Pensiamo alla condizione dei detenuti nelle nostre carceri.
Con l’intervento che segue, di Gianni Loy, proseguiamo nella ripubblicazione di saggi contenuti nel Dossier Caritas 2024, avviata di recente con quello di Franco Meloni. Mostrami il detenuto ed io ti mostrerò mille ragioni…
di Gianni Loy*
«Penso ai detenuti, che privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto», ha scritto Papa Francesco in preparazione all’imminente Anno giubilare. Quindi ha invitato i Governi, in occasione del Giubileo, ad assumere «iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi».
Nel leggere queste parole, mi son venute alla mente le parole di Luca ed ho pensato che questi semi di speranza non potranno germogliare, perché destinati ad essere calpestati nelle strade del mondo, a cadere, inascoltati, tra le spine onnella roccia. Mi son vergognato di averlo pensato, rendendomi conto che, io stesso, per qualche momento non ho accolto quel messaggio di speranza. Vero è, tuttavia, che la questione delle carceri in Italia, e non solo, – ma qui riflettiamo su di noi – è disperante.
La maggior parte delle persone detenute, vi sono rinchiuse per aver infranto la legge. Dico la maggior parte, perché tra essi vi sono anche degli innocenti – alcuni dei quali non hanno più neppure la forza di reclamare o gridare la propria innocenza – e numerose sono le persone che scontano una carcerazione preventiva ma verranno assolti.
In ogni caso – sembrerebbe un paradosso – i detenuti scontano una punizione per aver violato la legge; tuttavia, scontano la pena all’interno di un luogo dove le leggi vengono violate ogni giorno, a partire da quelle che impongono il rispetto dei loro diritti.
Intendo i diritti fondamentale, quelli sanciti dalla Costituzione e dalle Carte internazionali. A partire dalla dignità, che non consiste affatto in un trattamento riservato a chi dimostri di meritarla – come una certa vulgata vorrebbe far credere –bensì, proprio al contrario, in un trattamento che la Costituzione riconosce a tutti, in quanto persone, indipendentemente dai loro meriti: cioè, anche a coloro che
hanno violato la legge, anche a quelli il cui comportamento sia riprovevole.
Lo Stato italiano, anche recentemente, è stato condannato dalla Corte europea dei diritti umani (n. 37818/09 del 8.1.2023) per aver violato la norma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta la tortura ed ogni trattamento inumano e degradante – la dignità della persona, appunto – imponendo all’Italia di adottare, entro un anno, misure strutturali idonee a rimediare al sovraffollamento
delle carceri ed alle condizioni di detenzione.
Parole che cadono nel vuoto. La risposta del Governo può essere sintetizzata nei provvedimenti contenuti nel cosiddetto Decreto Sicurezza, che invece che proporsi un miglioramento delle condizioni di detenzione, vorrebbe inasprire le pene per i detenuti che protestano per il trattamento cui sono sottoposti.
All’interno degli istituti di detenzione sono violati il Diritto alla tutela della salute, sia perché detenute in carcere persone che, per la patologia che presentano – soprattutto di tipo psichiatrico – in carcere non dovrebbero starci; sia perché ai numerosi tossicodipendenti presenti non è possibile garantire il trattamento cui avrebbero diritto, sia perché – caso eclatante per quanto riguarda il territorio della città metropolitana di Cagliari – la Asl non garantisce le risorse necessarie ed è gravemente inadempiente agli obblighi di legge nei confronti dei carcerati. Per
la maggior parte dei detenuti è violato il Diritto al lavoro, poiché le condizioni strutturali degli istituti di pena non sempre lo consentono.
Per gli stessi motivi è violato il diritto costituzionale (art. 27) ad un trattamento teso alla rieducazione del condannato – solo pochi riescono a beneficiarne effettivamente – ignorando che gran parte dei detenuti privati di occasioni di
“rieducazione” tornano facilmente a delinquere, e che solo pochi di quanti seguono i percorsi comandati dalla legge ci ricascano. Come a dire che, persino per egoismo,
quanti vorrebbero “passeggiare tranquilli per la strada” – peraltro fingendo di ignorare altre cause di devianza – dovrebbero auspicare che lo Stato dia piena attuazione al comandamento contenuto nell’art. 27 della Costituzione.
