Autonomia differenziata
Autonomia differenziata, sui “Lep” profili di incostituzionalità con effetti negativi anche su famiglie e imprese del Nord
Franco Gallo
15 Luglio 2024
Pubblichiamo l’intervento del Presidente emerito della Corte costituzionale, Franco Gallo, alla cerimonia di consegna del premio Lef per tesi di laurea tenutasi presso il Cnel il 9 luglio 2024. Il contributo del professor Gallo si è incentrato intorno a una disamina degli effetti attesi dalla nuova normativa sulla cosiddetta “Autonomia differenziata”.
La prima considerazione che l’emanazione della legge Calderoli sul regionalismo differenziato mi ha suggerito è d’ordine generale, direi storico. È che l’uscita dalla crisi pandemica poteva costituire una spinta verso la ripresa del percorso attuativo del federalismo fiscale segnato dal Titolo V della Costituzione e, di conseguenza, verso anche il rilancio dell’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali. L’attuazione del PNRR sarebbe stata la migliore occasione per rilanciare le autonomie e riorganizzare la materia dei rapporti Stato-Regioni-enti locali. L’enfasi che il Piano ha posto sulla necessità di una riforma della Pubblica Amministrazione come pre-requisito di una sua corretta attuazione non può prescindere infatti – almeno in teoria – dall’assetto istituzionale e finanziario che si vuole dare al sistema di relazioni intra e intergovernative.
È accaduto, invece, che sono state differite di due anni sia la rideterminazione dell’addizionale IRPEF a favore delle Regioni a statuto ordinario e della compartecipazione all’IVA, sia la soppressione di parte dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni, sia – soprattutto – l’istituzione del fondo perequativo di cui all’art. 119 Cost.. Il PNRR si è limitato a prendere atto di ciò affermando, un po’ ambiguamente, che il completamento del federalismo fiscale «è in corso di approfondimento da parte del tavolo tecnico istituito presso il MEF» e che il processo sarà definito entro il primo quadrimestre del 2026.
Tutto ciò mi fa pensare che se si fosse voluto dare attuazione, seppur nei larghi tempi indicati dal PNRR, al disegno di decentramento finanziario prefigurato dagli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, i temi su cui le forze politiche avrebbero dovuto confrontarsi dovevano essere, per le grandi linee, gli stessi a suo tempo affrontati e definiti dalla legge delega n. 42 del 2009 e dai decreti delegati di essa attuativi; legge e decreti – si badi bene – che sono tutt’ora vigenti, la cui applicazione è rimasta però finora sospesa e integrata da iniziative legislative di segno contrario, l’ultima appunto quella relativa al regionalismo differenziato. Questi temi sono in particolare quelli, su cui gli addetti ai lavori si soffermano da tempo immemorabile, del rafforzamento dell’autonomia impositiva regionale e locale, della perequazione interregionale finanziaria che a noi qui più interessa, dello sviluppo del ruolo di coordinamento della finanza territoriale da parte dello Stato e delle Regioni nei loro rispettivi ambiti, della fiscalizzazione dei trasferimenti statali, del superamento per tutti gli enti territoriali della spesa storica e, naturalmente, dell’introduzione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni e del finanziamento delle funzioni in relazione ai fabbisogni e ai costi standard.
Dobbiamo prendere atto che l’attuale Governo ha invece preferito proporre solo parziali iniziative legislative riguardanti il solo regionalismo differenziato, rinviandone l’attuazione nel tempo e lasciando, comunque, in sospeso il progetto federalista disegnato dalla legge n. 42 e dai suoi decreti di attuazione nel solco della riforma costituzionale del 2012.
Da qui il varo della legge n. 86 del 26 giugno 2024 di cui oggi discutiamo, che ha avuto come primi effetti sia quello di confermare il rinvio a tempi indeterminati dell’attuazione del progetto perequativo, sia quello di smantellare progressivamente l’autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali sostituendola con la ripresa dei trasferimenti temporanei ed estranei a una logica perequativa di lungo termine. Sta di fatto che, nonostante l’esistenza della legge n. 42 e dei suoi decreti legislativi di attuazione – soprattutto il d.lgs. 68 del 2011 – e nonostante il pressante invito della Corte costituzionale a dare attuazione a tale legge (v. la sentenza n. 293 del 2012), il quadro offerto dall’art. 119 quanto alla perequazione non si è finora assestato, pur essendo esso sufficientemente espresso dal principio di base sviluppato dall’art. 9 della stessa legge n. 42, secondo cui deve esserci una «corrispondenza fra scelte di tipologia di finanziamento e di perequazione e tipo di funzioni da finanziare, essenziali e non».
