Quale Italia, quale Sud, quale Sardegna?
Sud e Nord, la Costituzione vangelo di una fede laica
Massimo Villone su il manifesto
[Pubblicato 8 giorni fa - Edizione del 20 luglio 2023]
SVIMEZ 2023. Il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008
Negli ultimi giorni due voci si sono segnalate con forza nella cacofonia della politica italiana. Una è lo Svimez, che ha presentato le Anticipazioni sul Rapporto 2023. L’altra è quella di don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli, che ha rivolto una dura critica all’autonomia differenziata.
Tema principale in entrambi i casi la faglia tra il Sud e il resto del paese.Per la Svimez il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008.
Dopo quell’anno il Sud non ha mai del tutto recuperato, rimanendo tuttora a -7 punti di PIL. Così, vediamo al Sud una inflazione più alta, una perdita di potere di acquisto dei salari maggiore, una più alta quota di lavoro precario e a termine, nonché di salari al di sotto dei 9€ all’ora tanto osteggiati dalla destra (25% al Sud, circa il 16% al Centro-Nord). Al Sud il termine lavoro povero non è un’espressione letteraria, ma la condizione di vita di milioni.
PREOCCUPANO, POI, le previsioni Svimez fondate su dati settoriali, come ad esempio l’industria che nel Sud contribuisce alla crescita assai meno che nel Centro-Nord (10% vs 25%), o i minori investimenti in macchine e attrezzature. Questi elementi suggeriscono che non si rafforza la capacità produttiva, in ipotesi essenziale per il rilancio del Sud come secondo motore del paese. Preoccupano, altresì, i dati sugli investimenti in materia di istruzione che non risultano mirati ai territori con maggiori carenze e bisogni. Uno scenario coronato dalla terribile cifra di 460000 laureati emigrati dal Sud verso il Centro-Nord nell’arco di venti anni.
NELLE ANTICIPAZIONI Svimez le parole autonomia differenziata non compaiono. Ma non sono invero necessarie, perché la posizione critica della Svimez sul tema è nota, è stata in molteplici occasioni manifestata dal presidente Adriano Giannola e dal direttore Luca Bianchi, ed è da ultimo ribadita nella memoria per l’audizione in Senato (che si legge sulla pagina web della I Commissione). Anche per la Chiesa potremmo dire che la critica all’autonomia differenziata non è una prima assoluta. Ma certo le parole dell’Arcivescovo Battaglia segnano un salto di qualità per chiarezza di posizione e forza argomentativa.
Don Battaglia non parla solo in termini di fede e carità. Critica duramente la scarsa tensione morale di una parte della politica, che ha indebolito le istituzioni e sprecato risorse pubbliche. Censura una voglia di separatezza che viene dall’idea di fare “tante piccole Italie”, attraverso riforme costituzionali rabberciate. Attacca direttamente l’autonomia differenziata. Parole – argomenta – che prese singolarmente recano un messaggio positivo. Ma in perversa sinergia spaccano il paese ed accrescono la povertà che già colpisce milioni. Contesta persino la tesi – cara ai fan – dell’autonomia differenziata come attuazione della Costituzione, che invece persegue l’eguaglianza, impegnando lo stato a realizzarla.
CONDIVIDIAMO. Se le parole di Don Battaglia indicano che la Chiesa come istituzione scende esplicitamente in campo contro l’autonomia differenziata siamo di fronte a una importante e positiva novità. Non sembra dubbio che questa dovrebbe essere la posizione della Chiesa di Papa Francesco. Ma esiste pur sempre una parte della Chiesa che potrebbe dissentire. Per questo sarebbero opportune iniziative utili a dimostrare che la posizione di Don Battaglia non è isolata.