È violato il diritto dei detenuti ad essere ad essere assegnati ad un istituto che consenta la vicinanza alla propria famiglia, a luoghi di pena specializzati, perché la regola che disciplina le assegnazioni è ormai il “sovraffollamento”, termine
sconosciuto alla legge ma introdotto, surrettiziamente, dalle circolari. Nel carcere di Uta, dal gennaio al settembre di quest’anno, il numero dei detenuti è cresciuto di
106 unità – spesso provenienti da altre Regioni d’Italia – proprio per l’insufficienza cronica di strutture rispetto al numero delle persone private della libertà. Il fatto stesso che le presenze dell’istituto siano di quasi il 30% in più della sua capienza,
da conto del disagio e dell’impossibilità di garantire i diritti delle persone detenute.
Tanto più con un numero di agenti, già largamente inferiore al numero previsto da un organico che, da un giorno all’altro, deve far fronte alle esigenze di oltre 100 persone in più. Il numero impressionate di suicidi dei detenuti, ed il fatto che il
fenomeno interessi, seppur in misura più limitata, gli agenti di polizia carceraria, è eloquente più di ogni altro ragionamento.
Sia chiaro, tutto ciò non ha niente che vedere con le notizie che, di tanto in tanto, portano all’attenzione dell’opinione pubblica fatti di cronaca che denunciano abusi, o violenze, all’interno degli istituti di pena. La professionalità degli operatori non è in discussione; le devianze rientrano in una patologia che
riguarda tutte le categorie: dai politici, ai giornalisti, ai magistrati, ai professori, alle forze dell’ordine, ai ministri del culto… e non possono distrarre l’attenzione
dal fatto che la prima causa del disagio che si avverte all’interno delle carceri è costituito da carenze strutturali, in larga parte attribuibili alle scarse risorse da
parte di governi che, succedendosi nel tempo, inseguono altre priorità. Al sistema carcerario, nonostante l’attenzione della cronaca, non viene riservata l’attenzione
che merita, conseguentemente, non vengono destinate ad esso neppure le risorse basilari, a partire dalle strutture materiali e dalle risorse umane, senza delle quali il programma costituzionale, ma anche la semplice attuazione delle regole contenute
nella legge che disciplina il sistema, risulta impossibile.
Per comprendere sino in fondo il fenomeno, tuttavia, neppure queste
considerazioni sono sufficienti. Il sistema carcerario non è e non può essere – come si vorrebbe – un sistema autonomo e autosufficiente che vive di vita propria accanto a quello esterno, come due parallele che non si incontrano mai.
Il sistema carcerario è parte integrante del sistema sociale ed è plasmato in base ai valori diffusi nella società esterna al carcere. Esso è costituito e si alimenta anche da una cultura, diffusa nella società, che misconoscendo i valori iscritti
nella Costituzione, considera la struttura carceraria semplicemente come il luogo dove rinchiudere quanti pensiamo possano nuocerci o anche solo darci fastidio, indipendentemente dal fatto che abbiano commesso un reato e siano stati giudicati
colpevoli. Ciò perché la maggior parte dell’opinione pubblica è interessata soltanto a “difendersi” dai soggetti che ritiene pericolosi, o anche soltanto dal sospetto che possano esserlo.
Una cultura che ignora che tutte le persone – e non soltanto i cittadini – possono essere private della libertà solo nel rispetto di quanto stabilito dalla legge, dopo un giusto processo o in presenza di misure cautelari adottate secondo quanto previsto dalla stessa legge.
Il carcere, in definitiva, viene visto non come il luogo di espiazione della pena, bensì come luogo dove rinchiudere quanti, con giudizio sommario, riteniamo pericolosi per la nostra tranquillità. Spesso sulla base di giudizi che non si basano
sulla conoscenza reale, ma su di una percezione del fenomeno alimentata dai mezzi di informazione e da false notizie. Percezione alimentata da stereotipi che individuano nell’appartenenza a determinate categorie la pericolosità
sociale, i rom, i tossicodipendenti, i clandestini (frequentemente indicati anche semplicisticamente come “stranieri”).
I giornalisti più attenti cercano di attenersi al politicamente corretto, ma a volte sono traditi dai commenti dei lettori, che pure pubblicano, – mentre non dovrebbero
farlo – nei quali l’espressione più contenuta nei confronti del “sospettato” – quando non del mostro sbattuto in prima pagina – è spesso la seguente: “dovrebbero rinchiuderlo in cella e buttare la chiave in mare”.
Questa cultura, non corrisponde neppure alla “vera” percezione di insicurezza rilevata dalle fonti ufficiali, che pure è presente, ma non con tali proporzioni: la percentuale di cittadini che si sentivano di vivere in una località giudicata sicura, nel 2023, (Eurispes) era del 61,5%, peraltro in sensibile crescita rispetto a quattro
anni prima, quando solo il 47,5% riteneva di vivere in una località sicura.
