Aspettando Dubai, oltre Dubai
COP 28 a Dubai
di Cristina Moretti su Rocca 23/2023
La 28ª Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), ratificata nel summit di Rio del 1992, per accelerare le politiche mirate a limitare il riscaldamento globale, sarà ospitata a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dal 30 novembre al 12 dicembre 2023. Si tratta della prima COP che si tiene dopo la pubblicazione completa dell’ultimo aggiornamento del 6° Assessment Report dell’IPCC (AR6), il Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico il quale fornisce un’analisi dettagliata dello stato attuale della scienza climatica.
Alcuni degli argomenti chiave che verranno trattati alla COP 28 includono:
- L’attuazione del Protocollo di Parigi, che mira a mantenere l’aumento globale della temperatura ben al di sotto dei 2°C, preferibilmente a 1,5°C, rispetto ai livelli preindustriali.
- La raccolta di finanziamenti e l’accesso alle tecnologie per i Paesi in via di sviluppo al fine di aiutarli ad adattarsi e mitigare gli impatti dei cambiamenti climatici.
- La graduale eliminazione dei combustibili fossili e la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio.
- Il potenziamento della trasparenza e della responsabilità nell’affrontare i cambiamenti climatici e nella rendicontazione dei risultati.
- Il rafforzamento della cooperazione e del dialogo tra diversi attori coinvolti nella governance globale del clima, compresi la società civile, il settore privato, le comunità indigene, i giovani, le donne e le comunità locali.
La COP 28, presieduta da Ahmed al-Jaber, amministratore di Adnoc, il colosso petrolifero degli Emirati Arabi Uniti, rappresenta un momento cruciale per l’azione globale sul clima. Questo vertice precede, infatti, il primo Global Stocktake (GST), quel momento critico in cui verrà valutato il progresso verso gli obiettivi stabiliti nell’Accordo di Parigi del 2015. Inoltre, sarà un’opportunità per i Paesi di riesaminare i progressi nell’attuazione delle proprie NDC (Nationally Determined Contributions), che rappresentano le loro promesse di riduzione delle emissioni di gas serra e di adattamento agli impatti climatici.
Questa conferenza non è soltanto una riunione tecnica ma anche un evento politico di rilevanza significativa. Riflette le dinamiche di potere e gli interessi tra gli attori coinvolti nella governance globale del clima. Influisce direttamente sulla vita e sul benessere di milioni di persone in tutto il mondo, particolarmente vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici.
Inoltre, la COP 28 sarà fondamentale per ragioni molto concrete: dopo un ritardo di 3 anni, i Paesi ricchi dovrebbero finalmente stanziare i 100 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti climatici a cui si erano impegnati nel 2009. Nel frattempo, il tema delle risorse necessarie per affrontare la crisi climatica è diventato centrale nel processo negoziale. Non si tratta più solo dei 100 miliardi. Nel frattempo sono emersi anche (nuovi) fattori politici di cui si dovrà tener conto, come la rivalità tra Stati Uniti e Cina che si fa sempre più intensa su alcuni fronti, sebbene fino ad ora il clima sia stato l’unico ambito in cui Pechino e Washington hanno cercato una collaborazione proficua. Non è affatto scontato che a Dubai tale intesa continui e produca risultati concreti.
Infine, c’è una ragione pratica per cui la conferenza di Dubai è di fondamentale importanza: molti osservatori ritengono che sia l’ultima occasione per preservare l’obiettivo degli 1,5 gradi Celsius stabilito nell’Accordo di Parigi.
