Quando finisce la notte?

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17 settembre 2023
di Tomas Halík
Il 14 settembre Tomas Halík ha tenuto una relazione in occasione della XIII Assemblea generale della Federazione luterana mondiale.

Sorelle e fratelli!

Il cristianesimo è alle soglie di una nuova riforma. Non sarà la prima, né la seconda, né l’ultima. La Chiesa è, secondo le parole di sant’Agostino, “semper reformanda“. Ma, soprattutto in momenti di grandi cambiamenti e crisi nel nostro mondo, è compito profetico della Chiesa riconoscere e rispondere alla chiamata di Dio in relazione a questi segni dei tempi.

Da Lutero, grande maestro della paradossale saggezza della croce e discepolo dei grandi mistici tedeschi, dobbiamo imparare in questi tempi a essere sensibili a come la potenza di Dio si manifesta: “sub contrario” – nelle nostre crisi e debolezze. “La mia grazia ti basta“: queste parole di Cristo all’apostolo Paolo valgono anche per noi, ogni volta che siamo tentati di perdere la speranza nelle notti buie della storia.

La riforma, la trasformazione della forma, è necessaria quando la forma ostacola il contenuto, quando inibisce il dinamismo del nucleo vivo. Il nucleo del cristianesimo è il Cristo risorto e vivente, che vive nella fede, nella speranza e nell’amore degli uomini e delle donne nella Chiesa e oltre i suoi confini visibili. Questi confini devono essere ampliati e tutte le nostre espressioni esteriori di fede devono essere trasformate se ostacolano il nostro desiderio di ascoltare e comprendere la parola di Dio.

Le molte riforme e l’ecumenismo oggi

Due riforme parallele nel XVI secolo, la Riforma luterana e la Riforma cattolica, hanno arricchito, rinnovato e approfondito il cristianesimo, ma lo hanno anche diviso. Anche il XX secolo ha visto l’inizio di due grandi riforme parallele: l’espansione globale del cristianesimo pentecostale e il Concilio Vaticano II. Quest’ultimo ha segnato la transizione (esodo) della Chiesa cattolica dal cattolicesimo (chiusura confessionale, controcultura rispetto al protestantesimo e alla modernità) alla cattolicità, apertura ecumenica universale.

La più recente e attuale riforma può basarsi su entrambe queste “rivoluzioni incompiute” in corso e far fare così un passo importante verso l’unità dei cristiani: un solo corpo, un solo Spirito, una sola speranza. Ma sono profondamente convinto che riceveremo il dono dell’unità tra i cristiani se ci impegneremo in un cammino comune verso un ecumenismo ancora più ampio e profondo.

L’ecumenismo del XXI secolo deve andare molto più lontano di quello del secolo scorso. L’unità tra i cristiani non può essere l’obiettivo finale della nuova riforma; può essere solo un sottoprodotto dello sforzo di riunire l’intera famiglia umana e di assumere una responsabilità comune per il suo ambiente, l’intera creazione.

La nuova riforma deve rafforzare la coscienza della corresponsabilità cristiana per l’intero “corpo” di cui facciamo parte attraverso il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio: per l’intera famiglia umana e per il nostro mondo comune. Dobbiamo chiederci non solo cosa “lo Spirito dice alle Chiese oggi”, ma anche come “lo Spirito, che soffia dove vuole” opera al di là delle Chiese. Dobbiamo avere il coraggio di auto-trascendere kenoticamente le forme e i confini attuali del cristianesimo.

È necessario comprendere e accettare più profondamente quella che è la missione e l’essenza della Chiesa: essere un segno efficace (signum efficiens) dell’unità a cui tutta l’umanità è chiamata, essere uno strumento di riconciliazione e di guarigione delle ferite del nostro mondo comune. Lottiamo per l’unità non per rendere il cristianesimo più potente e influente in questo mondo, ma per renderlo più credibile: “perché il mondo creda”.

Dobbiamo comunicare il messaggio che ci è stato affidato in modo credibile, comprensibile e convincente. Le tensioni tra i cristiani minano questa credibilità.

San Paolo chiama i cristiani non all’uniformità, ma al rispetto reciproco e all’armonia tra le varie parti del corpo, insostituibili proprio per la loro diversità e unicità. È questa unità dei cristiani, l’unità nella diversità, che deve essere l’inizio, la fonte e l’esempio della convivenza all’interno dell’intera famiglia umana, un modo di condivisione, di compatibilità reciproca dei nostri doni, esperienze e prospettive.

