La Pace è solo un’utopia?

img_4715LA VIA STRETTA
di Anna Foa
Una strada di Betlemme
C’è ancora la possibilità di percorrere la via sempre più stretta che passa tra i sostenitori di Netanyahu e quelli di Hamas, di battersi ancora per la creazione accanto allo Stato di Israele di quello palestinese, per una civile convivenza tra israeliani e palestinesi, contro ogni razzismo e suprematismo, ma anche contro ogni terrorismo fondamentalista come quello di Hamas? Oppure il tempo è scaduto, scaduto nel bagno di sangue e di orrore del 7 ottobre, ma forse anche prima, nel lungo governo Netanyahu e poi nella sua alleanza con fascisti e razzisti, nel suo progetto di rosicchiare poco a poco i territori dell’Autorità palestinese e di sbarazzarsi, alla fine, degli stessi palestinesi in Israele, quelli che sono cittadini israeliani e che avrebbero dovuto esserlo, anche se così non è, a tutti gli effetti? Nel supporto senza limiti ai coloni e alle loro continue violenze senza che l’esercito o la polizia vi si opponessero? Nella pretesa, che rende i coloni ebrei tanto simili ai terroristi di Hamas, di agire in nome di Dio?

Nulla giustifica, diciamolo subito senza mezzi termini, il 7 ottobre e le sue atrocità. L’attacco di Hamas ai kibbutzim vicini al confine con Gaza e ai giovani del rave non è una risposta all’oppressione del governo contro i palestinesi, ma un attacco a qualunque possibilità di arrivare a una pace nel futuro. Se da una parte il governo di Netanyahu, di Smotrich, di Ben Gvir, ha fatto in modo di seppellire ogni possibilità di arrivare all’effettiva creazione di uno Stato palestinese, dall’altra parte Hamas mira allo stesso obiettivo, accompagnato non dall’espulsione dei palestinesi ma da quella, o dalla morte, degli ebrei. Obiettivi simili, pur da opposti punti di vista. Creare, far crescere, alimentare il più possibile l’odio, nutrire un clima in cui spararsi addosso sia non solo normale, ma lecito e legittimo. In cui non ci siano più limiti né di umanità né di pietà, dall’una e dall’altra parte.

Del 7 ottobre sappiamo più di quel che vorremmo sapere, più di quel che si può sapere senza perdere il sonno e forse anche la ragione. Ma meno sappiamo della caccia all’arabo che si sta scatenando nelle città israeliane senza che nessuno la fermi. L’ultimo episodio, almeno mentre scrivo, è quello di un contadino palestinese ucciso da un gruppo di coloni mentre curava i suoi ulivi. Un altro modo di far crescere l’odio, di impedire qualsiasi accordo con l’altro. Hamas e i coloni perseguono lo stesso obiettivo, sono simili gli uni agli altri.

In questo clima, è evidente che si riducono sempre più gli spazi per la ragione, il rispetto dell’altro, e per soluzioni non militari, o almeno non solo militari. Quel vasto movimento di opposizione al governo Netanyahu e al suo tentativo di distruggere la democrazia in Israele, sempre più nelle ultime settimane legato al richiamo all’occupazione e ai suoi disastri, è smarrito, colpito nelle sue ragioni più profonde. Il trauma è tanto più grande per quelli che si sono battuti per mesi contro il governo e che ora si vedono, sull’onda delle paure e delle reazioni suscitate dalle vicende del 7 ottobre, posti di fronte ad una scelta terribile: continuare a sostenere la possibilità di convivenza con i palestinesi e opporsi alla reazione militare israeliana a Gaza, con tutte le vittime che creerà, vittime forse collaterali, ma pur sempre vittime civili, vecchi, donne, bambini; oppure adeguarsi all’idea, se non di una vendetta, comunque di una dura necessità volta a stroncare con tutti i mezzi il regime di Hamas. Sapendo però che questa reazione militare poco servirà, anche se riuscisse oggi a distruggere tutta la direzione di Hamas. Perché questo schiererebbe la maggior parte dei palestinesi con Hamas, che risorgerebbe in breve più forte di prima. E allora? È lo stesso dilemma che tormenta la diaspora, in Europa come negli Stati Uniti. Che fare?

Credo che se si rinunciasse alla nostra umanità in nome della sicurezza si darebbe ragione ad Hamas, ci si metterebbe se non sul suo stesso piano comunque su un piano vicino al suo. Questo non vuol dire rinunciare alla sicurezza, ma ottenerla con altri mezzi, che non comportino tante “vittime collaterali”, come l’invasione di Gaza comporterebbe. Mezzi innanzitutto politici, a livello internazionale. E poi con una politica interna opposta rispetto a quella adottata dal governo: appoggiare i cittadini israeliani palestinesi, riannodare i legami e le trattative con l’Autorità Palestinese, fermare con mano ferma le violenze dei coloni. Isolare Hamas, dopo averlo per tanto tempo considerato meno pericoloso dell’OLP. Ovviamente, sono scelte che l’attuale governo non può fare e non farà. Ma sarebbe un bene che Netanyahu pagasse subito il fio delle sue tremende responsabilità in quello che succede, in quello che è successo. Come può un cittadino israeliano affidarsi ancora alla sua guida?

Utopia forse. Ora parlano le armi e il mondo, già dimenticatosi degli orrori compiuti da Hamas, si schiera dalla sua parte, considerandolo il più debole. La via diventa sempre più stretta. Ma gli ebrei della diaspora, accanto ai cittadini di Israele, devono tuttavia continuare a percorrerla fino in fondo.

Anna Foa
Analisi di Anna Foa, storica
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L’autrice Anna Foa è una storica di origine ebrea, figlia di Vittorio Foa, antifascista (8 anni di carcere) e fondatore del PSIUP e di Democrazia Proletaria.

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