Addio a Felice Besostri

luttoimg_6022Il saluto a Felice Besostri
di Nathalie Besostri, la figlia.
Questo saluto a Felice Besostri, mio padre, non può che iniziare con il ringraziamento a tutti i presenti oggi, oltre a coloro che hanno avuto la possibilità e la volontà di stargli accanto in queste ultime e difficili settimane: siete tutti parte del tessuto che ha costituito i suoi giorni, ed è bello pensare che in ciascuno vi sia una traccia del contatto con lui, sicché invece di morire, si moltiplica nella pluralità di punti di vista ed esperienze.
Muore l’uomo, non l’idea, è la frase che la sua famiglia ha scelto per rappresentarlo da un punto di vista ideologico, ma anche affettivo. Si tratta infatti della rielaborazione di un verso della canzone “Povero Matteotti”, che mio padre cantava durante i tragitti in auto che superavano la mezz’ora di viaggio, quando ero bambina.
Il testo originale recita:
“E mentre che moriva morendo lui dicea: “Voi uccidete l’uomo ma non la sua idea.”
Anche la conclusione di questo testo sembra perfetta per parlare di mio papà, con le dovute differenze:
“E mentre che moriva,
con tutto il suo eroismo
gridava forte forte: “Evviva il Socialismo!”
Mio padre è stato un uomo di pensiero, con tutto il valore che questo ha nonostante il contemporaneo richiamo al fare. Che poi, quando faceva, faceva in grande.
Era trascinato da una passione impetuosa che al tempo stesso lo schiacciava: non poteva che fare come faceva, che essere come era.
Il suo sguardo perennemente rivolto lontano, alla democrazia, ai diritti, alla giustizia, mancava talvolta di riconoscere cose vicine: perfettamente orientato nelle idee e nello spazio geografico, si smarriva davanti a un frigorifero o un armadio aperti, giurando che la tale cosa proprio non fosse presente negli stessi.
Perdeva chiavi, portafogli, telefoni: tutto ciò che gli serviva per il qui ed ora, ma non è mai rimasto senza le coordinate che identificano i valori in cui credeva, fortissimamente.
Sebbene si lamentasse del suo isolamento, il suo auto collocarsi nella minoranza della minoranza della minoranza gli dava soddisfazione, rendendo la solitudine più eroica l’ impresa.

Queste settimane hanno mostrato con tutta evidenza che questa solitudine è solo parziale: moltissime sono le persone che ne condividono priorità e battaglie, che possono e devono proseguirne l’opera, di cui è stato rappresentante, non proprietario.
Mio padre era sempre in cerca di qualcosa e questo guidava la sua esistenza, portandolo ai quattro angoli del globo per le ragioni più disparate, tra cui diversi soggiorni linguistici, di cui l’ultimo due estati fa, in Lituania per imparare il russo (“sono lo studente più bravo”, mi aveva detto al telefono dopo qualche giorno di lezione, “ma non sono più quello di una volta”, aveva aggiunto).
La sua vocazione internazionale, lo aveva portato in prima linea nel supportare gli esuli sudamericani. Proprio ieri, tramite Roberto Biscardini, è arrivato il saluto di Fredy Cancino, che leggo.
SALUTO ALLA MEMORIA DI FELICE BESOSTRI
Dal Cile vorrei fare un saluto alla memoria del compagno Besostri. Per noi, esuli socialisti in Lombardia, la sua figura, la sua amicizia espressa subito dopo il golpe del dittatore Pinochet, fu uno dei momenti in cui ci siamo resi conto che non eravamo soli nella tragedia di aver perso la nostra democrazia, la nostra libertà e i sogni di costruire una strada diversa e originale verso un socialismo lontano dai modelli del chiamato “real socialismo” che allora imperversava nel mondo.
La solidarietà del popolo italiano fu Immensa e commovente.
In queste parole vorrei però sottolineare specialmente l’azione permanente del PSI nel sostenere, in tanti modi, la lotta dove, dall’altra parte del mondo, altri socialisti lottavano per la democrazia e per la propria e degna libertà. Noi, che andammo in esilio in Lombardia, avemmo la fortuna d’incontrare e stringere amici socialisti i cui nomi ci accompagnano ancora oggi, come quello di Felice Besostri.
Con Felice non ci univano solo gli ideali comuni, era anche un amico, l’interlocutore di tante conversazioni in cui abbiamo potuto apprezzare la sua grande intelligenza e cultura; e anche momenti in cui abbiamo condiviso una tavola e una serena allegria.
Di quegli episodi ricorderò sempre le vecchie canzoni anarchiche che cantava con voce emozionata: senz’altro c’era la vena libertaria e atavica che pulsa in ogni socialista.
Da lui e dal socialismo italiano ho portato in Cile esempi di coerenza umana e politica, idee e cultura che hanno forgiato il mio attuale essere socialista e che ho trasmesso nella mia azione politica e di partito.
In questo saluto e in questa profonda gratitudine alla sua figura e alla sua memoria, sono certo d’interpretare il sentimento di tanti cileni che sono stati accolti in Italia e a Milano. E concludo dicendo, sperando che da qualche parte lui mi senta: dormi bene caro compagno Besostri, hai fatto una buona vita. Fredy Cancino, Santiago, gennaio 2023
È vero, ha fatto una buona vita.