Si deve perciò prendere atto che ora, secondo la legge n. 86, i LEP dovranno essere definiti, ma fuori dal complessivo disegno perequativo indicato dall’art. 119 e sviluppato dalla legge n. 42. Essa legge ha, infatti, il difetto di perseguire l’obiettivo di individuare i Livelli Essenziali delle Prestazioni, intendendoli però non come strumenti di prestazioni sostanziali perequative da garantire con carattere di generalità, ma come mere quote di partecipazione al gettito di tributi erariali maturato nel territorio nazionale.
Mi spiego meglio. La semplice lettura della legge Calderoli fa emergere subito un problema di sua coerenza interna. Ci si accorge cioè che essa dimentica che, per garantire l’accantonamento nel fondo perequativo di cui all’art. 119 delle risorse necessarie ad assicurare alle istituzioni dei “territori con minore capacità fiscale per abitante” i mezzi idonei a “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”, occorre qualcosa di più della determinazione dei costi e dei fabbisogni standard in un limitato numero di settori. La nuova legge dimentica cioè che l’art. 119 vuole in via prioritaria che la perequazione sia attuata ai sensi di tale articolo con riferimento a tutte le Regioni e che l’autonomia di bilancio di esse e degli enti locali deve essere garantita pienamente all’interno degli equilibri più complessivi del bilancio statale.
In questa ottica, i LEP dovrebbero essere perciò costruiti in stretta correlazione con la tutela dei diritti civili e sociali e non concepiti, come fa la nuova legge, solo come obiettivi a lungo termine delle politiche pubbliche regionali stabiliti dallo Stato. Essi non possono consistere, cioè, solo in misure di tipo organizzatorio, in target di offerta dei servizi regionali realizzabili in un futuro non determinato. E nemmeno possono essere concepiti solo in dipendenza delle relazioni finanziarie tra lo Stato e le Regioni. La funzione costituzionale cui devono rispondere è ben altra: è quella di garantire subito ex artt. 5, 2 e 3 Cost. – e cioè in base ai principi di autonomia, solidarietà e uguaglianza – una tutela uniforme e non parziale dei diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale.
Si coglie bene questo passaggio se si volge lo sguardo soprattutto agli effetti economici e finanziari della legge Calderoli, i cui artt. 1 e 4 richiamano sì l’art. 119, ma non istituiscono – e comunque non presuppongono l’istituzione del – fondo perequativo da esso previsto e, soprattutto, non indicano il modo in cui le Regioni dovrebbero contribuire. Da questa degradazione dei LEP a meri indici tecnico-amministrativi è conseguita la loro spoliticizzazione, non coerente con l’essenziale funzione garantista e perequativa ad essi assegnata dallo stesso art. 119 Cost..
Dovendo dare attuazione agli artt. 116, terzo comma e 117, secondo comma, lett. m), sarebbe stato perciò necessario che, prima della – o quantomeno contestualmente alla – attribuzione di nuovi specifici compiti e funzioni ad alcune Regioni con le corrispondenti risorse finanziarie, si fossero determinati tutti i LEP attinenti all’esercizio di diritti civili e sociali e, soprattutto, si fosse definito il loro finanziamento secondo i principi e le procedure dell’art. 119. È del resto evidente infatti che, essendo le risorse disponibili determinate dai vincoli di bilancio imposti dall’art. 81 Cost., l’individuazione dei LEP in tale senso non può non richiedere anche una valutazione complessiva di quelli che il Paese è effettivamente in grado di finanziare; valutazione che non può essere fatta materia per materia. Date le condizioni della finanza pubblica, così facendo ci si ritroverebbe, alla fine, nella condizione di non poter finanziare i LEP necessari ad assicurare l’esercizio di diritti civili e sociali nelle materie lasciate per ultime.
Indipendentemente da quanto finora detto in via generale, è comunque condivisibile la critica che sul piano istituzionale è stata mossa allo stesso meccanismo di individuazione dei LEP quale risulta dalla nuova legge. Giustamente si è rilevato che i LEP dovrebbero essere individuati e valutati in modo integrale dal Parlamento e non rimessi esclusivamente a una sede tecnica di esso sotto il controllo del ministro degli affari regionali, come invece previsto dai commi 791-801 dell’art. 1 della legge di bilancio per il 2023 e dalla legge n. 86. Hanno ragione al riguardo coloro che sostengono che solo il Parlamento ha il potere di fare le scelte fondamentali sull’allocazione delle risorse pubbliche e solo esso è in grado di mediare tra le esigenze dei diversi territori e dei diversi contrastanti interessi. Può essere, infatti, interesse delle comunità più ricche e più autosufficienti del Paese minimizzare la soglia costituzionalmente necessaria dei LEP, in modo da non impegnare risorse pubbliche nei territori dove essi non possono essere raggiunti o, in alternativa, differire più lungamente nei tempi gli interventi di perequazione e coesione nazionale destinati a drenare risorse a favore delle altre Regioni (v. art. 4, commi 1 e 9 della legge). Essendo l’interesse delle comunità meno ricche l’opposto, è perciò evidente che le condizioni per un confronto politico e una mediazione su queste scelte si possono trovare solo in Parlamento.