La prima riforma è nata dal coraggio di San Paolo di condurre il cristianesimo nascente fuori dai confini ristretti di una delle sette ebraiche nell’ecumene più ampia del mondo di allora. Egli lo presentò come un’offerta universale, che trascendeva i confini religiosi, culturali, sociali e di genere: non importa più se si è ebrei o gentili, uomini o donne, liberi o schiavi – siamo tutti nuove creature in Cristo.

Anche oggi il cristianesimo si trova di fronte alla necessità di trascendere i confini mentali e istituzionali, confessionali, culturali e sociali esistenti per compiere la sua missione universale. Dobbiamo essere più aperti e ricettivi alla chiamata di Dio, nascosta nelle “gioie e speranze, nei dolori e nelle angosce” (GS 1), delle persone con cui condividiamo l’oikumene, il mondo comune.

Trasformazione del mondo

Contribuiremo a far sì che la nostra testimonianza aiuti a trasformare questo mondo in una “civitas ecumenica”, o saremo complici, con la nostra indifferenza e il nostro egocentrismo, del tragico scontro di civiltà? Le comunità di fede diventeranno parte della soluzione alle difficoltà che ci affliggono oggi o saranno piuttosto parte del problema? La storia del mondo e della Chiesa non è né un progresso a senso unico né un declino permanente e un’alienazione da un passato idealizzato, ma un dramma aperto, una lotta costante tra la grazia e il peccato, la fede e l’incredulità, combattuta in ogni cuore umano.

Martin Lutero insegnava che ogni cristiano è “simul justus et pecator“. Aggiungiamo che molte persone nel nostro mondo oggi sono “simul fidelis et infidelis” – un’ermeneutica della fiducia si intreccia in loro con un’ermeneutica dello scetticismo e del dubbio. Se riusciamo a trasformare il conflitto tra fede e dubbio nelle nostre menti e nei nostri cuori in un dialogo onesto, questo aiuterà la maturità della nostra fede e potrà contribuire al dialogo tra credenti e non credenti che vivono insieme in una società pluralistica. Una fede senza domande critiche può portare al fondamentalismo, al bigottismo e al fanatismo. Un dubbio incapace di dubitare di se stesso può portare al cinismo. Fede e pensiero critico hanno bisogno l’uno dell’altro.

Una fede matura può convivere con le domande aperte del tempo e resistere alla tentazione delle risposte troppo semplici offerte dalle pericolose ideologie contemporanee.

Nel Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica si è impegnata a cercare l’unità tra i cristiani, a dialogare con i credenti di altre religioni e con le persone senza fede religiosa, e a essere solidale con tutti gli uomini, specialmente con i poveri e i bisognosi. Si è professata una “communio viatorum“, una comunità di pellegrini che sono lontani dalla meta escatologica della piena unità con Cristo e in Cristo.

La Chiesa sulla terra non è la “ecclesia triumphans“, la Chiesa vittoriosa e perfetta dei santi in cielo. Chi considera definitiva e perfetta qualsiasi forma di Chiesa e la sua teologia nel mezzo della storia, chi confonde la Chiesa militante terrena (ecclesia militans – la cui lotta principale è con i suoi peccati) con la vittoriosa ecclesia triumphans, commette l’eresia del trionfalismo, il peccato di idolatria.

Ai critici della religione come Feuerbach, Marx e Freud dobbiamo il riconoscimento che molte delle nostre idee su Dio erano solo proiezioni delle nostre paure, dei nostri desideri e delle nostre condizioni sociali. A Friedrich Nietzsche dobbiamo il riconoscimento che questo Dio della nostra immaginazione è morto. A Dietrich Boenhoffer dobbiamo la consapevolezza che la nostra fede può vivere senza questo Dio delle nostre illusioni.

Bonhoeffer, discepolo di Eckhart e di Martin Lutero, ci ha insegnato che l’unica autentica trascendenza cristiana è l’auto-trascendenza verso gli altri nella solidarietà e nell’amore sacrificale. Oggi, non solo i singoli cristiani, ma anche le nostre Chiese, l’intera cristianità, sono chiamati a questa auto-trascendenza (kenosi).