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Una bussola per trovare la strada
di Fiorella Farinelli
21 Ottobre 2023 su Rocca
C’è una recentissima pubblicazione francese, l’Atlante delle migrazioni [1], che occorrerebbe studiare nelle scuole e nelle università. L’‘ecoansia’ e la paura del futuro, più acute tra i più giovani, non si curano con gli psicologi, ma con la conoscenza dell’impatto sulla vita e sui movimenti delle popolazioni generate delle due grandi crisi, quella migratoria e quella climatica, e sull’individuazione di quello che si deve e si può fare perché non ci travolgano. Non c’è più tempo da perdere in rimozioni, negazionismi, polarizzazioni ideologiche, strumentalizzazioni politiche. La paura dello straniero alle porte, che sta destabilizzando politicamente Europa e Stati Uniti, non si esorcizza con chiusure e barriere. Non sapere, non voler vedere che clima, migrazioni, trend demografici diventeranno sempre più pezzi di un unico quadro in rapido movimento rende ciechi, impotenti, rabbiosi, mentre abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza e di tutta la nostra umanità per prepararci a immaginare e a costruire l’inedito di cui avremo presto bisogno. Le 74 pagine dell’Atlante, le analisi, i dati, le infografiche, le testimonianze – “Stiamo entrando nel secolo delle migrazioni climatiche” è il titolo dell’editoriale – è una bussola per trovare la strada. Geografia, storia, geopolitica, sociologia, statistica, antropologia, economia, scienze e tecnologie, lenti pluridisciplinari che rivelano un mondo molto più vasto dei piccoli che vediamo. E anche etica, i grandi interrogativi umanistici – solidarietà o guerre? uguaglianza o nuovi schiavismi? – a cui sarà è sempre più impossibile sfuggire. Se non ne saremo capaci, anche gli accorati appelli di papa Bergoglio resteranno inascoltati.
I muri
A più di 30 anni dalla caduta del più emblematico, quello di Berlino, il mondo è sempre più segnato da muri che dividono, respingono, uccidono. Le mappe di Atlante mostrano dove e quanti sono quelli già esistenti e gli altri in costruzione o reclamati, enormi e costose opere con dispositivi antintrusione antichi e moderni, droni, radar, controlli telematici e biometrici di identificazione. La scoperta è che non sono solo nel prospero Occidente (come i 3.000 chilometri del muro voluto da Trump, e poi più discretamente anche da Biden, tra USA e Messico) ma anche nei continenti da cui vengono i disperati in cerca di vite migliori: in Asia (tra India e Pakistan, e tra Cina e Birmania) e in Africa (come quelli che contornano l’Algeria o separano dai paesi limitrofi il Kenia). Il che spiega anche solo visivamente che le migrazioni che vediamo da Lampedusa sono solo la punta dell’iceberg, che il grosso dei movimenti non sono da un continente all’altro e dal Sud al Nord del mondo, ma in tante diverse direzioni all’interno dello stesso continente e molto spesso dei diversi paesi. In effetti, il 75% delle migrazioni avviene per ora all’interno dei paesi di origine, solo il 25% è extranazionale o extra continentale, e su 1 miliardo circa di popolazioni in movimento sui 7,7 mld della popolazione totale (dati 2020), solo 281 milioni sono gli spostamenti in altri paesi, e una piccola minoranza quelli che hanno puntato all’Europa. Ma sebbene l’Europa sia stata fondata proprio sull’abolizione delle frontiere, i muri ci sono anche da noi. La svolta, dopo decenni di flussi extracomunitari e di passaggi “secondari” dai luoghi di primo arrivo a quelli di elezione progressivamente assorbiti, c’è stata nel 2015. L’anno di un flusso inedito (330.000 le domande di asilo), il più importante dopo la II guerra mondiale, fatto per lo più di fuggiaschi dalle guerre in Siria, Afganistan, Iraq, in cui gli interessi geopolitici ed economici del mondo sviluppato hanno avuto notoriamente gran parte. Fu l’inizio di un’estesa destabilizzazione politica, anche se l’impatto più diretto riguardò sopratutto i paesi mediterranei. Ma se la Germania, in nome dei bisogni del suo mercato del lavoro aprì la porta a un milione di siriani, altrove e poi ovunque cominciarono altre politiche, muri compresi. La triste mappa delle barriere europee, erette per difendersi dalle migrazioni esterne o dai movimenti secondari, conta la barriera “antintrusione “ di Calais contro i passaggi da Francia a Regno Unito, quella dalla Norvegia alla Polonia che si è cominciata per iniziativa della Finlandia, il muro di Ceuta contro gli spostamenti dall’Africa in Spagna, le barriere tra Grecia e Nuova Macedonia e tra Turchia e Bulgaria. 