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Editoriale
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Cosa succede?
Carissimi,
molto è stato detto sull’elezione di Trump alla Casa Bianca, non insisteremo perciò qui sulle diagnosi, più o meno allarmate, su quanto potrà accadere soprattutto a Gaza, dato lo stretto rapporto della famiglia Trump con Israele e Netanyahu: c’è il rischio di un incentivo al suicidio di Israele, come lo chiama Anna Foa, e di una sua ricaduta sul popolo ebraico della diaspora, come fanno presagire le violenze scatenatesi ad Amsterdam tra olandesi e tifosi ultras israeliani; né si può non essere atterriti al preannuncio trumpiano della deportazione di milioni di immigrati dagli Stati Uniti.
Quello che invece vorremmo qui rilevare è che la vittoria di Trump ha sdoganato una crudeltà che prima era nascosta. L’abbiamo vista con sgomento nei volti di alcuni partecipanti a uno dei consueti talk show televisivi, un professore, un imprenditore, una parlamentare di governo, sia che si parlasse di Gaza sia che si discutesse della “deterrenza” con cui il governo vuol dissuadere i migranti dal venire in Italia suscitando in loro il terrore di finire in Albania e di qui essere rispediti là da dove, per tremende ragioni, sono fuggiti.
Sui volti di questi interlocutori televisivi abbiamo visto i tratti di una singolare durezza nell’imperativo della “difesa dei confini”, e più ancora abbiamo visto addirittura un sorriso beffardo di fronte alle immagini degli uccisi, degli scacciati, degli affamati e dei disperati di Gaza con l’alibi di dire che nulla vi fosse di vero.
Ci siamo ricordati allora della invocazione di Italo Mancini il cui auspicio, per uscire dai tormenti di questa nostra modernità, era che “tornino i volti”, cioè che si torni a rapportarsi con l’infinito valore e l’unicità di ogni persona, i volti, “questi inauditi centri di alterità che sono i volti, volti da guardare, da rispettare, da accarezzare”: ma oggi sono i volti di Gaza, i volti nascosti dalla fitta selva di mani alzate per cercare di strappare un frammento di cibo o una ciotola di minestra sfuggiti al blocco degli aiuti impediti dall’assedio per fame.
E abbiamo pensato a quello che oggi l’Occidente non vuole vedere dei tormenti che esso stesso ha inflitto e infligge a popoli interi, a milioni di volti, per quella falsa coscienza che esalta la violenza travestita da democrazia e da Stato di diritto come difesa della nostra identità e dei “nostri” valori. È quello che dice Roberta De Monticelli denunciando la “catastrofe intellettuale e morale” in cui si è trasformato il dibattito pubblico sull’eccidio di Gaza, su questa “umanità violata”, come recita il titolo del suo libro dedicato alla “Palestina e l’inferno della ragione”. È il libro che mancava sulla guerra in corso nel Vicino Oriente, della quale sono piene le cronache, mentre non viene scandagliata la sua ragione profonda, la filosofia che la interpreta, la fenomenologia che la spiega: la Palestina come un “nodo del pensiero”. Un libro che perciò non si può fare a meno di leggere perché, se nulla possiamo fare per lenire la sofferenza anche di un solo volto a Gaza o a Nablus, almeno abbiamo il dovere di capire e sapere, per immaginare, sperare e promuovere un altro futuro per Israele, i palestinesi, e anche per noi. Quel futuro che oggi, come spiega la De Monticelli, è oggetto di rimozione, perché come riconosceva un autorevole articolo a più voci pubblicato su Foreign Affairs, c’è un “innegabile” che è anche “indicibile”: l’innegabile è che “una soluzione a uno Stato non è una futura possibilità, esiste già un unico Stato tra il Mediterraneo e il Giordano”, ciò che per Israele è irreversibile benché l’annessione non sia stata dichiarata, e si risolve in un regime di apartheid; ma questo innegabile è “indicibile” perché fingendo che sia ancora in corso il processo per la soluzione a due Stati si può ancora mascherare la contraddizione tra l’ebraicità e la democraticità dello Stato di Israele, come è stato finora concepito.
La soluzione è perciò che la realtà innegabile e indicibile sia resa visibile, presa in carico e trasformata attraverso un processo di riconciliazione fino a fare di Israele uno Stato binazionale, con due tradizioni, due culture, due popoli con pieni e identici diritti. Solo allora la crudeltà sarà sconfitta, e torneranno i volti da amare.