Ma se il cristianesimo “esce da se stesso”, non perderà la sua identità? Ai tempi di Martin Lutero la gente era presa dalla paura per la salvezza della propria anima. Nel nostro tempo, persone, nazioni, comunità religiose e Chiese sono tormentate dalla paura di perdere la propria identità. Forse il concetto di “identità” non è troppo lontano da quello che la parola “anima” esprimeva in passato: la cosa più preziosa che abbiamo dentro e che ci rende ciò che siamo. “Che cosa si può dare in cambio della propria vita (della propria anima)?” (Mc 8,37).

Identità e salvezza

I populisti, i nazionalisti e i fondamentalisti religiosi sfruttano questa paura per il loro potere e i loro interessi economici. La sfruttano nello stesso modo in cui veniva sfruttata la paura per la salvezza della propria anima quando si vendevano le indulgenze. Offrono come sostituto dell’anima vari tipi di identità collettiva sotto forma di nazionalismo, settarismo politico o religioso. Inoltre, abusano dei simboli e della retorica cristiana; fanno del cristianesimo un’ideologia politica identitaria.

Martin Lutero e i mistici della Riforma cattolica, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce e Ignazio di Loyola, hanno riconosciuto la via della salvezza nella fede, nel nostro rapporto personale con Cristo e nel dono di sé di Cristo a me (pro me). Ciò che costituisce la base dell’identità cristiana e che per noi cristiani è anche la chiave ermeneutica per comprendere la storia, compresi i segni dei tempi odierni, è l’evento pasquale che è entrato nella storia e continua a trasformarla. Sono convinto che la teologia della croce di Lutero debba essere rinnovata, ripensata e approfondita oggi.

Attraverso le crisi globali cumulative del nostro mondo – il cambiamento climatico, la distruzione dell’ambiente, le pandemie, la crescita della povertà, della guerra e del terrorismo – partecipiamo alla passio continua, il mistero continuo della croce. “Dove si è moltiplicato il peccato, si è moltiplicata anche la grazia”, scrive san Paolo. La croce è la via della resurrezione.

La risurrezione non è un lieto fine a buon mercato; la fede nella risurrezione non è una grazia a buon mercato. Gesù risorto si presentò in una forma così mutata che all’inizio persino le persone più vicine a lui non potevano riconoscerlo e per molto tempo dubitarono che fosse lui. Cristo viene anche a noi in molte forme nuove, sorprendenti e ambivalenti. Viene a noi come agli apostoli dopo la risurrezione.

Viene tra sconosciuti, come sulla strada di Emmaus; lo riconosciamo solo dopo lo spezzare del pane. Viene attraverso le porte chiuse della nostra paura, si “legittima” con le sue ferite. Quando ignoriamo le ferite del nostro mondo, queste ferite di Cristo nel mondo presente, non abbiamo il diritto di dire con l’apostolo Tommaso “mio Signore e mio Dio”.

La fede nella risurrezione include l’avventura di cercare il Cristo nascosto e trasfigurato. Conosciamo il vero Cristo, la vera Chiesa e la vera fede essendo feriti. Un Cristo ferito, una Chiesa ferita e una fede ferita portano nel mondo il dono dello Spirito, della pace e del perdono.

La fine delle nostre rappresentazioni del cristianesimo

Jorge Maria Bergolio, in un’omelia prima della sua elezione a vescovo di Roma, ha citato le parole dell’Apocalisse: Gesù sta alla porta e bussa. E ha aggiunto: oggi Gesù bussa dall’altra parte, dall’interno della Chiesa – vuole uscire e noi dobbiamo seguirlo. Vuole andare prima di tutto da tutti gli emarginati, da coloro che sono ai margini della società e della Chiesa, dai poveri, dagli sfruttati, va dove la gente soffre. La Chiesa deve essere un ospedale da campo dove le ferite – fisiche, sociali, psicologiche e spirituali – vengono medicate e curate.

Nel bel mezzo della pandemia e della chiusura, ho scritto un libro, Il tempo delle chiese vuote. Ho visto questa esperienza come un segno di avvertimento dei tempi: se il cristianesimo non subisce una trasformazione radicale, le chiese, i monasteri e i seminari chiusi e vuoti continueranno a moltiplicarsi. Le chiese vuote e chiuse a Pasqua, durante la pandemia di coronavirus, ricordavano la tomba vuota di Gesù. “Queste chiese non sono forse solo tombe e lapidi di un Dio morto?”. Si chiedeva Friedrich Nietzsche nel suo famoso testo sulla morte di Dio.

