasile, a Salvador Baja. Sicuramente gli portavamo i saluti e i messaggi di qualche comune amico, di quelli che intrattenevano con lui un più stretto rapporto e ci chiedevano di salutarlo.
Ne ho un ricordo preciso e indelebile: un incontro difficile, a tratti persino imbarazzante. Mi trovavo a disagio, non per il fatto di incontrarlo per la prima volta – che allora si faceva presto a familiarizzare, soprattutto se si condivideva un ideale – ma per il fossato che separava, soprattutto in quel momento, la sua esperienza dalla mia. Perché noi ci trovavamo in Brasile per turismo, quindi in una condizione di privilegio, mentre Giovanni in quel luogo vi abitava, in una periferia dove se non fosse stato per quell’occasione, non saremmo mai entrati. Era lì che, in quel momento, spendeva la propria vita, nel vero senso della parola.
È stata proprio quella distanza a farmi sentire a disagio: su cosa avremmo potuto familiarizzare, in presenza di una condizione esistenziale tanto differente?
Adoravamo lo stesso Dio. È vero! Ma da anni continuava a rimbalzarmi tra le tempie il ritornello di una canzone dei Gufi, appresa negli anni caldi della contestazione, che ripeteva: “tutti andiamo in Chiesa a pregare Iddio, ma tu ti preghi il tuo che io mi prego il mio!”. Il Dio di chi sacrificava la propria vita all’amore del prossimo, vivendo in povertà estrema, lontano dalla sua terra, poteva essere lo stesso di chi, come me, gli faceva visita nel corso di una settimana di serene vacanze, alloggiando non in una favela, ma in accoglienti hotel? Cosa avremmo potuto avere in comune?
Il primo giorno abbiamo pranzato assieme, in ristorante. È li che ho avuto la sensazione che Giovanni fosse particolarmente felice di consumare un pasto in quel luogo – era stato lui a scegliere il locale – perché …. insomma, per dirlo chiaramente, ho avuto l’impressione che la sua alimentazione quotidiana non dovesse essere delle migliori e che approfittasse della circostanza per concedersi un pasto dignitoso. Vederlo così felice solo per potersi sfamare, mi rendeva felice a mia volta, perché – vera o falsa che quella mia sensazione sia stata – condividevo quella sua contentezza. Allo stesso tempo, mi ritornava alla mente l’invito rivolto da Gesù di Nazareth a chi riteneva di osservare i comandamenti: vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri; poi vieni, prendi la tua croce e seguimi.
Ho seguito Giovanni nella sua casa, sulle pendici della favela dove abitava.
Scatole di ogni forma, con muri di terra la maggior parte, che si affacciavano su viottoli fangosi. Molte di esse protette da sbarre alle finestre, quasi a volerci insegnare che neppure i poveri possono fidarsi l’uno dell’altro. Una storia comune e mille storie diverse rinchiuse, ciascuna, all’interno di quelle mura. Si diceva che la favela costruita sulle palafitte, più a valle, fosse riservata ai privilegiati …
La casa, era un minuscolo cubo dove poter dormire, mangiare e pregare. Riuscì anche a spiegarci come il suo Dio potesse convivere con lo squallore di quella periferia, dove la gente per bene – salvo che non vi si recasse per male – non si azzardava metter piede. Il mio Dio, invece, in quel momento era distratto.
Giovanni avrebbe potuto offrirci soltanto un infuso o un bicchierino di cachaça.
Quella bevanda non la conoscevo. Fu lui a spiegarmi che si trattava di un’acquavite popolare distillata dalla canna da zucchero, e che con la cachaça – con l’aggiunta di lime, zucchero e ghiaccio, si preparava la caipirinha. Non l’avevo mai bevuta prima di allora, ma nei giorni seguenti sì, nei ristoranti che me l’avrebbero proposta in versioni più eleganti.
Il frigorifero era pressoché vuoto. Tra i pochi arredi una vecchia bottiglia di birra, o d’acqua minerale – questo non lo ricordo – che conteneva l’acquavite.
Giovanni, a quella bottiglia, sembrava tenerci molto. A me, al principio, di fronte a tanta miseria, era sembrato che, tra tanta povertà, una bottiglia di acquavite potesse non essere la cosa più importante. Mi era ritornato alla mente l’insegnamento che, da ragazzino, avevano cercato di inculcarmi, intrufolandolo tra le pagine del catechismo: che occorre prudenza nel fare l’elemosina, perché il povero che la riceve, spesso e volentieri, potrebbe utilizzarla non per i bisogni più necessari, ma magari per ubriacarsi. Ma allora avevo capito l’inganno e incominciato ad elaborare il concetto di dignità e di rispetto.
Ecco perché ho tanto indugiato su quel particolare apparentemente insignificante, su quella bottiglia di cachaça che consentiva a Giovanni Cara di offrire a chi entrava nella sua casa, un segno di ospitalità. Capivo che quella persona umile che mi accoglieva a casa sua, non faceva il povero, Giovanni si era fatto povero per davvero i poveri erano la sua famiglia. Aveva concluso il processo di inculturazione. A dire il vero, in quel momento, mi era tornata alla mente anche quell’altra storia della cruna dell’ago … Ma è meglio non divagare.
Il giorno dopo, siamo andati a trovarlo, in città, nel “ricovero” dove lavorava come infermiere, non lo si potrebbe chiamare altrimenti. Una struttura che accoglieva i più disperati. Giovanni dava loro del pane se avevamo fame e dell’acqua se avevano sete. Curava le loro piaghe. Un letto per dormire non poteva darglielo, al più un giaciglio per la notte che solo i più fortunati, quelli che trovavano posto, riuscivano a stendere sotto una tettoia.
La fine della storia è che il giorno seguente ci siamo imbarcati in aereo per proseguire le vacanze. Avevamo ancora alcune giornate da spendere.
Così ho conosciuto Giovanni Cara. E non l’ho mai dimenticato. Al ritorno agli amici che mi chiedevano dell’esperienza in Brasile rispondevo: Bolis pònniri Chia!
Vuoi mettere la spiaggia di Chia!

26 gennaio 2025
img_0842
img_0843
img_0844
———————
img_0847
———————-

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>