… il Papa dice “questa non è guerra, ieri sono stati bombardati i bambini, questa è crudeltà, voglio dirlo perché tocca il cuore”

logo-ok-chiesa-ranieroAi firmatari e interlocutori della Lettera ai nostri contemporanei Ebrei

A 30 MIGLIA LA SALVEZZA
Roma, 28 dicembre 2024.
Cari Amici,
facendo seguito alla corrispondenza intercorsa dopo la nostra lettera del 27 novembre scorso “ai nostri contemporanei del popolo ebraico della diaspora”, vi scriviamo spinti dall’ulteriore corso degli eventi. Ci sembra che essi ci stiano ponendo una questione di massima urgenza: ci sono da salvare i rapporti di fiducia e di amore storicamente ricostruiti tra le Genti di tutto il mondo e il popolo ebraico di Israele e della Diaspora, contro le ricadute devastanti che stanno avendo sul sentimento comune le attuali condotte dello Stato di Israele, seguite al criminale attacco di Hamas del 7 ottobre a Gaza.
Non può continuare una guerra così, perfino il Papa dice “questa non è guerra, ieri sono stati bombardati i bambini, questa è crudeltà, voglio dirlo perché tocca il cuore”. È proprio vero, perfino la guerra si offende, abbiamo detto altra volta, se chiamiamo “guerra” ciò che oggi essa è diventata su vari fronti di lotta. E la reazione del governo di Israele è stata durissima, si è detto “deluso” del Papa, ha legittimato la strage perché nel “contesto della lotta di Israele contro il terrorismo jihadista”, ha riconosciuto la crudeltà, ma degli altri non della sua. E Francesco, che di amore per gli Ebrei ne ha più di tutta la Chiesa, ha ripetuto all’Angelus del 22 dicembre: “Con dolore penso a Gaza, a tanta crudeltà, ai bambini mitragliati, ai bombardamenti di scuole e ospedali…”, E, ancora una volta, ha ricordato i “bambini mitragliati” nell’omelia della Messa dii Natale dopo l’apertura della Porta Santa, mentre a Gaza è stato distrutto l’ultimo ospedale rimasto.
A sua volta il ministro della Difesa Israel Katz, commentando il bombardamento israeliano sullo Yemen, in risposta ai razzi Qassam degli Houti, aveva detto che “Chiunque alzerà la mano su Israele se la vedrà tagliare, chiunque colpirà sarà colpito sette volte più forte”, mettendo insieme l’efferata punizione della Sharia (Corano, 5, 38) e la vendetta senza fine del Levitico (Lev. 26, 18-28); né Netanyahu era stato da meno, dicendo: “Stanno imparando e impareranno sulla propria pelle che chi attacca Israele paga un prezzo molto alto”.
Il Primo Ministro israeliano aveva anche rivendicato a suo merito la “reazione a catena” che ha portato alla caduta del regime siriano, confermando, nonostante le proteste dei parenti degli ostaggi, che non farà cessare il fuoco a Gaza: “Non li lasceremo al potere a Gaza, a 30 miglia da Tel Aviv. Non accadrà”. Lo diceva dei terroristi, cioè dei palestinesi, e intanto già a 45.227 di loro uccisi a Gaza e a 2 milioni sloggiati e in fuga sono stati tolti il potere e la vita. Trova così conferma la strategia della “rottura netta” concordata fin dal 1996 da Netanyahu con i neoconservatori americani. Lo ha raccontato Jeffrey D. Sachs, un funzionario delle Nazioni Unite, stretto collaboratore di Guterres: il generale Wesley Clark, ex candidato alla Casa Bianca, si sentì dire in un incontro al Pentagono dopo l’11 settembre: “attaccheremo e distruggeremo i governi di sette Paesi in cinque anni: inizieremo dall’Iraq, e poi ci sposteremo in Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran”. L’Iraq sarebbe stato il primo, poi la Siria e il resto; un piano, benché più lentamente, in via di attuazione.
Ora il pericolo mortale per lo Stato di Israele, ciò che più temiamo per esso, è di pensare che la propria sicurezza consista nel farsi un deserto intorno, nel vivere in mezzo a un mondo nemico contando solo sulla propria forza militare, consiste nel non considerare che in tal caso, anche se popolerà di soli Ebrei la ridente “Striscia” di Gaza, ci sarà sempre a 30 miglia più in là qualcuno deciso a distruggerlo; mentre la salvezza ci sarà se a 30 miglia ci saranno popoli che si saranno fatti diventare amici. Non sarebbe contro la tradizione: si può ricordare il monito ricevuto da Mosè sul Sinai: “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico. Non far morire l’innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole. Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto” (Esodo, 23, 4-9). L’abbaglio è invece quello di Netanyahu che parlando all’ONU aveva presentato come il realizzarsi della “benedizione” che Mosè “mise davanti al popolo di Israele migliaia di anni fa, mentre stavamo per entrare nella Terra Promessa”, una mappa del mondo in cui Israele, domati gli Stati arabi, estenderà il suo potere tra l’Europa e l’Asia, contro la “maledizione” di un mondo rimasto cattivo “dall’Oceano Indiano al Mediterraneo”. Un delirio.