Nella nostra parte del mondo, molte chiese che un tempo erano piene ora sono vuote. Nei nostri Paesi – sì, anche in Paesi tradizionalmente “cristiani” come la Polonia – il numero delle persone che rispondono “nessuna” quando viene chiesto loro quale sia la loro identità religiosa sta crescendo rapidamente. In molti Paesi, il numero di persone che si identificano pienamente con le Chiese e vi partecipano attivamente sta diminuendo. Il numero di ex-cattolici ed ex-protestanti è in crescita.

Tra i “non” – coloro che non aderiscono a nessuna religione – ci sono molti che sono rimasti delusi, spesso scandalizzati, dallo stato delle loro Chiese. Tra questi c’è chi ha cercato nelle Chiese una risposta alle proprie domande esistenziali profonde, ma ha sentito solo frasi religiose stereotipate. Ci sono gli “apatici” che sono indifferenti alla fede perché non hanno mai incontrato un cristianesimo che parla un linguaggio che possono capire e credere.

Tra loro ci sono quelli che sono stati educati alla fede nell’infanzia, ma quando sono cresciuti oltre la forma infantile della fede, nessuno ha offerto loro una fede matura per persone adulte. Quando Gesù ci dà come esempio dei bambini, non ci chiama a una religiosità infantile, ma piuttosto a essere aperti, spontanei, desiderosi, disinibiti e anche capaci di crescere e imparare come bambini.

Tuttavia, in molte parti del mondo – a differenza dell’Europa e del Nord America – il numero di nuovi cristiani è in costante crescita. Dovremmo rallegrarcene. Qui, in Europa, dovremmo ascoltare di più e capire quali sono le novità che l’esperienza dei cristiani in Africa e in Asia apporta alla teologia, alla liturgia e alla spiritualità. Tuttavia, non possiamo ignorare la domanda se le Chiese che oggi sono piene dell’entusiasmo del cristianesimo giovane non andranno incontro in futuro a un destino simile a quello del cristianesimo dell’Occidente e del Nord del nostro pianeta. La parabola del seminatore di Gesù parla anche di aree in cui la semina nasce rapidamente ma poi muore perché non ha attecchito. In base alla nostra esperienza passata, dobbiamo ricordare che il numero di battesimi e di chiese piene è ben lungi dall’essere un criterio affidabile e l’unico segno necessario per garantire la continua vitalità della Chiesa.

La missione principale della Chiesa è l’evangelizzazione. Un’evangelizzazione fruttuosa ed efficace consiste nell’inculturazione – nell’incarnazione creativa della fede nella cultura viva, nel modo in cui la gente pensa e vive. La prossima riforma della Chiesa è una risposta a un processo a lungo termine che è l’opposto dell’evangelizzazione: il processo di ex-culturazione del cristianesimo in gran parte del nostro mondo.

Possiamo parlare di ex-culturazione quando la fede cristiana, o la sua forma esterna, la Chiesa e i suoi modi di espressione, perdono credibilità, chiarezza e fecondità. Una certa forma di Chiesa diventa allora un chicco che non muore da solo e quindi non produce una nuova pianta. Rimane inalterata e muore senza alcun beneficio.

Andare nella Galilea delle genti

Ma torniamo al racconto della Pasqua. Coloro che si avvicinano alla “tomba vuota” non devono cadere nel dolore e nella confusione. Non dobbiamo lamentarci del cristianesimo morto del passato. Non dobbiamo essere sordi alla voce che ci chiede: “Perché cercate il vivo tra i morti? Andate in Galilea, là lo vedrete!”. Il compito dei discepoli di Gesù, a partire dal mattino di Pasqua, è quello di cercare il Cristo vivo, ma spesso irriconoscibilmente cambiato, di cercare la “Galilea” dove possiamo incontrarlo oggi. Questa Galilea di oggi non è forse proprio il mondo dei “non”, delle persone che vivono al di fuori dei confini della religione? Non è forse soprattutto a loro che deve essere rivolta la nostra missione?

Gli sforzi missionari del cristianesimo di oggi devono essere rivolti innanzitutto all’interno della Chiesa. Lì troviamo molte “valli di ossa secche” a cui deve essere annunciata la parola del Signore. Solo dopo possiamo dirigerci verso il vasto mondo dei “non”, al di là dei confini visibili delle Chiese e delle comunità religiose.