Sulla elezione di Trump e il deperimento della democrazia di cui è segno, pubblichiamo, da Other News, un articolo di Gabriele Crocco; sui progetti di trasformazione di Gaza, tolti i palestinesi, in un paradiso di coloni e di ricchi, pubblichiamo un allarmato articolo dell’Osservatore Romano, e sugli scontri di Amsterdam un’informazione di RaiNews
La lettera ai nostri fratelli ebrei della diaspora non è stata ancora inoltrata, anche se uno se ne è già adontato. Vi terremo informati dello sviluppo dell’iniziativa a cui si sono associati finora 300 mittenti.
Con i più cordiali saluti,Raniero La Valle
Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
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LETTERA AI NOSTRI CONTEMPORANEI DEL POPOLO EBRAICO DELLA
DIASPORA
Carissimi Ebrei della Diaspora,
vi scriviamo per parteciparvi una duplice angoscia che cresce in noi a partire da quel 7 ottobre del 2023, quando un’efferata azione dei palestinesi di Hamas fece scempio di un gran numero di ebrei di Israele e di molti non israeliani sui bordi della “striscia” di Gaza.
Insieme al dolore per le vittime e alla esecrazione per la brutalità dell’aggressione, la prima di tali angosce ha tratto origine dalla percezione che le conseguenze di quella azione, con tutto il male che portava con sé, sarebbero ricadute sulla intera popolazione di Gaza e sul popolo palestinese in quanto tale, ovunque situato, nei territori colonizzatidella Cisgiordania come nei Paesi vicini.
L’altra angoscia è sorta, ed è cresciuta nel tempo, dalla considerazione che leconseguenze della spietata ritorsione intrapresa dagli Ebrei delle Israel Defence Forces, con tutto il male che porta con sé, ricadranno sull’intero popolo ebraico, sia privandodi ogni sicurezza, ad onta di ogni possibile difesa, i cittadini dello Stato di Israele, siamettendo a repentaglio, con risultati imprevedibili, il popolo ebraico della Diaspora in quanto tale.
A questa duplice angoscia si aggiunge quella per ciò che può accadere a causa dell’allargamento del conflitto al Libano e all’Iran, e per le conseguenze che nepossono derivare per tutto il Medio Oriente e la residua pace del mondo. Ciò che ciaccomuna di fronte a questi eventi, è la nostra condizione di terzietà che ci fa trovare con voi dalla stessa parte sia al cospetto delle attuali condotte dello Stato di Israele, che sono in odore di genocidio, sia delle reazioni violente e illegittime dei suoi antagonisti,
sia della responsabilità che tutti abbiamo in ordine alla “questione palestinese”.
Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa noninveste direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due popoli irrimediabilmente nemici, la cui spinta vitale fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo
potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.
Perciò, e non solo per molte altre ragioni di cui si potrebbe parlare, noi sentiamo il vostro problema come nostro, e vi scriviamo non per darvi moniti e consigli che non abbiamo l’autorità di darvi e che voi potreste non trovare alcuna ragione di accogliere, ma perché siamo convinti che insieme dobbiamo farci carico di questa sfida e insieme immaginare e cercarne la soluzione sul piano effettuale e politico. Se siamo, come si dice, a un “cambiamento d’epoca”, tutti noi contemporanei ne siamo responsabili e
autori.