Inoltre, è in atto una discussione sulla collocazione politica dei cattolici. Il contrasto all’autonomia differenziata meriterebbe un posto di onore in un manifesto o una carta di valori. Nell’esperienza quotidiana capita di incontrare qualcuno che frequenta con devozione formale i sacramenti mentre si nega alla mano che chiede aiuto. Don Battaglia ammonisce che non è “politicismo” se la Chiesa prende parte per gli ultimi e i bisognosi. E conclude che oggi “questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud …”. È la stessa conclusione cui deve arrivare la politica, con le proprie ragioni.
CARO DON BATTAGLIA, un passaggio ci è molto piaciuto nella sua riflessione. Laddove racconta che ha scritto avendo per caso davanti uno accanto all’altro il Vangelo e la Costituzione, le cui parole “stanno bene insieme”. Non potrebbe essere diversamente. Cos’è infine la Costituzione se non il vangelo di una fede laica?
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Riforme. «Autonomia differenziata, da Vangelo e Costituzione i criteri per un giudizio»
Mimmo Battaglia su Avvenire sabato 15 luglio 2023*
L’arcivescovo di Napoli interviene nel dibattito sulla discussa riforma che incide sulla struttura dello Stato e, ancor più, sullo spirito e i valori che lo animano, sorretti dall’idea di persona
C’è un’aria strana che si muove nel cielo. Da troppo tempo, ormai. Non si comprende bene se è di vento, e di che vento. O di temporale che minaccia. È certa, però, la direzione in cui essa si muove. È quella della povera gente, resa ogni giorno più povera da una certa politica che non la considera, se non per la convenienza, magari elettorale. La gente, resa più distante dalle istituzioni, che si vorrebbero asservite al potere e questo a pochi uomini, e assai più poche donne, che lo detengono. La gente, trascurata anche dalla cultura che, smarrendo la sua vocazione originaria, si volta dall’altra parte e si ubriaca di parole che essa stessa ha consumato. La gente, che non riesce più a sentirsi popolo, perché le antiche bandiere sono ferme e gli inni gloriosi muti, davanti a una falsa idea di nazione che scambia la patria per un campo di battaglia, dove una parte si contrapponga a un’altra. E dove ciascuno è straniero se viene da lontano, da una terra che non li caccia, la propria. E da un’altra, di là dal mare, che non li vuole.
L’Italia, il nostro bel Paese, ricco di storia buona e di cultura bella, di paesaggi ineguagliabili e di ricchezze artistiche e culturali incommensurabili, è sotto quel cielo, a respirare quest’aria strana. E io, nell’umiltà della mia fatica pastorale, in una terra di confine sono preoccupato seppur non rassegnato. Terra di confine, è la mia Napoli. Territoriale, tra il Sud e il Nord, in tutte le accezioni considerabili. Di confine tra un Sud che non parte e un Nord che non viene. E dove Sud è l’arretratezza, con tutto il carico di dolori e di errori, e il Nord è lo sviluppo, con tutto il peso delle sue contraddizioni. Terra di confine, è la mia Napoli, tra un Meridione che si modernizza e cresce, come essa sta facendo da non pochi anni (pur con le ferite che le squarciano il petto e sanguinano nelle carni di tanti ragazzi) e la mia Calabria, la regione da cui provengo, che resta, nonostante i buoni sforzi di parti della politica e delle istituzioni, ferma al palo dell’antico abbandono e delle moderne speculazioni. Su cui, pesante come un macigno, grava la scarsa tensione morale di parte della politica che ha indebolito le istituzioni e sprecato in un tempo lungo ingenti risorse pubbliche.