Ma prima dobbiamo capire bene questo mondo. Sarebbe un equivoco considerare coloro che “non camminano con noi” come atei o non credenti. E dobbiamo distinguere bene anche tra gli atei. Se molti “atei” rifiutano un certo tipo di teismo, di teorie umane su Dio, non significa necessariamente che siano chiusi al mistero che designiamo con la parola Dio. Anche noi, sulle orme di Maestro Eckhart, Dietrich Bonhoeffer e Paul Tillich, dobbiamo scoprire e proclamare un “Dio oltre il Dio del teismo”.

Parte della “nuova riforma”, della nuova evangelizzazione e dell’ecumenismo del XXI secolo è anche una trasformazione del modo di fare missione. Non possiamo avvicinarci agli altri come arroganti possessori della verità. Solo Gesù può dire “io sono la verità”. Noi non siamo Gesù; siamo discepoli imperfetti di Gesù, in un cammino di discepolato in cui lo Spirito ci porta gradualmente alla pienezza della verità. La meta di questo cammino, la pienezza della verità, è una meta escatologica. Ora vediamo solo in parte, come in uno specchio, come in un puzzle. Questa consapevolezza dei limiti delle nostre prospettive individuali e di gruppo dovrebbe portarci all’umiltà e al riconoscimento che per espandere questi limiti abbiamo bisogno di ricettività e rispetto per l’esperienza degli altri.

L’obiettivo della missione non è quello di reclutare nuovi membri della chiesa per comprimerli nei confini mentali e istituzionali esistenti delle nostre Chiese, ma di andare oltre quei confini e insieme a loro, nel rispetto reciproco e nel dialogo che si arricchisce a vicenda, fare il passo successivo nel viaggio verso un Cristo che è più grande delle nostre idee su di lui.

Vi incontrate in una parte del mondo che ha attraversato la notte buia della persecuzione comunista. L’oppressione comunista ha assunto forme molto diverse nei vari Paesi dell’Europa centrale e orientale ed è cambiata nel corso degli anni. La grande autorità morale di papa Giovanni Paolo II, ex arcivescovo di Cracovia, ha contribuito in modo significativo a far sì che la solidarietà dei lavoratori, degli intellettuali e della Chiesa avviasse qui in Polonia il processo di democratizzazione. La solidarietà dei lavoratori, degli intellettuali e della Chiesa ha dato il via qui in Polonia al crollo della dittatura comunista in tutta Europa, che è culminato nella rivoluzione non violenta del 1989.

La transizione dal comunismo alla democrazia nella maggior parte dell’Europa di allora (con l’eccezione della Romania) è stata incruenta, ma non facile. La democrazia non è solo un certo regime politico, ma soprattutto una certa cultura delle relazioni interpersonali. La democrazia non può essere instaurata e sostenuta semplicemente cambiando le condizioni politiche ed economiche; la democrazia presuppone un certo clima morale e spirituale.

Il crollo del comunismo non è stato un passaggio immediato alla terra promessa, ma l’inizio di un lungo esodo tuttora in corso, durante il quale i cristiani dei Paesi post-comunisti sono stati sottoposti a molte prove e tentazioni. Dopo un lungo periodo di dittatura, la società è sempre ferita, malata – richiede un processo terapeutico. Qui c’è un posto importante per la Chiesa; i cristiani dovrebbero essere esperti nel processo di riconciliazione. Le Chiese dei Paesi che non hanno ancora visto la caduta del comunismo dovrebbero essere preparate a questo. Il processo di riconciliazione è spesso difficile – la colpa deve essere nominata e confessata, deve essere adottato un percorso di pentimento, di guarigione.

In molti Paesi post-comunisti questo processo è stato trascurato. Molti degli ultimi comunisti sono diventati i primi capitalisti. Alcuni Paesi post-comunisti sono governati da populisti e oligarchi – ex élite comuniste, le uniche che dopo la caduta del comunismo avevano un capitale di denaro, contatti influenti e informazioni. Il “capitalismo selvaggio” nei Paesi post-comunisti porta a gravi problemi sociali. In Russia c’è una crisi economica, morale e demografica. Il regime dittatoriale di Putin non ha nulla da offrire alla popolazione se non la droga del messianismo nazionale.