Ma questo pericolo mortale non sta minacciando solo lo Stato di Israele, che il sionismo delle origini pensava sarebbe stato tutt’altra cosa. Sta minacciando anche il popolo ebraico della Diaspora. Lo dicono e lo soffrono anche Ebrei di Israele, che leggono in altro modo la Torah e i Profeti, o non li leggono affatto, ma non vorrebbero una “umanità violata”; lo dicono Ebrei che amano i Paesi in cui vivono, in attesa di un’altra Geulah; lo diceva Primo Levi, che pensava a un’altra irradiazione dell’ebraismo a partire dall’Esilio; lo dice Anna Foa, che denuncia “il suicidio di Israele”. E da ultimo lo ha scritto Gad Lerner che denuncia un integrismo identitario per il quale non si potrebbe essere veramente ebrei fuori di Israele, fino alla pretesa di una “eliminazione” della Diaspora e della sua attrazione nello Stato di Israele. Questo vorrebbe dire però l’azzardo di una crescente estensione territoriale dello Stato. Dunque davvero, come abbiamo scritto, “Israele contro Israele”?
Non parliamo del “dialogo ebraico-cristiano”. Ambedue le parti asseriscono di volerlo continuare anche in questo momento di “difficoltà”, ma se questa difficoltà diventasse essa stessa l’oggetto del dialogo, il contrasto sarebbe inevitabile, ragione per cui da parte cattolica se ne tace, per evitarlo, mentre dall’altra parte essa viene rimproverata di mancata condivisione ed “empatia”; ma in tal modo il dialogo, come è accaduto a Camaldoli, acquista in virtù ma perde in verità. Dopo secoli di dispute teologiche, a dividere cristiani ed Ebrei sono più le vittime di Gaza che il dogma della Trinità e la cristologia.
Ma perché prendersela tanto? Uno dei nostri critici, un professore di Torino, ci ha accusato di chiedere troppo agli Ebrei quando li invitiamo a modificare la politica del governo Netanyahu, «a tener conto delle terribili condizioni della popolazione soprattutto di Gaza, e a trovare sinceramente e concretamente una prospettiva di pace duratura nell’interesse di tutta la “famiglia umana” di cui, chissà perché – dice – un piccolo Stato è chiamato a farsi specialmente carico». Il perché che ci viene chiesto sta nel fatto che all’ebraismo e alla fede di Israele, come sempre ci hanno detto, è legata una prospettiva che in termini laici si potrebbe dire di unità e di pace per tutti i popoli, e che nella memoria dell’Occidente c’è una parola di Gesù alla Samaritana, secondo la quale “la salvezza viene dai Giudei”; ed è un grande dolore vedere come oggi questa promessa e questa attesa siano in sede politica così duramente contraddette, anche se a causa dell’aggressione subita dagli Ebrei il 7 ottobre.
Anche per questo crediamo che quanto sta accadendo a Gaza, interessi non solo Israeliani e Palestinesi, ma il mondo tutto, ed è questa la ragione per cui abbiamo auspicato che i due popoli siano riconosciuti e tutelati, in analogia con la Convenzione dell’Unesco, quali “patrimonio dell’umanità”. Sarà pure un “sogno irenico”, che “nella costituzione di un ‘villaggio globale’ regni l’amore reciproco”, come ci viene contestato dal Consiglio della Comunità Ebraica di Bologna, ma questo illusorio sogno “irenico” non è che la traduzione in greco della profezia di Isaia. È chiaro che per realizzarsi ci vuole il coraggio di un’altra concezione dello Stato, in Israele e anche da noi, ma questo è appunto il compito del futuro.
Con i più cordiali saluti,

Lo Scriba
per conto dei mittenti della Lettera ai nostri contemporanei Ebrei[1]
(si ringrazia il sito “chiesadituttichiesadeipoveri.it” per aver prestato ai mittenti il suo indirizzo email, per poter raggiungere più destinatari insieme. Pertanto per eventuali risposte e commenti si può inviare allo stesso indirizzo).

[1] Ci è stato giustamente rimproverato di aver scritto agli “Ebrei della diaspora”, come se avessimo voluto dividerli dagli Ebrei di Israele. Perciò ora ci rivolgiamo idealmente a tutti, onde evitare questo errore.

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