Non si dica, per superare questa osservazione, che la legge Calderoli prevede pur sempre che le intese con le Regioni passano attraverso il Parlamento con lo strumento del decreto legislativo di approvazione. Attraverso questa via il Parlamento non riconquista il terreno perduto, perché il quantum da devolvere con l’accordo Stato-Regioni non lo vede protagonista. Le nuove norme concentrano infatti il negoziato esclusivamente sui due esecutivi, centrale e locale, lasciando al Parlamento un intervento puramente formale con l’approvazione dell’intesa una volta conclusa. Per esso si tratterà, infatti, o di prendere o di lasciare senza la possibilità di emendare l’atto negoziato. Nonostante l’inserimento di questa disposizione, il vero assente continua ad essere perciò il Parlamento, che si vede “scippata” di mano non solo la decisione sul tasso di socialità, ma anche la scelta di continuare a essere uno Stato unitario o di farsi disgregare dalle forze centrifughe. A che serve un Parlamento che su questi temi deve dire solo sì?
Tutto ciò a non tener conto che, nelle attuali condizioni di bilancio, l’attuazione del federalismo differenziato con lo strumento dei LEP dovrebbe, comunque, avvenire secondo la legge a “spesa storica” e, perciò, fuori dall’effettivo contesto generale dell’economia pubblica. Si avrebbe, così, l’ulteriore, inaccettabile effetto negativo di ridurre tutta l’operazione alla sistematizzazione dell’esistente, assumendo come LEP i servizi che sono già previsti dalla normativa o sono offerti comunque nel territorio. Con l’invarianza di gettito si “cristallizzerebbero”, infatti, quelle disuguaglianze territoriali nel godimento dei diritti fondamentali, che l’art. 117, lett. m) Cost. e l’art. 1, 791° comma della Legge di bilancio per il 2024 mirano invece a superare.
La caratteristica più evidente della legge n. 86 è che la soluzione dei problemi di cui ho detto è fatta “balenare”, ma è rinviata a scelte politiche a venire. Ad esempio, in essa si parla vagamente di “compartecipazione” a uno o più tributi “erariali” come possibile fonte di finanziamento principale delle nuove spese devolute, ma non si tiene in alcun conto degli effetti distorsivi che derivano dall’attribuire competenze di spesa ad un ente territoriale, senza nello stesso tempo introdurre i necessari meccanismi di responsabilizzazione su queste spese, in termini di autonomia impositiva, di taglio “effettivo” di altre spese e di utilizzazione di nuove entrate. Il legislatore si è limitato, infatti, a disporre genericamente che, qualora dalla determinazione dei LEP derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, si potrà procedere al finanziamento delle funzioni (ma) solo “successivamente” all’entrata in vigore dei provvedimenti che stanzieranno le necessarie risorse con riferimento «all’intero territorio nazionale»; provvedimenti che devono essere coerenti con gli obiettivi programmati di finanza pubblica e di equilibrio di bilancio e – lo sottolineo – per espressa previsione degli artt. 4.1 e 8.1, dovranno però trovare un effettivo finanziamento solo successivamente e progressivamente, e cioè in un arco temporale indeterminato o, comunque, difficilmente determinabile.
Queste disposizioni significano che l’obiettivo del legislatore di ultima istanza è quello di realizzare un giorno la volontà di attribuire ai LEP quella funzione perequativa che è necessaria a garantire, ex art. 119 Cost., un uguale livello di trattamento a tutte le Regioni. Tutto ciò vale però solo come affermazione di una promessa o, meglio, di un principio proiettato nel futuro.
Il che potrebbe avere delle conseguenze anche in termini di incostituzionalità. È stato, infatti, fatto notare che le norme richiamate potrebbero violare l’art. 117, comma 2, lett. m) Cost. perché il legislatore si è limitato a promettere i LEP, ma non ha indicato gli strumenti necessari a finanziarli. Il contrasto con la Costituzione sarebbe nel fatto che l’art. 117 eleva i LEP a diritti sociali meritevoli di essere soddisfatti ora e senza esitazioni, mentre la legge Calderoli li declassa, come si è visto, a diritti a esecuzione futura e incerta, trasformandoli da diritti soggettivi ad aspettative di mero fatto.