Un’altra ragione per farlo, senza che questo voglia dire un’interferenza in una questione che è solo vostra, è il fatto che come noi comprendiamo ed è di dominio comune, alla radice di questa terribile vicenda c’è una realtà di fatto che non è solo dello Stato di Israele, che in oltre 70 anni non è riuscito a dare soluzione al problema del rapporto sulla stessa terra con un gran numero di residenti che hanno altra origine, storia, lingua, religione e cultura, ma è anche e sempre più potrà diventare un problema anche nostro; e ciò in ragione delle correnti migratorie, regolari e irregolari, che
affluiscono nei nostri Stati e che le nostre politiche sembrano non in grado di fronteggiare. La differenza sta nel fatto che mentre gli Ebrei sono gli “altri” sopraggiunti a sostituire una popolazione già esistente, i nostri Stati sono la popolazione esistente a cui si aggiungono gli “altri” che arrivano sempre più numerosi, provocando in essa inevitabili cambiamenti. Se i nostri Stati affrontassero il problema del rapporto con i migranti nella prevalente preoccupazione di una “identità” e invarianza da preservare, il rischio sarebbe di vivere “la questione migratoria” con la
stessa ambascia con cui lo Stato di Israele fin dall’inizio ha avvertito “la questione palestinese”. E sarebbe una catastrofe se noi volessimo difendere la “nazione” e i valori nazionali, ben oltre la chiusura delle frontiere e dei porti, in modo corrispondente alla perentorietà con cui lo Stato di Israele rivendica e tutela la propria identità nella sua Legge fondamentale. Tale Legge, adottata per iniziativa del premier Netanyahu ma con
l’opposizione del Presidente di Israele Reuven Rivlin il 19 luglio 2018, com’è noto definisce Israele come “Stato Nazione del Popolo Ebraico”, la Terra di Israele (più volte identificata in Israele con la terra che si stende dal mare al Giordano) come “la patria storica del popolo ebraico in cui lo Stato di Israele si è insediato” e “Gerusalemme integra e indivisa” come la capitale – di Israele.
Si può obiettare che l’identità che rende così tipico e coeso il popolo ebraico è ben più forte e storicamente sperimentata di quella che unisce i cittadini dei nostri Stati, che sono ormai inclusi in società per larga parte multietniche e pluraliste, legittimate da ordinamenti democratici, a differenza dello Stato di Israele in cui la citata Legge fondamentale riserva i diritti di natura politica “esclusivamente al popolo ebraico”. Ma
se si rifiuta di cogliere la “differenza ebraica” nella specificità razziale, che è stata usata a fondamento della perversione dell’antisemitismo (“razziali” si chiamavano le leggi che l’hanno promosso) si deve cercare altrove il cemento di questa unità e specificità del popolo cui appartenete; e noi lo troviamo nella storia di Israele, nella sua fede, nel suo riferimento alla tradizione biblica e talmudica, (“la Legge e i Profeti”!), e nella solidarietà nel dolore determinata dall’esperienza e dalla memoria delle persecuzioni subite.
Ma allora di nuovo si scopre quanto abbiamo in comune e come sia anche nostro il problema delle politiche e della figura attuali dello Stato di Israele.
Prima di tutto ci sembra che il riferimento alla fede e alla tradizione religiosa di Israele apra uno spazio fecondo di alterità tra voi, popolo ebraico della Diaspora, e i vostri fratelli ebrei dello Stato di Israele. Diverso infatti nei due casi ci appare questo rapporto. I cittadini anche non credenti della società israeliana, in larga parte secolarizzata (non diversamente dalle altre società dell’Occidente) vi fanno riferimento
e le professano fedeltà come fondamento e garanzia dello Stato, che fin dall’origine ha scelto di stabilire in essa la propria legittimazione; infatti essa è implicitamente riconosciuta dalla comunità internazionale che correntemente si riferisce ad Israele come allo “Stato ebraico”. Questo però comporta una lettura del patrimonio spirituale dell’ebraismo in termini temporali e politici, non sempre prudenti, che distorcono agli
occhi degli osservatori esterni il significato della fede ebraica e che nei momenti di crisi sono accentuati dai governanti di Israele per difendere le loro scelte e ottenere una sorta di insindacabilità delle loro politiche, mettendo in carico all’antisemitismo le riserve e le critiche che vengono loro rivolte. Il danno di questo uso strumentale dei tesori dell’ebraismo ci è apparso ingigantito nel corso di questa crisi, per il frequente
ricorso che vi ha fatto il premier Netanyahu, rivendicando una filiazione diretta delle sue scelte dai comandi di Mosè e dalle gesta di Giosuè, stabilendo una continuità di fatto tra le azioni distruttive di oggi e gli stermini di ieri dei popoli vinti da Israele nell’epica conquista della Terra promessa, interpretando settariamente l’effetto della
presenza di Israele sulla “mappa” del mondo in termini di benedizione e maledizione, presentando lo Stato di Israele nella forma di un messianismo realizzato e rompendo con la comunità delle Nazioni in una rinnovata contrapposizione tra Ebrei e “Gentili”.