1.700 kilometri di barriere già costruite, mentre da più paesi viene avanti la bella idea di finanziarne altre con risorse comunitarie. Funzionano? Dipende da cosa s’intende. Non bloccano i flussi, ma li complicano rendendo i viaggi più lunghi, costosi, pericolosi. L’obiettivo vero è del resto è un altro, dare soddisfazione agli elettorati spaventati dall’“invasione”. In Italia, dove non sono ipotizzabili muri lungo migliaia di km di coste, lo strumento di perdizione delle teste e dei cuori è quello, anch’esso impraticabile, del blocco navale. Ma il peggio sono finora le politiche europee di esternalizzazione della gestione delle migrazioni, con l’affidamento a suon di miliardi del compito di trattenere i migranti di là dal Mediterraneo a paesi inaffidabili, dove agiscono con la complicità dei governi mafie di sfruttatori, e anche peggio, dei migranti. Un marchio d’infamia per l’Europa “delle libertà e dei diritti” che ha ormai evidentemente paura di esserlo. Una paura in cui si sta perdendo l’anima. Costerebbero infinitamente meno, anche finanziariamente, corridoi umanitari, permessi di un anno per la ricerca del lavoro, politiche d’integrazione. A otto anni dal 2015, è evidente il fallimento di tutte le regole europee, compresi i dispositivi di redistribuzione dei migranti nei vari paesi. Nel 2023 i flussi sono ripresi con vigore (+64% rispetto al 2022), l’Europa è in cerca di una nuova regolamentazione entro l’anno elettorale 2024, ma la gran parte dei 27 è sull’orlo di una crisi di nervi. Sebbene tutti in calo demografico e in grandi difficoltà in un mercato del lavoro che non ha abbastanza lavoratori (chi pagherà, dal 2030, il welfare e le pensioni ?) sta affermandosi l’ossessione dell’”invasione “ e perfino della sostituzione etnica, anche in un paese come l’Italia dove gli immigrati non arrivano al 10% della popolazione. Il problema in verità non sono mai stati i numeri, l’Europa ha accolto con souplesse i 6 milioni di sfollati ucraini, ma sono bianchi, cristiani, coinvolti da una guerra che tocca da vicino. Gli africani sono neri, prevalentemente musulmani, e vengono da un continente in grande sviluppo demografico. Il razzismo è ormai tra noi.
Migrazioni e cambiamento climatico
Si stanno aggiungendo, e di sicuro cresceranno nei prossimi anni, i migranti per ragioni climatiche, nel 2021 sono già 32 milioni e 600mila quelli in fuga da zone dove siccità o allagamenti hanno fatto saltare i sistemi di alimentazione e di lavoro. La Banca mondiale prevede che in Asia e in Africa, nelle aree più esposte al riscaldamento globale, ci saranno nei prossimi dieci anni più di 216 milioni di costretti a lasciarle. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati calcola che nel primo decennio del 2000 gli spostamenti per questo motivo sono stati già due volte di più di quelli prodotti dalle guerre. La comunità internazionale, malgrado gli impegni ad abbassare le emissioni dei gas ad effetto serra resta lontana dalle tabelle di marcia dell’accordo di Parigi. Gli scienziati prevedono che se la situazione non cambierà la temperatura della Terra crescerà di 2,8 gradi di qui al 2100, e ogni grado di aumento metterà in movimento 1 miliardo di individui. Solo in Africa e in Asia? Niente affatto, le mappe disegnate da Atlante dei luoghi più critici comprendono anche gli USA e l’Europa, soprattutto meridionale e rivierasca (decine di migliaia sono già oggi gli evacuati dagli incendi della California). Ma nell’elenco delle cause che secondo la Convenzione di Ginevra danno diritto all’asilo le cause climatiche non ci sono, e in Europa non è di questo che si discute ma solo di confini esterni e interni e di nuove esternalizzazioni. Nel frattempo i veleni delle ossessioni xenofobe non ci fanno imparare, o ci fanno disimparare, come si fa una buona e rapida integrazione, mentre centinaia di migliaia di migranti illegali, di cui si può anche decidere l’espulsione ma che è impossibile rimandare nei paesi di provenienza in assenza di accordi con i governi, sono esposti a povertà estreme, lavoro nero e criminalità. Il gioco al massacro continua, ma a deperire è anche la nostra civiltà democratica.