E non è la sola a essere in queste situazioni. All’interno di questo quadro, il nostro Paese, che dalla grave pandemia è uscito impoverito e diviso, rischia di essere trascinato in un campo in cui l’egoismo che ci prende sempre di più si codifica in scelte politiche nette. Scelte che alimentano quel desiderio di separatezza di una parte del territorio da tutto il resto del Paese. Un desiderio, questo, che ha un’origine lontana. In quel tempo in cui si pensava a una diversa articolazione dello Stato, di fatto divisiva e separatista, mascherata da decentramento e partecipazione dal basso, quando invece altro non era che il tentativo di fare dell’Italia, nazione grande e prestigiosa, tante piccole italie, lontanissime dalla più grande e potente che si sarebbe agganciata all’Europa. Quel tentativo, di cui non è responsabile solo una parte della rappresentanza parlamentare, si confuse in modifiche costituzionali rabberciate, i cui danni si vedono a occhio nudo ancora adesso. Oggi quella cultura della divisione, quel sentimento di egoismo che si è progressivamente trasformato in una sorta di indifferenza collettiva nei confronti della sorte dell’altro, sta prendendo sempre più la forma di un’altra legge possente. Di un altro colpo, cioè, all’impalcatura democratica dello Stato fondato sulla partecipazione di tutti (territori e cittadini e istituzioni e culture, nessuno escluso) alla costruzione della ricchezza del Paese.
Lo chiamano in più modi, questo disegno di legge, che, varato dal Governo, ha già fatto un gran pezzo di strada parlamentare. Lo chiamano in tanti modi, ripeto, alcuni leggeri ed eleganti, per indorare la pillola sbagliata da ricetta ancora più sbagliata. La più nota denominazione é “Autonomia differenziata”. Ecco l’eleganza delle parole. Sono due sole. Prese autonomamente procurano una sensazione più piacevole di quella che pure si prova se lette insieme. Autonomia. Che bella questa parola! Cosa c’è in un qualsiasi consorzio umano di meglio che avere garantita l’autonomia. Autonomia si coniuga con libertà. È magnifico essere autonomi, magnifico essere liberi. Poter decidere del proprio futuro e della propria vita attraverso il pieno utilizzo dei propri mezzi è il sogno di tutti. Qui si potrebbe innestare un principio anch’esso affascinante, di chiara marca liberista o come meglio dir si voglia: a ciascuno secondo le proprie capacità. Fin qui potremmo essere quasi felici, se non intervenisse la fatica dell’essere autonomo e il rischio che la libertà applicata in quel contesto possa procurare voglia di fare senza gli altri. Ovvero, di non vedere altro interesse che il proprio. Del territorio e di quanti all’interno di esso vivono, specialmente. Forte crescerebbe qui il desiderio di costruire tutt’intorno a quella autonomia confini più rigidi e invalicabili.
L’altra parola, egualmente bella e affascinante, è “differenziata”. Essere differenti, cioè sé stessi diversi dagli altri per legge determinati, è interessante. Fare cose differenti, agire in maniera differente in un’area differenziata, è atto straordinario, che solletica vanità e senso di superiorità. Voglia di far da soli e per sé stessi e con le proprie risorse, senza, soprattutto, dover dar conto agli altri e fare i conti con gli altri, non è vantaggio da buttare, direbbero gli interessati se già non l’hanno pensato.
Dicono i sostenitori della nuova legge in itinere che è tutto previsto dalla Carta costituzionale, che da tempo attenderebbe che venisse attuata in quel principio più largamente affermato nelle cinque regioni autonome. Ed è forse davvero così. Costoro, però, dimenticano, che la Costituzione, prima, durante e dopo, quell’articolo narra dell’eguaglianza autentica fra tutti cittadini e prescrive che sia lo Stato a garantire l’effettiva parità, secondo modi e criteri che non sto qui a elencare. In tanti ancora dimenticano che la bellezza della nostra Costituzione è nella inscindibile unità tra autonomie e solidarietà, tra libertà individuale e azione sociale, tra ricchezza individuale e ricchezza complessiva, tra singoli territori e unità territoriale. Tra regioni e nazione. Tra comuni e Stato, tra pluralismo e compattezza. Dimenticano che al centro di ogni divenire sociale c’è la persona, non l’individuo singolo privo di tutto quel corredo umano che fa l’uomo l’essere speciale che è.