Una linea di governo che si è manifestata bollando l’Organizzazione che le riunisce, l’ONU, come una “palude di antisemitismo”, non risparmiando la vita dei suoi operatori umanitari, attaccandone i militari in missione di pace, dichiarando persona non grata il suo massimo rappresentante e sdegnando le pronunzie i moniti e le accuse dei suoi organi istituzionali e giudiziari. Siamo particolarmente raccapricciati e appare
blasfema la pratica di uccidere i nemici uno per uno e promettere di ucciderli tutti invocando il nome di Dio, avendo in premio la luce e l’entusiastico consenso di Biden.
Vogliamo rendervi atto che molto diversa è la testimonianza dei valori dell’ebraismo e della fede di Israele che si sprigiona dal vasto mondo degli Ebrei della Diaspora. Anche tra voi ci sono credenti e non credenti, e senza dubbio è ragione di arricchimento per tutti la presenza e l’integrazione degli Ebrei della Diaspora nelle nostre società laiche e nella costruzione di autentiche democrazie. Ma se teniamo conto della ricca varietà
di posizioni espresse in seno all’ebraismo, vediamo come una gran parte dei sapienti d’Israele e dell’ebraismo rabbinico ha respinto nel passato, e in notevole misura lo fa anche oggi, una interpretazione del messianismo in senso politico e mondano, professando come riservata a Dio l’attuazione delle promesse messianiche, ha giurato di “non forzare la fine”, si è dissociata da una versione del sionismo in un suo intreccio
perverso con lo Stato, rivendica il valore della vita ebraica “nel differimento” della redenzione e nell’esilio, legge in modo non fondamentalista il libro sacro e ha parole di vita riguardo a molte altre cose. Grande perciò, dal nostro punto di vista, sarebbe l’importanza di una crescita del dialogo e del confronto tra il mondo della Diaspora e
gli Ebrei dello Stato di Israele, in vista di un cambiamento e di una rettifica degli errori commessi (denunciati perfino dagli Stati Uniti) e anche ai fini di un contenimento e di un antidoto al risorgente mostro dell’antisemitismo o, come è stato chiamato anche da autorevoli Ebrei, al “suicidio di Israele”.
La seconda realtà chiamata in causa dal riferimento alla fede e alla tradizione biblica di Israele è quella dell’Occidente, il quale non a caso è collocato, da un luogo comune di cui molti ignorano la vera portata, nella filiazione dalla tradizione “ebraico-cristiana”.Se questo è vero, si pone un problema molto grave per noi, al di là delle opzioni di fede di ognuno. A questa nostra tradizione appartiene una parola di Gesù detta alla donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe, tramandata dal Vangelo di Giovanni, che afferma: “La salvezza viene dai Giudei”. La nostra esperienza attuale e la tragedia di Gaza insinuano che ne venga invece la perdizione e la fine. Il problema consiste nel fatto che o lasciamo cadere come infondata e inattendibile la predizione di Gesù, ma
allora è tutto il Vangelo che cade, oppure la situazione presente viene rovesciata e questa profezia si traduce in lieto preannunzio di un altro futuro e in un compito da assolvere. Nella storia della cristianità per molto tempo questa seconda ipotesi è stata scartata (“i perfidi Giudei”!) ma nel nostro tempo il rovesciamento è avvenuto, come
dimostrano la riforma della liturgia, la fede espressa nel documento “Nostra aetate” del Concilio Vaticano II”, il dialogo ecumenico e quello ebraico cristiano, il riconoscimento degli Ebrei come “nostri fratelli maggiori” secondo la pronunzia di Paolo VI, il documento di Abu Dhabi e la “Fratres omnes” di papa Francesco, così come nel mondo laico il ravvedimento è attestato dal pentimento e dalla condanna universale della Shoà insieme all’onore e al pregiudizio favorevole riservati agli Ebrei contro ogni antisemitismo. A ciò si aggiunge, da parte della storiografia scientifica e
della ermeneutica cristiana una lettura non pedissequa della Bibbia (quella letterale sarebbe secondo i teologi cattolici “un suicidio del pensiero”) che non considera “storici” i libri “storici” dell’Antico Testamento, scritti molti secoli dopo i fatti narrati, e perciò non attestanti fatti effettivamente avvenuti. Ciò significa liberare il popolo ebraico dalla pretesa origine da un delitto fondatore, e addirittura da un passato di
decreti di sterminio ed eccidi di interi popoli (molti dei quali all’epoca nemmeno esistenti) su commissione di un improbabile Dio violento, a sua volta successivamente ucciso nel Figlio, e cancellare l’intero armamentario ideologico su cui è stata storicamente fondata la persecuzione antisemita. Per contro un passato di delitti fondatori e di messianismi letali lo hanno molte realizzazioni genocide e colonizzazioni insediative dell’Occidente “civilizzatore”, come nella “scoperta” e conquista dell’America, nell’America cosiddetta “latina”, nell’Africa non solo del Sud, in
Oceania e altrove.
