Da domani la NOVENA di NATALE e SA NOVENA de PASCH’ E NADALE in CASTEDDU

img_5602A partire dal 16 dicembre, alle ore 18, la Confraternita di S. Efisio riproporrà nella chiesa dedicata al Santo, la Novena di Natale in Gregoriano, con una novità: la liturgia avverrà integralmente in lingua sarda.
Si tratta, allo stesso tempo, di un ritorno alla tradizione e di una prospettiva per il futuro. La Novena di Natale era particolarmente sentita nel quartiere di Stampace, introdotta dal solenne canto del Regem Venturum Dominum eseguito all’organo. A partire da quest’anno, l’organo accompagnerà i canti dei fedeli assieme alle launeddas, il più antico strumento musicale della Sardegna.
Ed una proiezione verso il futuro, perché, con la celebrazione della novena in lingua sarda, si vuol favorire il compimento delle novità del Concilio Vaticano II che, guardando ai segni dei tempi, ha aperto la liturgia all’uso delle lingue nazionali. La Sardegna vive proprio l’attesa – l’avvento – del riconoscimento della sua lingua anche per la celebrazione della Santa Messa. Il rapido diffondersi, in diverse località dell’Isola, della celebrazione della Novena di Natale in lingua sarda – avvenuta proprio a Cagliari nel 2008 nella Chiesa del Santo Sepolcro – spinge in tale direzione.
Nella chiesa di Sant’Efiso, assieme alla Novena, sarà inoltre possibile visitare anche lo storico presepio della Gioc, che la Confraternita dei S. Efisio, negli ultimi anni, ha recuperato e riproposto.

Ogni ulteriore informazione sarà fornita il 16 dicembre, a partire dalle ore 17,30, prima dell’inizio della Novena.

Il presidente Andrea Loi

Si allega una breve introduzione all’iniziativa.
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PRESENTAZIONE