L’apocalisse della guerra identitaria

Dopo il crollo del comunismo, c’erano visioni ottimistiche sull’arrivo del lieto fine della storia, la vittoria globale della libertà e della democrazia. Oggi, non lontano da dove ci incontriamo, si sta svolgendo un’apocalisse che pone la minaccia reale di una ben diversa “fine della storia”, la guerra nucleare. L’aggressione della Russia all’Ucraina non è solo una delle sue guerre locali; il tentativo di genocidio del popolo ucraino fa parte del piano russo di ristabilire il suo impero in espansione. Il motivo principale dell’invasione russa è stato il timore del regime russo che l’esempio delle “rivoluzioni colorate” democratizzanti nelle ex-repubbliche sovietiche risvegliasse la società civile e il desiderio di democrazia nella stessa Russia.

Ciò che sta accadendo ora in Ucraina ricorda fortemente la strategia di cui le nazioni di questa parte del mondo hanno fatto esperienza nel secolo scorso: prima occupare i territori con minoranze linguistiche, e se il mondo democratico rimane in silenzio e cede all’illusione che si possano fare accordi e compromessi con i dittatori, l’espansione continuerà.

Se l’Occidente dovesse tradire l’Ucraina e cedere alle richieste di Mosca, come fece nel caso della Cecoslovacchia alle soglie della Seconda guerra mondiale, non salverebbe la pace, ma incoraggerebbe dittatori e aggressori non solo al Cremlino ma in tutto il mondo. Amare il nemico significa, nel caso di un aggressore, impedirgli di fare il male – insegna Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti; in altre parole, togliergli di mano l’arma del delitto.

Vladimir Putin usa cinicamente il messianismo religioso russo e i corrotti leader della Chiesa ortodossa russa per promuovere i suoi obiettivi. Anche la comunità ecumenica cristiana globale non può essere cieca e indifferente a questo scandalo.

Quando la Chiesa entra in “partnership registrate” con il potere politico, specialmente con i partiti nazionalisti e populisti, paga sempre un prezzo pesante. Quando la Chiesa si lascia corrompere da un regime politico, perde innanzitutto la sua gioventù e il suo popolo educato al pensiero critico; la nostalgia per il passato, per il matrimonio tra Chiesa e Stato, priva la Chiesa del suo futuro. Quando la Chiesa entra in “guerre culturali” con il suo ambiente secolare, ne esce sempre sconfitta e deformata; le guerre culturali approfondiscono il processo di ex-culturazione e secolarizzazione.

L’alternativa alle guerre culturali non è il conformismo e l’accomodamento a buon mercato, ma una cultura del discernimento spirituale. Questo discernimento riguarda la distinzione tra lo “Zeitgeist“, che è il linguaggio di “questo mondo”, e i “segni dei tempi”, che sono il linguaggio di Dio negli eventi del mondo, della società e della cultura. Ai tempi del comunismo, la Chiesa aveva bisogno soprattutto della virtù della fortezza per difendersi. Oggi ha più bisogno della virtù della saggezza, l’arte del discernimento spirituale.

Francesco e la sinodalità

In un periodo di devastanti guerre religiose nel XVII secolo, il teologo protestante ceco Giovanni Amos Comenio, vescovo di “Unitas fratrum“, nel suo scritto De rerum humanarum emendatione consultatio catholica, avanzava un invito a un percorso comune di apprendimento reciproco, condivisione, rinnovamento, riflessione e assunzione di responsabilità. Analogamente a quanto insegnava allora il vescovo evangelico di Boemia, il vescovo di Roma proclama oggi il suo appello alla sinodalità e a tendere all’unità dell’intera famiglia umana, di cui scrive nell’enciclica Fratelli tutti.

Il programma di riforma sinodale lanciato da papa Francesco può avere un significato molto più ampio e profondo della necessaria riforma della Chiesa cattolica. Sono convinto che qui ci sia il possibile inizio di una nuova riforma del cristianesimo che si baserà sia sul Concilio Vaticano II sia sulla rivitalizzazione pentecostale del cristianesimo globale. La riforma della Chiesa deve andare molto più in profondità della riforma delle sue istituzioni.

La fecondità della riforma e la futura vitalità del cristianesimo dipendono dalla riscoperta del rapporto con le dimensioni spirituali ed esistenziali della fede. Una spiritualità cristiana rinnovata e compresa può dare un contributo significativo alla cultura spirituale dell’umanità di oggi, anche ben oltre le Chiese.