Così ristabilito l’orizzonte in cui operare, si apre la possibilità di un’alleanza di tutti i soggetti fautori di pace con gli Ebrei della Diaspora per un dialogo con l’attuale Stato di Israele, la ricerca di una soluzione e la costruzione di un’alternativa riguardante non solo Israele e i palestinesi ma la pace e l’unità stessa del mondo.
Sarebbe una presunzione e ancora il riflesso di una mentalità egemonica stabilire i termini di tale soluzione, che possono scaturire solo da una ricerca comune e dalla inventiva della storia. Si può però affermare con un sufficiente grado di certezza che una soluzione può risiedere solo in una riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi e non solo venire da artifici politici e diplomatici. Per la costruzione di un’alternativa si deve
ormai abbandonare la fuorviante soluzione a due Stati, per la quale ci vorrebbe ben più che una riconciliazione, tra due Stati limitrofi e indiziati a combattersi, anche ove mai tale soluzione fosse stata possibile e auspicabile in passato, nonché la finzione di negoziati in realtà ordinati a confermare e preservare la situazione qual è, come è stato
sostenuto anche in un dialogo tra due culture diverse, quale il dialogo tra Ilan Pappé con Noam Chomski. Resta la soluzione a uno Stato, ma allora va costruita attraverso una riforma della figura di Stato vigente, riforma che pertanto riguarda non solo lo Stato di Israele, nel quale l’identità etnico-religiosa spinta all’estremo ha dato luogo a un regime di dominio e di guerra, ma la stessa forma di Stato moderno, quale si è andata
a fissare negli Stati esistenti, che nel loro insieme ormai globalizzato si presentano come un coacervo di sovranità in competizione se non in lotta tra loro, che hanno eletto come ultimo (e spesso anche primo) giudice tra loro, la guerra. Lo Stato rispondente alla nuova realtà di una comunità mondiale pluralistica e multiculturale dovrà piuttosto costruirsi in una pluralità di ordinamenti giuridici interagenti tra loro, che insedino come sovrana la pace, assicurino l’eguaglianza, riconoscano non solo come affare
individuale e “privato”, ma sociale e significante per tutti, le culture le religioni e le tradizioni diverse, e aprano le frontiere e i porti alla libera circolazione non solo delle economie e delle merci, ma delle persone e dei popoli. Si potrebbe perfino pensare che nel nuovo “villaggio globale” agli organismi che corrispondono ai tre poteri competenti nelle relazioni interne agli Stati, legislativo, esecutivo e giudiziario, possa aggiungersi
un altro organo, quello della diplomazia, con poteri di consiglio e di controllo sui rapporti esterni e le scelte internazionali dello Stato, a partire dalla scelta costituzionalmente obbligante della pace, della salvaguardia del creato e della dignità delle creature. Così come si potrebbe pensare a uno sviluppo del diritto che giunga ad
abrogare e sanzionare la figura del “Nemico”; e ciò non solo in Europa, quando perfino nell’Impero ottomano Ebrei e Islamici hanno vissuto insieme pacificamente per secoli, senza ombra di antisemitismo.
