Cattolici in Politica
Pubblichiamo il testo dell’intervento di Paolo Matta al Convegno promosso da Demos e altre formazioni politiche di ispirazione cristiana, il 6 dicembre 2023 a La Collina, Serdiana. Presente la candidata della coalizione di centro-sinistra a presidente della Sardegna, Alessandra Todde
di Paolo Matta
A tutti noi, in presenza o attraverso il mezzo televisivo, sarà capitato di sicuro di assistere a un concerto.
E di certo, al termine dell’esecuzione, fissare la nostra attenzione al direttore, specie se di fama, al primo violino o al solista, fosse l’oboe o un flauto.
A me, per un’inclinazione naturale, ha sempre suscitato curiosità e simpatia, l’intervento (magari per il tempo di una sola battuta) di strumenti forse anche insignificanti per l’armonia complessiva del brano (penso al minuscolo triangolo) ma che, invece, mantengono intatta tutta la loro dignità e importanza.
Nulla di più vuole essere questo mio intervento nello spartito dell’incontro di oggi: una piccola battuta, spero non stonata o fuori tempo.
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A sessant’anni dal Concilio Vaticano II, moderno spartiacque della teologia e della pastorale ancora, in gran parte, inattuato forse perché mal digerito e non ancora metabolizzato, ci ritroviamo ancora a parlare (e confrontarci) di cattolici e politica, di pensiero e valori cristiani e di azione nella polis.
Parliamo, proprio alla luce del Vaticano II, di un qualcosa – la politica, appunto – definita dal Magistero pontificio (una di quelle definizioni raramente citate e ricordate) «la forma più alta di carità», sola cifra e metro di giudizio – personale e universale – una volta uscite, dalla scena di questo mondo, la fede e la speranza.
Per un credente, allora, quella alla vita politica resta “vocazione alta” assimilabile in toto a quella al sacerdozio o al matrimonio, alla vita claustrale, alla consacrazione verginale.
Un profeta dei giorni nostri, scomodo e ingombrante come tutti i profeti, don Tonino Bello, (scomparso neanche sessantenne nel 1993, consumato da una devastante forma tumorale) ebbe a scrivere: «Se uno mi chiedesse a bruciapelo di dargli una definizione di politico, non avrei esitazioni e direi: “un operatore di pace”».
Pace intesa come shalòm, non semplice assenza di conflitti, personali o tribali, ma sommatoria e sintesi di giustizia, libertà, dialogo, crescita, uguaglianza, ma soprattutto solidarietà, l’unico imperativo morale che noi credenti chiamiamo anche comunione. Pace come frutto dell’etica del volto, il vivere radicalmente il faccia a faccia con l’altro.
Pace come saper deporre l’io dalla sovranità per far posto all’altro, una deposizione che – più che fatto politico – è prima ancora un fatto di giustizia e alta moralità.
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Se la vocazione è quella di essere operatori di pace, una delle condizioni è quella della protesta, della sana indignazione, è quella della contestazione permanente dell’ideologia, se non se ne vuole fare un idolo, il bisogno di usare del partito ma sapendo andare oltre le indicazioni e le logiche del partito, quando corre il rischio di diventare anch’esso un idolo. Quelle che, sempre il vescovo prossimo beato Tonino Bello chiamava le “sporgenze dell’utopia”.
Un’altra condizione è quella della contempl-attività, scusando il bisticcio dei termini.
Contemplativi in azione.
Donne e uomini che non si lasciano distruggere la vita dalla dimensione faccendiera, non si sperperino nella dissolvenza delle manovre di contenimento o di conquista.
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Viviamo, ne siamo tutti consapevoli, tempi di aridità e di stanchezza.
Prendo lo spunto da alcuni versi di Pierpaolo Pasolini.
«Vi siete assuefatti voi,
servi della giustizia, leve della speranza
al voluto tacere, al calcolato parlare,
al denigrare senza odio,
all’assaltare senza amore,
alla brutalità della prudenza
e all’ipocrisia dell’amore.
Avete, accecati dal fare, servito il popolo
non nel suo cuore ma nella sua bandiera.
Dimentichi che deve, in ogni istituzione, sanguinare perché non torni mito,
e continuo il dolore della creazione».
Mai come oggi occorre riandare, con coraggio e radicalità,
alle fonti della vocazione politica, quella evangelica del sale e del lievito. Entrambi, sale e lievito, ben poca cosa, tutti prodotti che si trovano a buon mercato, a straccu barattu senza i quali, però, i cibi non avrebbero sapore, la pasta sarebbe inutilizzabile.
Un tempo ambita e protetta “riserva di caccia” (quando tutti andavano alla ricerca del voto cattolico, da destra e da sinistra) oggi viviamo invece l’epoca
del senza:
una scuola senza studenti,
una sanità senza medici,
una politica senza cittadini,
che rinunciano persino al diritto di voto.
E possiamo tranquillamente aggiungere anche:
una chiesa senza cristiani,
una famiglia senza figli.
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Non sembri facile e accidioso catastrofismo: è, al contrario, il quadro di riferimento del documento preparatorio della prossima Settimana sociale dei cattolici italiani, sul tema – altamente significativo e quanto mai pertinente – “Al cuore della democrazia” in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio 2024, proprio a un mese esatto dall’appuntamento elettorale europeo del 6-9 giugno, decisivo per confermare o meno lo spostamento a destra dell’asse politico continentale.
