Il futuro dell’Università sarda, University of Sardinia

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  1. admin scrive:

    LA NUOVA SARDEGNA 8 OTTOBRE 2013
    Atenei e “dimensionamenti”, il rischio della serie B

    di ANTONIETTA MAZZETTE

    La ministra Carrozza nei confronti dell’Università si è allineata ai predecessori con interventi che rischiano di penalizzare le realtà meridionali

    La ministra Carrozza nel suo decreto prevede il “dimensionamento sostenibile del sistema universitario” attraverso la “realizzazione di fusioni tra due o più università”. Questo è l’ultimo in ordine di tempo dei radicali cambiamenti che hanno attraversato il sistema universitario italiano e che hanno raggiunto l’apoteosi nel 2010 con la legge Gelmini, con la scomparsa delle facoltà e la nascita di dipartimenti che si occupano di didattica e ricerca sulla falsariga di esperienze estere. Dal 1999 in poi, ossia, dall’ideazione del 3+2 (laurea triennale + laurea magistrale) e dall’inserimento dei crediti (i CFU) come unità di misura della conoscenza acquisita, le università si sono dovute adattare ai parametri ragionieristici imposti dall’alto, con buona pace dell’autonomia. Nel marzo 2013 il ministro Profumo ha emanato un decreto sui requisiti dei corsi di laurea, contenente i parametri da raggiungere entro il 2016. Ciò è stato considerato un utile strumento di programmazione pluriennale in un quadro normativo certo. Ebbene, appena sei mesi dopo la ministra Carrozza emana il suo provvedimento (senza alcuna discussione interna, esattamente come i ministri che l’hanno preceduta) introducendo modifiche ulteriori, alcune particolarmente insidiose, quali la trasformazione di corsi di laurea in corsi ITS affini (Istruzione Tecnica Superiore). Il tutto da approntare entro il 15 novembre prossimo. È superfluo aggiungere che tutte queste “rivoluzioni” firmate dal ministro di turno, sono state fatte a costo zero, anzi, con investimenti sempre più esigui. Inoltre, i cosiddetti parametri di efficienza e merito hanno come fine (ormai manifesto) quello di classificare il sistema universitario italiano in università di serie A, sulle quali investire la maggior parte delle risorse, e università di serie B, da penalizzare o eliminare (accorpare). Si badi bene, le seconde sarebbero “naturalmente” situate in regioni meridionali che sono anche le più deboli economicamente. È un processo noto, che ha riguardato molti nostri paesi quando l’approccio ragionieristico ha riguardato i primi livelli di istruzione. Non sfugga il fatto che uno degli indicatori della valutazione riguarda la percentuale di occupati dei propri laureati. Va però detto che in queste regioni i problemi legati all’istruzione, a partire da quella di base, sono gravissimi e vanno affrontati in modo diverso rispetto al passato perché le politiche sulla dispersione e gli abbandoni fin qui adottate sono state poco efficaci anche se costose. Tutto da buttar via? No. Ad esempio, sono stati introdotti parametri di valutazione della didattica e della ricerca che, però, per essere realmente utili dovrebbero essere accompagnati da premialità nel caso di valutazioni positive e, di contro, da sanzioni anche di tipo retributivo. Qual è il filo rosso che ha legato tutti questi interventi sul sistema universitario dal 1999 in poi? Quello dichiarato risponde a principi di efficienza e merito. Dichiarazione di per sé condivisibile, se non fosse che inseguendo tecnicismi e indicatori di efficienza, per un verso, il peso della burocrazia è diventato insostenibile a discapito proprio dell’efficienza, per altro verso, si sono perse le ragioni più profonde del ruolo dell’università. In primis, la formazione di coscienze critiche e di competenze. Che più modestamente equivale a riaffermare ciò che ha detto Papa Francesco a Cagliari: «L’Università come luogo del discernimento…come luogo di sapienza». Aggiungerei, l’Università come luogo di formazione civica e di giustizia sociale perché la conoscenza è il fondamento della democrazia. Che cosa può fare un’università piccola ma storica come quella di Sassari rispetto agli accanimenti chiamati “dimensionamento sostenibile”? Molto, ma solo a condizione che le comunità e le istituzioni democratiche del nord-Sardegna siano pienamente coinvolte perché interessate a che questo ateneo viva.

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