Quando si arrivava alla metà del mese di dicembre, la sera – nelle vie del quartiere – cominciava ad essere accompagnata dalle esplosioni di una miscela di zolfo e clorato di potassio, innescata dalle scintille prodotta dallo sfregamento di una piccola pietra levigata che, molti di noi, in quelle settimane, custodivano nella tasca di calzoni corti attillati.
La pietra veniva poggiata sul mucchietto di polvere esplosiva; poi un colpo secco con il tallone, a strisciare, provocava lo scoppio. Quegli scoppi annunciavano che era giunto il tempo delle lunghe feste di fine anno e avrebbero fatto compagnia alle nostre serate sino ai botti trionfali con i quali si salutava l’anno nuovo.
E poi c’era la Novena, in Chiesa, solennemente introdotta dal “Regem venturum Dominum”, accompagnato dall’organo in tonalità maggiore, e l’odore intenso di incenso che ci penetrava nell’anima.
I canti gregoriani si susseguivano, l’uno dopo l’altro, con l’inno “En clara vox”, gregoriano di tempi uguali che la maggior parte di noi trasformava in marcetta: e il “Tantum ergo” …
Cosa volessero dire quelle parole, naturalmente, lo sapevano solo i preti e pochi laici eruditi; ché le nostre madri, e le nostre nonne, per poter rispondere all’invocazione del celebrante, erano state costrette ad elaborare un versario, in puro vernacolo dialettale, ricco di assonanze con quella lingua sconosciuta. Così, “procedenti ab utroque”, diventava facilmente “proceddeddus a ogus trottus”. Il celebrante, di solito, non percepiva la storpiatura del testo latino, ma anche nel caso se ne avvedesse, preferiva tacere. Al Padre eterno, poi, che aveva ben altre rogne a cui badare, al più scappava un sorrisetto.
Così, tra botti, canti, luminarie, e le immancabili bancarelle, la festa prendeva vigore. L’intero quartiere di Stampace vi partecipava.
Il fatto di esordire con un richiamo all’ambiente di una Novena di Natale – che siamo in pochi, oramai, ad aver vissuto in prima persona – potrebbe suggerire l’idea che il lavoro che presentiamo sia espressione della vena nostalgica che spesso accompagna l’età avanzata. Niente di più errato.
Rispettiamo ogni nostalgia, ovviamente, a patto che non riveli incapacità di vivere il presente, ma l’intendimento di questo lavoro, che ricostruisce e traduce in lingua sarda le liturgie e i canti che hanno accompagnato l’età della nostra fanciullezza, è ben altro.
La stagione di una liturgia, spesso solenne e pomposa, per di più celebrata in una lingua incomprensibile ai più, è terminata. Anzi, a dirla tutta, è durata anche troppo.
Il Concilio Vaticano II°, oltre mezzo secolo fa, ha invitato la Chiesa a saper leggere i segni dei tempi, ci ha ricordato che i laici non sono “fedeli” ma parte integrante e indispensabile delle Chiese; ci ha ricordato l’importanza della comunità ecclesiale …
E poi, finalmente, ha posto fine al tabù della lingua latina per la celebrazione, aprendo all’uso del volgare, che ha consentito una più intensa partecipazione del popolo. Grazie a quel segno di uguaglianza il celebrante ha anche smesso di dare le spalle ai “fedeli”, ha incominciato a rivolgersi ad essi “faccia a faccia” durante le celebrazioni. Tante Comunità hanno potuto tornare a nuova vita, e prosperare.
Tuttavia, il declino del latino ha lasciato il posto a volgari nobili, quelli “legittimamente approvati” e quelli che invece, come la lingua sarda, ancora attendono una “autorizzazione” che, per la verità, è stata avanzata soltanto nel 2023, nonostante le insistenti richieste di laici e sacerdoti sardi che risalgono almeno dall’ultimo decennio del secolo scorso.
Più recentemente, l’allora Arcivescovo di Cagliari mons. Arrigo Miglio ha incoraggiato con convinzione l’avvio di un percorso finalizzato al riconoscimento della piena dignità della lingua sarda nella vita della chiesa locale. Un riconoscimento che, ha affermato, “non solo è un percorso che si può compiere, ma assolutamente utile dal punto di vista pastorale e culturale”.
Ci troviamo, in questo, in perfetta sintonia con l’ammonimento di Papa Francesco che, più volte, in occasione del rito del battesimo nella Cappella Sistina, nel gennaio del 2018, ha ribadito con forza che “la trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, nella lingua intima delle coppie, nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. Di Papa Francesco che ha ricordato che Gesù parlava in aramaico, perché era naturale che un bambino cresciuto in una modesta famiglia della Galilea parlasse la lingua del popolo, e che nella sua lingua materna, quella appresa da Giuseppe e da Maria abbia spezzato il pane e versato il vino.
Vorremo, in definitiva, contribuire, al compiersi del programma del Concilio Vaticano II, sostenere gli sforzi di quanti, negli ultimi anni, si sono adoperati in questa direzione, contribuire al movimento che reclama un pieno riconoscimento della lingua sarda in ambito liturgico e per questo la Confraternita di Sant’Efisio ripropone la liturgia della novena in lingua sarda.

Alcuni cenni storici della Novena gregoriana.
La novena in gregoriano è stata eseguita, per la prima volta, a Torino, nella chiesa dell’Immacolata, affidata ai preti della Missione, nel Natale del 1720.
Su sollecitazione della Marchesa Gabriella Marolles delle Lanze, il padre Antonio Vacchetta compose una nuova Novena cantata, contenente testi delle Profezie e dei Salmi.
Dopo la prima celebrazione del 1720, la Marchesa, apprezzando la composizione, dispose un lascito di cinquemila lire per consentire che la Novena si continuasse a celebrare ogni anno.
I missionari e i preti che frequentavano la Casa della Missione, hanno poi diffuso questa Novena nelle Diocesi del Piemonte, della Lombardia e della Liguria e, successivamente, si è estesa ad altre regioni dell’Italia e del Mondo.

L’origine della Novena di Natale in lingua sarda.
La Novena in lingua sarda, ispirata al modello gregoriano, è stata celebrata per la prima volta a Cagliari, nel 2008, nella chiesa del Santo Sepolcro per iniziativa di Don Mario Cugusi, allora parroco della parrocchia di S. Eulalia, con la partecipazione del gruppo di laici che frequentava la parrocchia e con il sostegno della Fondazione Sardinia e del suo direttore Salvatore Cubeddu.
Il Concilio plenario sardo, promulgato il 1° luglio del 2001, ha rappresentato un significativo momento di svolta della Chiesa Sarda per quanto riguarda l’utilizzazione della lingua sarda nella liturgia. Mentre il Concilio Plenario del 1924, “inibiva l’uso della lingua sarda e la guardava con diffidenza”. Il Concilio del 2001, invertendo radicalmente tale orientamento, definisce la lingua sarda “un singolare strumento comunicativo della fede” e ne auspica la valorizzazione nella liturgia.
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