Questo volevamo dire agli Ebrei con noi conviventi, nostri vicini, concittadini, sorelle e fratelli in quest’epoca nuova.Raniero La Valle e Comitati Dossetti per la Costituzione, Domenico Gallo, giurista, Roberta De Monticelli, filosofa
Con (firme dei mittenti in ordine di apposizione):
Raffaele Nogaro, vescovo cattolico, Claudio Grassi, legislatore, Felice Scalia, gesuita, Elena Basile, ambasciatrice, Luigi Ferrajoli, giurista, Giovanni Ricchiuti, vescovo cattolico, presidente di Pax Christi Italia, Stefania Tuzi, storica dell’architettura, Francesco Di Matteo, avvocato, Francesco Zanchini di Castiglionchio, canonista,
Massimo Zucconi, architetto, Fulvio De Giorgi, ordinario di storia dell’educazione,
Agata Cancelliere, insegnante, Giorgio Rivolta, docente di filosofia, Santino Di Dio,
impiegato, Raffaele Luise, giornalista, Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo,
Vito Micunco, Comitati pugliesi per la Pace, Nicola Colaianni, già Magistrato di
Cassazione; Nicola Costantino, ex Rettore del Politecnico di Bari; Nicola Pantaleo, già
Presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica Battista di Bari;, Antonio Malorni,
biochimico, Paolo Cento, legislatore, Fabio Filippi, editore, Enrico Peyretti, insegnante
e maestro di pace, Grazia Portoghesi Tuzi, etnomusicologa, Francesco Comina,
insegnante, Paola Patuelli, insegnante, Anna Sabatini Scalmati, psicanalista, Angelo
Cifatte, funzionario pubblico, Riccardo Valeriani, assistente sociale, Luca Robino,
(“Persona al centro”), Don Emilio Maltagliati, Parroco emerito di Cassinetta di
Lugagnano (Mi),
e con:
Ottavio Di Grazia, Storico della Shoà, Tonio Dell’Olio, presidente Pro Civitate
Christiana, Don Renato Sacco, Pax Christi, Mario Menin, direttore di “Missione Oggi”,
Franco Ferrari, Presidente “Viandanti”, Giuseppe Limone, filosofo e giurista, CarloMaria Ferraris. Redazione de “Il Gallo”, Maurizio Serofilli, Emanuele Pellicanò,
direttore di Montedomini, Firenze, Maurizio Mazzetto, presbitero (Pax Christi), Paola
Mario, insegnante, Gian Piero Saladino, assistente sociale, Paolo Farinella, biblista,
Moreno Biagioni (Comitato “Fermiamo la guerra” di Firenze), Giancarlo Piccinni,
Presidente Fondazione don Tonino Bello, Alfonso Gianni, saggista, Firenze, Pietro
Soldini, sindacalista, Roberto Rusconi, storico del cristianesimo e delle Chiese, Giorgio
Trentin, sinologo, Vincenzo Colli, storico del diritto medievale, Francesco Pistoia, già
sindaco e legislatore, Sergio Paronetto, Pax Christi, Flavio Pajer, docente di Pedagogia
comparata delle religioni, don Severo Piovanelli, ex parroco, Federico Palmonari,
fisico nucleare, Fabrizio Truini, amicizia ebraico-cristiana, Anna Doria, insegnante,
Maria Speranza Perna, docente, Massimo Marnetto, attivista, Carmine Miccoli, prete,
Luigi Bertagnolli, libero professionista, P. Abdo Raad, missionario, Manlio Schiavo,
docente, Bernardino Zanella, Servo di Maria, Vincenzo Marras, già direttore di
“Jesus”, Pier Giorgio Maiardi, pensionato bancario, Roberto Fiorini, Giovanna Monina
già Dirigente del Servizio Sanitario Nazionale, Antonio Caputo, giurista, Leonarda
Stucchi, Gianni Bacci, Cristina Giorcelli, docente americanista, Elena Berlanda,
insegnante, Barbara Varelli, Paola Pecco, Luigi Consonni, preteoperaio, Lino Prenna
coordinatore di “Agire Politicamente” , Vito Capano, “Il Gallo” di Genova, don Mario
Marchiori, parroco, Lucia Maccone Sica, insegnante, Giulio Sica, già magistrato di
Cassazione, Bice Parodi, Fondatrice dell’associazione ’”senza paura” Genova, Luigi
Colavincenzo, dirigente pubblico
e con:
Beatrice Draghetti, già presidente della provincia di Bologna, Peppe Sini, Centro per
la pace di Viterbo, Daniele Mauri, Comunidad Santo Espìritu, Lima, Perù, Francesco