Una vita che gli ha permesso di soddisfare il desiderio più grande, quello di conoscere, sapere e capire profondamente il funzionamento di ciò che rientrava nel suo campo di interesse.
Era interessato al diritto e alla storia.
Era interessato al risotto; orgoglioso membro della Confraternita a questo dedicata e, come tale, dotato di una sgargiante mantella rossa con collare puntellato di spillette.
Mio padre è stato un uomo litigioso e sgarbato alle volte e, senza il bisogno di intenderla come una compensazione, disponibile e generoso, divertente e piacevole.
Il suo impegno politico lo ha tenuto spesso lontano da casa, ma ricordo un’infanzia fatta di una moltitudine di momenti insieme e una vita a sentirlo presente e pronto ad accorrere in mio aiuto:
“Lo chiedo a mio padre” è stata una costante della mia esistenza e non tanto in relazione a esigenze materiali, quanto piuttosto a contenuti di conoscenza, modalità per risolvere questo o quel problema.
“Mio papà sa tutto”: è una frase che di certo ho pronunciato più di una volta in vita mia.
Quello che ricevo, come preziosa eredità, è la necessità di assumersi le responsabilità, proprie certo, ma sempre considerando che l’orizzonte non è singolare, bensì comunitario. Talvolta, in famiglia veniva contestato su questo punto: “ti interessi di umanità e poi tratti male le persone in carne e ossa!”
Lui non ribatteva in modo deciso, piuttosto negava o borbottava che si trattava di due discorsi diversi.
Era molto insensibile all’ingiustizia percepita e non mancava di farlo presente con toni più che decisi.
Il fatto che tante persone abbiano saputo far fronte e in qualche modo accogliere i suoi tratti più burrascosi, fa pensare al fatto che quelle stesse persone abbiano reputato di maggiore considerazione altri aspetti della sua presenza.
La volontà di sapere, lo portava a conoscenze dettagliate che andavano a costituire le fondamenta delle sue argomentazioni, a sostegno o a demolizione di una tesi o di una scelta relativa all’ambito pubblico.
È importante specificarlo, perché mai da mio padre ho sentito giudizi relativi alla vita privata delle persone, e non si tratta tanto di affermare o meno che sia un merito, piuttosto di mostrare ancora quanto la sua prospettiva sulle cose riguardasse il generale molto più del particolare.
Convivevano in lui anarchia e rigore: impossibile costringerlo in un metodo, lavorava sulla base di exploit creativi, che allo stesso tempo si strutturavano a partire da un accuratissimo lavoro di ricerca.
Tra un’ondata e l’altra capitava che vagasse torvo e, interrogato sulle sue condizioni, rispondesse: “sto covando”.
Non poteva non fare le cose che fatto, non potendo non essere la persona che era, e questa identità è arrivata intatta alle sue ultime ore.
Nonostante la repentinità di questo distacco, uno sguardo retrospettivo fa pensare che lui lo preparasse da tempo.
Quasi un paio di anni fa, mi comunicò di aver deciso dove essere salutato post mortem, dopo aver visto una pubblicità: le Onoranze funebri Turati…
“cioè capisci, si chiamano Turati e sono in via Bauer… e poi hanno una capretta!”. L’entusiasmo era equamente diviso per questi tre soggetti.
In quella stessa occasione manifestò l’intenzione, camuffata sotto la forma di richiesta di consiglio, di domandare alle persone che più stimava di scrivere un testo che lo riguardasse, adottando la prospettiva della di lui morte:
“perché se poi io sono morto come faccio a sapere cosa pensano di me?”.
La mia risposta non gli aveva lasciato margini di manovra.
Eppure, oltre alle onoranze Turati, ha ottenuto anche questo: ha potuto leggere prima e ascoltare poi decine di messaggi contenenti attestati di stima, privi di falsa retorica e densi di autentica vicinanza.
Mi sembra quindi doveroso concludere questo ricordo con le parole di incoraggiamento e ringraziamento dell’avv. Michele Ricciardi, sentite le quali mio padre stette qualche istante in silenzio per poi dire “questo bisogna mandarlo in giro”. E così viene fatto:
“Ciao Felice.
Ti auguro ogni bene per il 2024.
Guarisci presto. Sei importante per me, quindi bada a te stesso.
Mi sono ripromesso di tornare davanti alla Corte Costituzionale per il Rosatellum, e senza di Te sarei un pesce fuor d’acqua.
Mi è venuto in mente che non Ti ho mai raccontato di mio Nonno e di mio Padre.
Mio Nonno era avvocato e anche insegnate di filosofia in un liceo.
Un giorno vennero i fascisti e, come a tutti i dipendenti pubblici, gli chiesero di giurare fedeltà al regime. Mio Nonno rispose: “No, no. Io sono avvocato e devo poter difendere il mio cliente come meglio ritengo. Perciò, per essere fedele al mio mandato, non giuro fedeltà a nessuno.”
Anche Papà era avvocato, penalista.