L’autonomia differenziata, per quanto la si voglia edulcorare con nuovi innesti terminologici che la gente non comprende, rompe questo concetto di unità, lacera il senso di solidarietà che è proprio della nostra gente, divide il Paese, accresce la povertà già troppo estesa ed estrema per milioni di italiani. Infine, cancella d’un colpo quel bagaglio ricchissimo di conquiste democratiche realizzato dalle lotte popolari dal Risorgimento a oggi. Abbiamo di recente visto che da soli non si va da nessuna parte, che anche le zone ricche subiscono il rischio di diventare povere e di incontrare la sofferenza e il dolore. Il terribile terremoto e la devastante alluvione che in due ravvicinate “sventure” ha subito la nobile e fiera Emilia Romagna, hanno visto ancora una volta la straordinaria grandezza del popolo italiano. La solidarietà è partita subito. Specialmente dal Sud il cuore della generosità è volato su quelle terre così duramente colpite. Nessuno ha fatto i conti della spesa. Qui al Sud si è pregato e tifato, e si è gioito quando il Governo ha elargito somme considerevoli, che anche qui sono considerate insufficienti per far tempestivamente rinascere quella parte della nostra Italia. Il territorio è la prima ricchezza che hanno i poveri, indebolirglielo è colpa grave, non solo politica. Le ferite ai territori, in qualsiasi modo inferte, sono ferite sulle carni già aperte dei poveri. Sfugge ai responsabili della cosa pubblica il significato della parola “gente”, della parola “popolo”. Della parola “comunità”. Essa ha valore se si comprende che gente, popolo, comunità è la Persona, con tutto il suo carico di diritti inalienabili.
Sono un prete, soltanto un prete, che ha toccato e tocca ogni giorno la sofferenza. Della persona che lotta e non vince mai. Che si affatica e non si riposa un minuto. Che sta sempre in fondo alla fila che non scorre mai. Che vorrebbe avere fiducia e non trova ascolto. Che vorrebbe parlare e non la si lascia esprimere. Il Santo Padre, che si batte strenuamente per difendere le persone da ogni guerra che si muove loro contro (quella della fame è la guerra che un miserabile mondo opulento e obeso muove prima di quelle guerreggiate), ci esorta a non abbandonare quella che si manifesta sempre di più come la più grande delle azioni umane, la solidarietà verso gli ultimi. La difesa della vita umana e della tutela della sua piena dignità. Dinanzi alle enormi sofferenze di famiglie intere che non riescono a fronteggiare il più piccolo dei bisogni nessuno osi tirarsi indietro. La Chiesa non può e non lo farà. Il prete non può e non lo farà. E non tema alcuno di essere accusato di politicismo: la Chiesa prende parte, sì, quella dei poveri, dei bisognosi. Si fa parte essa stessa degli ultimi e non perché li carezzi mentre li si vorrebbe ultimi ma per dar loro la forza di riscattarsi dalla povertà e dall’arretratezza. Oggi questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud perché in essi splenda pienamente il sole. Il sole incontro al quale devono correre i nostri ragazzi, per costruire insieme la felicità. Di tutti.
Ho scritto questa riflessione di getto, lasciando parlare solo il mio cuore. Di prete e di uomo. L’ho fatto trovandomi sulla scrivania, l’uno accanto all’altro, così casualmente, il Vangelo e la Costituzione. Tenendo ben divisi questi due “libri”, trovo felicemente che la Parola e quelle parole stanno proprio bene insieme. Questa sensazione in me è bellissima. La dirò domattina ai miei amici più piccoli, che si chiamino Ciro, Concetta, Carmela, Gennaro, o altri nomi che ho conosciuto attraverso i loro volti bellissimi, affinché provino gioia e desiderio di camminare con questi valori e questi princìpi. Ma non da soli, però. Da soli no. Con gli altri. Sempre più numerosi. Perché la Bellezza vince sempre. E l’Amore pure.
Arcivescovo di Napoli
*Questo testo è pubblicato in contemporanea da Avvenire e www.chiesadinapoli.it. Una sintesi sull’edizione di Avvenire del 16 luglio.
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