Pinocchia Giorgia Meloni
Riforme, le bugie di Meloni
10 Gennaio 2024 su Democraziaoggi.
di Massimo Villone
Possiamo assegnare alla conferenza stampa di Meloni un primato, perché mai con tante parole fu detto così poco. Una platea – con limitate eccezioni – piuttosto docile di giornalisti ha regalato alla presidente una passerella di 45 domande e tre ore, abilmente sfruttate. L’abilità, peraltro, non sopperisce al vuoto di contenuti. Ad esempio, Meloni ribadisce di non essere ricattabile rifiutando però di specificare chi, come, quando: «Non ho altro da dire su questo». Chiama in causa in vario modo quelli di prima, come per il MES, il caso del consigliere Degni, le concessioni balneari e altro ancora. Si rifugia, come per i migranti e il cd piano Mattei, nella necessità di trattative – su scala europea e non solo – ancora in mente dei. Non va meglio per le riforme. Ma come può ancora dire – dopo le polemiche e i fiumi di parole già spesi sul tema – che «abbiamo scientificamente scelto di non toccare i poteri del Capo dello Stato»? Secondo la scienza di chi? Persino La Russa ha avvertito la necessità di inventare la fantasiosa tesi per cui la riforma taglierebbe poteri abnormemente e abusivamente accresciutisi intorno al Quirinale al di là del disegno dei costituenti.
Assistiamo attoniti a una contesa tra La Russa e Meloni per la palma di migliore costituzionalista della destra.
Il problema di Meloni è la visione semplicistica di un deficit di stabilità e governabilità che si sana consentendo ai cittadini di scegliere chi governa, e garantendo a chi è eletto di governare per cinque anni. Dopo, chi ha governato si sottopone alla valutazione del lavoro svolto. Una semplificazione forzosa che occulta la pulsione autocratica di un’elezione diretta del capo del governo assistita da meccanismi elettorali che a lui legano una maggioranza parlamentare. Su questo ha ribadito nella conferenza di essere pronta ad affrontare un referendum, che anzi sembra ritenere probabile mancando i numeri parlamentari (due terzi dei componenti) per evitarlo. Forse Meloni amerebbe consacrarsi come madre costituente (di una nuova Carta). Non vede, però, che in un paese già frammentato e diviso, in cui la coesione sociale e territoriale cede, un simile modello può accrescere spaccature e polarizzazioni invece di dare stabilità e governabilità. Né vede un cittadino che dopo aver votato si tramuta in suddito per i
successivi cinque anni. Un pensiero analogamente elementare e semplicistico lo troviamo sul!’Autonomia differenziata. A suo dire, sana lo sbilanciamento tra Stato e Regioni dato dal fatto che i governatori sono eletti direttamente e durano cinque anni, e i presidenti del Consiglio no. La forza dell’istituzione si misura con la capacità di rimanere incollati alla poltrona per tempi certi. Ma non vede il drenaggio di poteri, funzioni e risorse dal centro alla periferia che fatalmente indebolisce le istituzioni nazionali a partire proprio dal presidente del Consiglio. Eppure, a lei spetterà, secondo l’AS 615 Calderoli in Aula in Senato dal 16 gennaio, decidere se porre limiti al negoziato per l’intesa sulla maggiore autonomia tra lo Stato e la Regione (art. 2.2). Lo sa? L’hanno avvertita? Meloni invece rivendica il lavoro di maggioranza sui livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Ne fa discendere che la maggiore autonomia è riconoscimento della migliore capacità di gestire, e responsabilizza la classe dirigente. Qui non siamo soltanto ai più logori mantra cari ai fan dell’Autonomia differenziata, ma giungiamo alla menzogna manifesta. Come si può ancora fingere di ignorare che risorse per i Lep non ci sono e non ci saranno per il futuro prevedibile? E che non si può parlare seriamente di responsabilizzazione se ci sono pluridecennali ritardi strutturali e sottofinanziamenti sistematici? A confronto, De Luca che protesta sulla sanità campana sembra uno statista.
Meloni non pensa alla salus reipublicae, ma alla competizione con i partners di governo e al minuto guadagno nei prossimi turni elettorali. Persino Occhiuto, governatore della Calabria, merita un voto più dignitoso. Nella convention di Forza Italia del novembre 2023 chiarisce che l’attuazione concreta dei Lep deve necessariamente precedere l’Autonomia differenziata. “No money, no party”, è l’esplicito messaggio consegnato alla rete. Palazzo Chigi in sostanza risponde “money” niente, ma intanto facciamo comunque il “party”. Ovviamente con buona pace della riduzione dei divari territoriali, delle diseguaglianze e in specie delle speranze delle donne e degli uomini del Sud. Ce n’è abbastanza per impedire almeno il brindisi di un buon esito elettorale.
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