Parafrasando un’affermazione dell’indimenticabile Franco Oliverio («Gli americani hanno inventato il metadone non per salvare i tossicodipendenti, ma per consentire alla società, tenendoli a bada, di liberarsi della loro presenza»), si può affermare che il carcere viene percepito principalmente come luogo dove rinchiudere gli elementi pericolosi a protezione della tranquillità degli onesti
cittadini. Definizione che non corrisponde, evidentemente, alla sua funzione secondo i principi costituzionali. Una cultura che, a volte persino in buona fede, alimenta pericolosamente filoni di pensiero che non corrispondono alla nostra civiltà giuridica.
Mi sia consentito un esempio, che per qualche verso mi tocca personalmente:
qualche settimana fa la stampa ha dato risalto alle proteste dei familiari per l’annunciata scarcerazione di una delle persone condannate per l’omicidio di Marco Biagi, non pochi si sono uniti al coro di quanti avrebbero voluto scongiurare tale evento come se lo Stato, scarcerando una persona al compimento della pena,
offendesse le persone offese dal delitto. E non è la prima volta che vere e proprie campagne di informazione vorrebbero impedire la scarcerazione o la concessione di benefici che qualche detenuto ha maturato con riferimento al reato per il quale sono stati condannati. Alimentando, così, una concezione estranea ai nostri valori.
Perché mai non dovrebbe essere restituita la libertà a chi ha scontato la sua pena nel rispetto di quanto stabilito dalle leggi?
L’espiazione della pena non è vendetta. È, piuttosto, la sanzione inflitta da uno Stato che, nel momento stesso in cui la infligge, si impegna a rispettare la dignità della persona, i suoi diritti fondamentali, e ad avviare un percorso di rieducazione, nella prospettiva di un positivo reinserimento nella società. Ciò, ahinoi, non avviene. Spesso è lo stesso Stato, attraverso le sue articolazioni, a violare la sua promessa, il suo dovere.
Per fortuna, i nostri padri costituenti, ben consapevoli del fatto che le formule giuridiche non garantiscono affatto che i diritti enunciati siano anche rispettati, hanno affidato alla Repubblica, alle sue istituzioni, a noi tutti, il compito di rimuovere gli ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Se quindi, per un verso, dobbiamo constatare, con sofferenza, il mancato rispetto dei diritti, per altro verso, dobbiamo prendere atto che gli ostacoli non sono insormontabili, e che la Repubblica, così come ha progredito in altri campi, può progredire anche nel riconoscimento dei diritti delle persone detenute: ciò fa parte della speranza della collettività.
La società riflette, in un certo senso, la condizione delle persone private della libertà che, da una parte, soffrono una deprivazione più pesante di quella insita nella pena da scontare e, dall’altra, intravedono proprio al di là delle sbarre la possibilità di reincorporarsi nella società: la speranza dell’individuo.
All’interno del carcere, esattamente come avviene al di fuori, le storie vengono spesso raccontate come storie collettive – certamente presentano aspetti comuni – ma, in realtà, sono storie individuali, diverse l’una dall’altra. Ho ancora bisogno di ricordare Franco Oliverio: era disposto a fare carte false inimicandosi i benpensanti e i procuratori della Repubblica del tempo – pur di impedire che i giovani varcassero i cancelli del carcere, perché sapeva che là dentro, piuttosto che redimersi, avrebbero potuto facilmente imboccare una strada sbagliata. Dentro: c’è chi persiste, chi resiste, chi non ce la fa, chi si adatta, chi trova lo spazio per realizzarsi nonostante ogni difficoltà, chi un giorno varcherà il cancello d’uscita respirando a pieni polmoni la primavera e la libertà e chi, invece, uscirà a capo chino, con addosso il presentimento che presto tornerà a varcare quel cancello.
E c’è anche chi, in un angolo della cella, riuscirà a trovare un chiodo a cui appendere la propria anima, per costringere i suoi carcerieri ad aprirgli la cella: tutte strade differenti.
Il detenuto esiste solo come figura astratta. Nel concreto, esistono persone detenute, ciascuna con la propria particolarità, le proprie aspirazioni, i propri difetti, il proprio dolore e la propria speranza.
Il nodo è quello di comprendere quale sia la distanza che separa il carcere, con tutte le sue peculiarità, dal suo esterno, dallo spazio nel quale convivono le persone “libere”, dal luogo nel quale conviviamo.