Il messaggio di Atlante
Tutto ciò è puntualmente documentato da Atlante, che dà conto delle fonti ed offre una bibliografia utilissima. Ma c’è dell’altro, sintetizzato dal saggio di Gaia Vince, autorevole e pluripremiata giornalista britannica specialista in problematiche ambientali. Nel suo ultimo libro “Nomad Century”, si disegna cosa succederà quando le popolazioni delle aree oggi ancora temperate, abitate da migliaia di anni, dovranno progressivamente cercare rifugio nelle zone più fresche del pianeta (la Siberia, l’Islanda, la Groenlandia e, dall’altra parte, Patagonia e Terra del Fuoco ?) e contemporaneamente, accogliere ed integrare flussi imponenti di fuggiaschi da quelle rese assolutamente inabitabili. Nuove città da costruire in aree oggi poco o per niente abitate; modifica degli impianti, delle reti di energia, delle forniture d’acqua, dei sistemi abitativi, delle tecnologie messe a rischio da temperature su cui non sono state tarate; trasformazione degli stili di vita, dei consumi, e anche dei modelli di alimentazione perché a spostarsi, a sparire, a modificarsi saranno anche specie animali e vegetali (e di sicuro, dicono gli esperti del ramo, anche i temibili virus). Uno scenario a prima vista fantascientifico, anche per gli assetti e gli equilibri sociali perché ad essere colpiti non saranno solo i paesi e le persone più povere, ma anche quelli più ricchi e il ceto medio, e che è invece solo lungimirante. C’è solo da sperare che ci sia il tempo per adattarsi a trasformazioni tanto radicali (non a caso si parla di “transizione” ecologica) con l’aiuto delle scienze e delle tecnologie. Ma c’è una trasformazione, osserva la Vince, ancora più radicale che incombe sull’umanità del prossimo futuro, ed è il superamento della convinzione degli umani di appartenere a un territorio dai confini ben precisi e di esserne gli unici padroni. Come è già successo più volta nella storia del genere umano con le mille trasmigrazioni e i tanti rimescolamenti delle società prestatuali, il secolo nomade produrrà meticciati inediti e nuove forme di identità culturale e sociale. Se non altro perché le migrazioni bibliche richiederanno di trasformare quello che oggi è vissuto come un pericolo in risorsa fondamentale di lavoro e di vita. Ci stiamo preparando? A guardare i muri di oggi, le ossessioni xenofobe, i patetici sovranismi, il rifiuto dei migranti dove mancano milioni di lavoratori (e giovani donne disponibili a fare figli), si direbbe di no. Ma Gaia Vince e gli altri ci chiedono di saperne di più, di discuterne in modo laico, di costruire a partire dalle previsioni già certe le visioni e le pratiche che oggi ci mancano. Come dargli torto ?
[1] ATLAS DES MIGRATIONS, Courrier International, Hors-Série, Le Monde, settembre 2023
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