Domenico Capizzi, chirurgo, Giovanni Ferretti, filosofo e presbitero cattolico, già
rettore dell’Università di Macerata, Francesco Antonio Romito, avvocato, Mario
Agostinelli presidente Associazione Laudato Si’, Laura Nanni, docente di filosofia,
Art’incantiere, Eleonora Stillitani, insegnante, Piergiorgio Bortolotti, operatore
sociale, Roberto Mazzotta, diplomatico, Giovanni Lamagna, docente, Marco Vincenzi,
operatore sociale, Andreina Albano, addetto stampa, Eleonora Caltabiano, medico,
Santo Di Nuovo, psicologo, Vito Lacirignola. Editore Stilo, Franca Maria Lorusso,
avvocato ecclesiastico, Corrado De Robertis, comboniano, Pier Giorgio Taneburgo,
Biblioteca Provincia Puglie, frati cappuccini, Francesca Vessia, pedagogista, Claudio
Ciancio, professore di Filosofia teoretica, Loris Nobili, ex dipendente della Banca Nazionale dell’Agricoltura e presente alla strage di Piazza Fontana, Franco Meloni, direttore Aladinpensiero News, Lina Ibba, medico, Stefano Toppi, ingegnere, Alessandro Bellavite Pellegrini, cristiano semplice, Gaetano Dammacco, Docente di diritto ecclesiastico, Paolo Orsolino, architetto. Maria Teresa Cattarossi, insegnante e
psicoterapeuta. Luca Ulianich, ricercatore CNR, Roberto Gelpi, ingegnere e
biblista, Maria Rosa Filippone, Carolina Goretti, Maria Nella Abbassetti, Ugo Ugazio,
filosofo, Susanna Braccia, segretaria. Laura Marotta, impiegata. Sr. Maria Costanza
Crippa, eremita, Ilva Palchetti, attivista, Roberto Bertoli, ex giornalaio, Giuseppe
Deiana, presidente Associazione Puecher di Milano, Grazia Bellini, presidente della
Fondazione Balducci, Liviana Gazzetta, insegnante, Luca Kocci, insegnantee con:
Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, Antonino Mantineo,
professore di Diritto ecclesiastico, Pasquale La Cerra pediatra, Giuseppina Sciacca, Ufficio Approvvigionamenti Sanità, Francesca Scarpat, Pio Zanella, p. Giovanni Belloni, Elisabetta Porro, Flavo Fenici, medico, Ettore Fasciano, Carlo Bolpin e Associazione “Esodo”, Pier Luigi Biamonti, avvocato, Daniela Turato, docente, Giovanni Giuffrida, ingegnere informatico, Giuliana Amadio, madre di famiglia, Paolo Bertagnolli, insegnante, Angela Mancuso, Fabio Ragaini, Gruppo Solidarietà, Franca Littarru, Piccola sorella di Gesù, Emilia Forconi Occorsio, insegnante, Raffaele (Lello) Agretti, poeta, Domenico Garozzo, chimico, dirigente di ricerca del CNR. Carmelina Loguercio, ordinaria di gastroenterologia, Livia Malorni, ricercatrice CNR, biologa computazionale e madre, Norma Naim, dirigente Regione Campania, Giacomo Meloni, segretario della Confederazione Sindacale Sarda-CSS, Gianfranco Maddoli, già Sindaco di Perugia, Giorgio Sartori, educatore, Maria Ricciardi Giannoni, “Pace Terra Dignità”, Nicola Sannolo, professore di medicina del lavoro, Gaetano Dammacco, Docente di diritto ecclesiastico, Pierpaolo Favia, docente. Gruppo Ecumenico di Bari, Vito Lacirignola. Editore Stilo, Franca Maria Lorusso, avvocato ecclesiastico, Corrado De Robertis, Comboniano, Pier Giorgio Taneburgo, Biblioteca Puglie frati cappuccini, Francesca Vessia, pedagogista, Daniele Morelli, insegnante,
Francesca Landini, Marco Romani, presidente dell’Opera di Nazaret, Giuseppe
Cotturri, direttore del Centro Riforme dello Stato e presidente di Cittadinanzattiva, Ivano Mariconti, insegnante di Religione, Valerio Caramassi, Giuseppe Maria Angelone, funzionario pubblico, Mario Ghidoni, sindacalista…Le motivazioni di ogni mittente firmatario sono conservate in archivio. Il gran numero di quanti hanno voluto unirsi ai mittenti di questa lettera indica come essa interpreti il pensiero e possa ispirare l’azione di tanti altri tra i Gentili intesi a promuovere un mondo diverso.
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