La risposta è che non può esserci distanza. Il carcere non è altro da noi, è parte integrante della nostra convivenza. Noi stessi, tutti, siamo potenziali detenuti; nessuno escluso, proprio nessuno. E i detenuti, a loro volta, sono persone destinate a ritornare libere e a ritornare a passeggiare lungo le stesse strade da noi percorse.
Per altro verso, siamo noi a condizionare la qualità della vita, la sofferenza o la speranza anche di chi è privato dalla libertà, dando sfogo alle nostre paure, a volte alla nostra sete di vendetta: siamo noi a determinare le precondizioni che sostengono le scelte del legislatore o del potere esecutivo che governa il sistema.
Siamo noi, dall’esterno, che pretendiamo di decidere anche gli stati d’animo, cioè la sofferenza e la speranza di altre persone. Avviene quando manteniamo in vita leggi che consentono l’ergastolo, ad esempio, soffochiamo la speranza. O quando, dalle gradinate del Colosseo, con il pollice verso, invochiamo l’inasprimento delle
pene, quasi sempre inutile. O quando plaudiamo alla violazione delle leggi che dovrebbero garantire accettabili condizioni di vita e rispetto per la dignità delle persone carcerate. In tal modo, infliggiamo loro una pena aggiuntiva.
Non è facile, evidentemente, intendere quale sia il legame tra la nostra condizione di provvisoriamente liberi e quelle di quanti dovrebbero essere provvisoriamente detenuti.
Ricordo che, da ragazzino, al buon cristiano venivano raccomandate alcune opere di misericordia, tra cui quelle di alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati. Mi sembravano, per come formulate, raccomandazioni di seconda categoria, nel senso che le azioni erano indirizzate a gruppi di persone che – salvo che non fossimo legati ad esse da altro rapporto – potevano continuare
a restarci estranee, potevamo persino a poter continuare a nutriture diffidenza nei loro confronti, soprattutto se migranti o condannati per qualche colpa infamante.
Solo che, leggendo con più attenzione qualche passaggio del Vangelo, se Matteo non ci ha ingannati, Gesù, nel giorno del giudizio, spiegherà ai destinati al supplizio eterno che sono condannati perché quando «ero straniero non mi avete accolto… ero in carcere e non mi avete visitato».
Gesù afferma di essere stato carcerato e ribadisce che «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Trad. Cei 2008). C’è poco da interpretare: quando tanti buoni cristiani, mentre snocciolano il
rosario, gridano ai quattro venti che certi carcerati bisognerebbe lasciarli marcire in carcere, chiudere la cella e buttare la chiave in mare, invocano un trattamento del genere proprio nei confronti di Gesù.
Insomma, si capisce che non è questione di elargizione di aiuto, bensì di immedesimazione, di comprendere che non esiste una vera linea di demarcazione tra il mondo della prigione e quello esterno.
Sia ben chiaro, non si tratta di un comandamento – quasi contro natura – riservato ai credenti. Si tratta, proprio al contrario, di un comandamento universale, pieno di umanità. Un comandamento sancito dai principi generali del diritto e presente in tutte le Costituzioni democratiche, secondo il quale la pena può consistere solo in una limitazione della libertà, essere finalizzata alla rieducazione del condannato, ed escludere ogni trattamento contrario al senso di umanità.
Sulle condizioni in cui trova la maggior parte dei detenuti in Italia non c’è da spendere neppure una parola: già lo dicono i numeri, già lo leggiamo nella cronaca di ogni giorno.
Personalmente non riesco a scacciare dalla mente i versi che cantavamo, alla fine degli anni ‘60, quando – nell’accogliere il messaggio del Concilio Vaticano II – coltivavamo la speranza di cambiare il mondo. Mi torna in mente, senza volerne proporre un’interpretazione, senza commentarli, senza enfatizzarli, senza voler assolvere o giustificare nessuno. Semplicemente mi ritornano in mente.
Li aveva scritti, nel 1966, un giovane cantautore americano, Phil Ochs, che 10 anni più tardi si sarebbe suicidato. Quei versi, quella canzone, l’aveva portata al successo Joan Baez.
Mostrami la prigione, mostrami il carcere,
mostrami il detenuto la cui vita è andata male,
ed io ti mostrerò, ragazzo mio, mille ragioni
per cui è solo un caso se al posto suo non ci siamo noi.
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*Gianni Loy, garante dei diritti dei detenuti della Città metropolitana di Cagliari
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