Quando Francesco d’Assisi sentì in una visione Dio che lo chiamava per tre volte: “Francesco, vai a riparare la mia Chiesa che, come vedi, è tutta in rovina!” – all’inizio capì che Dio intendeva riparare la piccola cappella in rovina di San Damiano ad Assisi, cosa che fece. Solo in seguito si rese conto di essere stato chiamato a contribuire alla ricostruzione radicale dell’intera Chiesa romana in rovina. Forse anche papa Francesco e l’intera Chiesa cattolica si stanno rendendo conto solo gradualmente che il rinnovamento sinodale è un processo che non riguarda esclusivamente la Chiesa cattolica.

Si tratta di molto di più che la trasformazione della mentalità clericale e delle rigide istituzioni della Chiesa cattolica, tormentate da scandali e lotte interne, in una rete dinamica di comunicazione reciproca. La sinodalità richiede solidarietà, cooperazione, compatibilità e comunione ecumenica nel senso più ampio e profondo del termine. È più dell’unità tra i cristiani o dell’approfondimento del dialogo interreligioso.

Il processo di globalizzazione, la coalescenza del mondo, è in grave crisi nel nostro tempo. I suoi molti lati oscuri sono stati rivelati: l’aumento della disuguaglianza economica, la globalizzazione del terrorismo, le malattie contagiose e le ideologie infettive dell’etno-nazionalismo, del populismo e delle teorie della cospirazione. Ma i grandi problemi dell’umanità non possono essere risolti solo a livello nazionale. L’interconnessione globale a livello di economia, trasporti e informazione non creerà da sola una oikumene, una casa comune. Nessuna ideologia, nemmeno quella cristiana, il cristianesimo come ideologia, può sostituire la dimensione spirituale mancante nel processo di globalizzazione.

Quando inizia il giorno?

Un solo corpo, un solo Spirito, una sola speranza. Non è solo con tutti i cristiani, ma con tutti gli esseri umani e tutte le forme di vita sulla terra che formiamo un unico corpo. Lo Spirito di Dio, lo Spiritus Creator, crea, anima e trasforma costantemente questo corpo, sinfonia incompiuta della creazione. Vive e opera attraverso la nostra speranza, la nostra fede e il nostro amore; trascende e abbatte costantemente tutti i muri di confine che abbiamo eretto tra noi e dentro di noi.

Per concludere, vorrei citare una storia chassidica. Il rabbino Pinchas fece ai suoi allievi una domanda apparentemente semplice su quando finisce la notte e inizia il giorno. “È quando c’è abbastanza luce per distinguere un cane da una pecora”, suggerì uno di loro. “È quando possiamo distinguere un gelso da un fico”, argomentò un altro. “È in quel momento”, rispose Rabbi Pinchas, “che possiamo riconoscere nel volto di qualsiasi essere umano il nostro fratello. Finché non riusciamo a farlo, è ancora notte”.

Cari fratelli, in alcune parti del nostro mondo, in alcune parti delle nostre comunità di fede e delle nostre Chiese, in alcune parti dei nostri cuori, è ancora notte; regna l’oscurità del pregiudizio, della paura e dell’odio. L’obiettivo della “nuova riforma” è trasformare e unire il cristianesimo nella lotta per l’unità della famiglia umana. È un obiettivo escatologico, ma nel nostro tempo abbiamo un passo importante da compiere qui e ora. Consiste nel riconoscere e nel prendere atto che tutte le persone sono nostri fratelli, che hanno uguale diritto al riconoscimento della loro dignità, alla nostra accettazione nel rispetto, nell’amore e nella solidarietà. Persone, nazioni, culture e Chiese sono alla ricerca della loro identità e di una nuova speranza in un mondo distrutto.

La vostra Assemblea si intitola: “Un solo corpo, un solo spirito, una sola speranza”. Sì, questa è la nostra speranza che vogliamo condividere con tutti.

La nostra speranza risiede nel fatto che lo Spirito di Dio sta continuamente unendo l’umanità in un unico corpo. San Paolo ha scritto della fede che agisce nell’amore. Siamo testimoni di una fede che risveglia continuamente la speranza attraverso l’amore. Siamo testimoni della continua resurrezione del Datore di speranza. Desidero che la vostra Assemblea sia un segno convincente di speranza che la notte sta passando e il giorno si avvicina.

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