Sarà, ancora una volta, dopo Cagliari e Taranto (per citare le ultime due edizioni), un grande laboratorio di partecipazione reale che, seppure parta da questi chiari segnali di riflusso al privato, da «una stanchezza che non lascia spazio alla vita comunitaria», da una «rinuncia alla fatica delle relazioni» chiede, pur tuttavia e con forza, «occhi nuovi» per scorgere la novità delle nuove forme di aggregazione e per leggere nel cuore della democrazia.
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Scriveva Giorgio La Pira: «L’alba del terzo millennio sarà, così come fu l’alba del secondo, il tempo dei mistici e degli artisti».
“L’immaginazione al potere”, scrivevano sui muri della Sorbona gli studenti del ’68. Qualche anno dopo, Paolo VI, oggi santo della Chiesa cattolica, nell’enciclica Octogesima Adveniens affermava: «In nessun’altra epoca l’appello all’immaginazione sociale è così esplicito come nella nostra. Occorre dedicarvi sforzi di inventiva e capitali altrettanto ingenti come quelli impiegati negli armamenti o nelle imprese tecnologiche».
Mi piacerebbe concludere, allora, questa mia testimonianza con due brevissimi riferimenti ad altrettanti macro-temi che, mi pare in posizione mediaticamente marginale, stanno caratterizzando questa stagione pre-elettorale.
Insularità e difesa del creato, temi che si prestano a letture e approfondimenti non solo sociologici e politici ma anche in chiave cristiana.
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Ho seguito, devo ammettere, con tiepido entusiasmo, via via sempre più raffreddatosi, la battaglia per l’inserimento della insularità in Costituzione.
Perché, alla fine, mi è parsa, sempre di più, manovra elitaria, bandiera di pochi (al di là di una farisaica, comoda convergenza dalle larghe intese) dalle scarse o, ancora oggi, nulle ricadute istituzionali e, men che meno, sociali ed economiche.
La Sardegna, terra nobile e antica, può configurarsi oggi – nel cuore del Mediterraneo –come un’autentica “Galilea delle genti”, crocevia di lingue, culture, commerci e scambi proprio come lo era, al tempo di Gesù, la regione fra Cesarea e il lago di Genezareth.
L’insularità può diventare allora – più che leva per sempre più stanche rivendicazioni – un autentico valore aggiunto, sale e lievito evangelici di cui si parlava, nella misura in cui sapremo declinare la disponibilità di territorio e di risorse con un’oculata accoglienza, che sappia mettere insieme emergenze e criticità con il sapere, le nuove economie e le nuove frontiere dell’intelligenza.
Ruolo fondamentale può giocarlo l’Università e tutto il sistema accademico per affermarsi come Ateneo autenticamente mediterraneo, (pensate, un auspicio contenute nelle dichiarazioni programmatiche del sindaco De Magistris risalenti appena al 1985, giusto 40 anni fa), faro sodale e solidale per tutte le terre che si affacciano sul mare nostrum per affrancarlo definitivamente, si spera, da un destino di maresanto, di liquido sarcofago per decine di migliaia di disperati e sfollati.
Questa, mi sembra, possa essere una vera battaglia di valorizzazione della nostra insularità e, forse, una delle chiavi per superare l’attuale spopolamento.
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Altro tema che vede la Chiesa tutta, comunità in cammino dietro il suo pastore, è quello della difesa del creato, contenuta nella trilogia di Papa Francesco, “Laudato Sì’”, “Fratelli tutti” e, ultima, in ordine di tempo, “Laudate Deum”.
Parliamo di una sfida che non è solo dei credenti, ma di tutti gli uomini “di buona volontà”, sfida lanciata all’umanità intera, oramai da otto anni, da un uomo, Papa Francesco, icona vivente di cosa sia la politica per e dei cristiani.
Con buona pace di chi, presbiteri o laici, continua a essere più preoccupato delle forme e del culto, rinchiusi come sono nella loro torre d’avorio di devozioni e consuetudini in cui pensano, sperano, si illudono di circoscrivere la fede nel Risorto.
C’è una limpida correlazione tra san Francesco e Papa Francesco. Ai tempi del poverello d’Assisi la Chiesa era smarrita, diabolicamente invaghita della ricchezza e del potere.
Francesco e Chiara emersero come figure capaci di riportare tutti all’essenza del messaggio cristiano: compassione e comunione con l’uomo e con il creato.
Anche Papa Francesco ha sentito la chiamata a riparare la sua casa. Che, se per Francesco era la chiesetta di San Damiano, per Papa Francesco è una casa decisamente più grande, il globo intero.
E se c’è chi, come il segretario generale dell’ONU António Guterres, parla di “ebollizione globale” e non più di “riscaldamento globale”, anche la Laudate Deum riconosce che «forse, ci stiamo avvicinando a un punto di rottura, di non-ritorno».
Fa persino tenerezza questo papa nonno, la sua caparbietà a non arrendersi, che osa rompere gli schemi e venire in soccorso alla politica che non ha il coraggio di raccontare tutta la storia. Che continua a esortare: riproviamoci, aprite gli occhi!, non c’è più tempo, convertiamoci.
Perché il nostro futuro, il nostro solo futuro, è una questione di conversione, laica o religiosa poco importa, e non di pannelli solari.
Una conversione in cui fede e intelligenza (ma, forse, basterebbe anche il più basilare buon senso) finalmente si incontrano.
Grazie per la vostra pazienza.
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E’ online Rocca n. 24/2023
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