Nel 1978 erano iniziati i processi alle Brigate Rosse e quelle, per combattere lo Stato, sistematicamente ricusavano i difensori. Molti erano minacciati e i processi non partivano. L’Avvocato Fulvio Croce, di Torino, non rifiutò l’incarico d’ufficio e lo uccisero. Pochi mesi dopo iniziò un processo a Franceschini ed altri brigatisti a Perugia. Anche qui le BR minacciarono di morte i difensori d’ufficio. Il Presidente del Tribunale chiamò il Presidente dell’Ordine e gli chiese di risolvere il problema. E così tutti i consiglieri dell’Ordine furono precettati, anche mio Padre. Visse sotto scorta per tutto il processo e riuscì anche a far assolvere Franceschini da qualche capo di imputazione.
Mi raccontò poi che alla prima udienza le minacce dei brigatisti erano assordanti, ma lui gli si rivolse dicendo che lui stava lì a fare il suo dovere di difenderli e che non poteva evitarlo, perciò, disse: “Urlate pure, io da questo orecchio non ci sento”. E, mi disse poi: “Credimi, non li ho proprio sentiti!”
Le toghe del Nonno e di Papà erano nere, ma nella mia immaginazione di sedicenne rilucevano d’argento, come le armature dei cavalieri senza macchia e senza paura.
Anche la mia toga è stata nera per tanti anni, poi sei arrivato Tu, mi hai portato davanti alla Corte Costituzionale a difendere il diritto di voto degli Italiani e mentre ero seduto al Tuo fianco, mentre parlavi, la Tua toga ha iniziato a brillare di luce propria e mi è sembrato che anche la mia iniziasse a riflettere lampi d’argento.
Grazie, grazie, grazie, anche a nome di tutta l’Avvocatura italiana.
E grazie anche a nome del Popolo Sovrano.

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