4. In conclusione, non si può non essere d’accordo con chi sostiene che il difetto di fondo della legge è quello di dettare una disciplina dei LEP provvisoria, senza che sia stato realmente predeterminato un quadro di riferimento generale che consenta, a fini perequativi, un adeguato bilanciamento tra le Regioni del Sud e quelle del Nord quanto alla destinazione sia delle risorse complessive della finanza della Repubblica; sia di quelle destinate alle singole Regioni; sia di quelle ricavabili dall’esercizio della loro autonomia tributaria; sia di quelle necessarie al finanziamento di tutti i LEP.
Tutto ciò – lo ripeto – è ipotizzato e presupposto dalla legge n. 86, ma è rinviato a future incerte iniziative.
Hanno perciò ragione coloro che ritengono che per realizzare effettivamente il regionalismo differenziato occorrerebbe, più che costruire discipline transitorie da completare in un futuro indeterminato, dare quella completa, pregiudiziale e sostanziale attuazione all’art. 119 Cost. nel senso di cui ho detto. Occorrerebbe, cioè, collocare subito il bilancio delle Regioni e degli enti locali all’interno del bilancio complessivo della Repubblica e prevedere che la loro autonomia di entrata e di spesa non solo realizzi l’equilibrio dei rispettivi bilanci e il superamento della spesa storica, ma concorra anche ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.
Il fatto è che la legge Calderoli, così come è stata approvata, non risolve i problemi connessi ai rapporti finanziari tra Stato e Regioni. Declassa, anzi, la funzione garantista dei LEP non tenendo conto che l’attuazione del regionalismo differenziato difficilmente può avere una sua giustificazione e una sua soddisfacente legittimazione costituzionale se non si scioglie anche il nodo della perequazione interregionale e dell’autonomia finanziaria delle Regioni. Hanno perciò ragione coloro che, in sintonia con i risultati del rapporto Panetta sulla stabilità finanziaria, sottolineano che l’attuazione dell’autonomia differenziata secondo le regole fissate dalla legge Calderoli, sganciata dall’applicazione della disposizione costituzionale dell’art. 119, potrà avere conseguenze negative indirette anche per le famiglie e le imprese del Nord ben superiori ai benefici di finanza pubblica ad esse derivanti dalle compartecipazioni dinamiche ai tributi.
L’impressione che si ha leggendo la legge Calderoli è insomma che, seguendo la strada da essa indicata, ci si allontani sempre più dal regionalismo cooperativo cui si è ispirato il titolo V della Costituzione e si vada, invece, verso un regionalismo competitivo avente una disciplina finanziaria incerta, tutta da riscrivere e soprattutto fomite di disuguaglianze.
Hanno ragione coloro che sostengono che, nonostante il richiamo inserito nel testo definitivo della legge Calderoli alla tutela dell’unità giuridica ed economica del Paese, il quadro dell’attuazione del federalismo regionale che si sta profilando va nella sostanza contro l’obiettivo costituzionale di un sistema ordinato e solidale di decentramento. Il che significa che sarà difficile far funzionare l’autonomia differenziata per alcune Regioni se, prima e parallelamente, non si attua il meccanismo di finanziamento e perequazione delle funzioni attribuite a tutte le Regioni. Aggrava la situazione la circostanza che nelle materie non LEP, differentemente da quelle LEP, il trasferimento delle risorse potrebbe, allo stato, avvenire immediatamente con l’entrata in vigore della legge n. 86, senza essere subordinato alla previa individuazione dei livelli essenziali. Il che significa che dovrebbero essere accantonate, ex art. 119, anche le risorse del fondo perequativo che devono servire per finanziare integralmente le funzioni attribuite ai territori con minore capacità fiscale fuori dal regime LEP. Ma se è così, viene spontaneo porsi l’ulteriore domanda su come sia possibile finanziare le prestazioni non LEP erogabili immediatamente se prima non si ha un quadro chiaro di quali vincoli derivano al bilancio dello Stato tanto dal finanziamento dei LEP, quanto dal finanziamento delle misure non LEP e di perequazione previste dall’art. 119. Non ci resta che attendere, al riguardo, qualche convincente risposta degli esperti governativi.
Questa è un ulteriore ragione che dovrebbe – dovrei dire, avrebbe dovuto – spingere il Governo ad individuare modalità di attuazione dell’art. 116 più conformi alla centralità del Parlamento che evitino la crescita di spinte separatiste e, comunque, il riprodursi di una sempre più forte dinamica competitiva.
Lascia un Commento