Buggerru 18 marzo 1913
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di Gianni Loy
Il 18 marzo del 1913 sono morte sul lavoro a Buggerru, nella miniera di Genna Arenas, quattro cernitrici: Maria Saiu di 36 anni, Anna Pinna, di 24, Laura Lussana, di 20, e Anna Rosa Murgia, di appena 15 anni, sono state travolte dal minerale grezzo precipitato da una tramoggia che non ha retto il pesante carico.
Per quanto tempo ancora dobbiamo conservare il loro ricordo? E perché?
Perché tutto passa. Tutto, tranne il passato, che è una dimensione del nostro presente. Perché siano stati forgiati dalla nostra storia e da quella dei nostri padri e delle nostre madri. Perché il nostro passato vive con noi, ci accompagna ogni giorno.
Nonostante sia trascorso così tanto tempo, Buggerru, anno dopo anno, continua a ricordare i suoi caduti.
Diversi sono i motivi per cui non possiamo e non dobbiamo dimenticare l’evento di 110 anni fa. [segue]
In primo luogo perché le stragi nel lavoro non sono terminate. Nel secolo scorso, l’evoluzione legislativa in materia di protezione contro gli infortuni sul lavoro ha avuto una notevole e positiva evoluzione, prima di tutto in Italia. Le fonti internazionali hanno proclamato principi santi: il lavoro non è una merce; adattare la macchina all’uomo e non l’uomo alla macchina … Le Direttive dell’Unione europea hanno esaltato l’aspetto della prevenzione, con l’obbligo di valutare preventivamente i rischi all’interno dei luoghi di lavoro; hanno fissato responsabilità non delegabili da parte dell’imprenditore. La tecnologia consente l’adozione di misure di sicurezza prima inimmaginabili. Insomma, una vera e propria rivoluzione da quando lo stesso diritto del lavoro, ai suoi albori, ancora proclamava, a cuor leggero, che “esistono pericoli che non si possono assolutamente evitare, che costituiscono la conseguenza permanente e necessaria dell’esercizio dell’impresa”, rischi che doveva assumersi l’operaio, naturalmente, che, in cambio, poteva al più pretendere un aumento del salario proporzionale al maggior rischio.
Eppure, la mortalità sul lavoro continua a incidere in maniera inaccettabile, non soltanto per gli incidenti propriamente detti, ma anche per le malattie professionali dovute all’esposizione a prodotti nocivi, ad un ambiente malsano che uccide a poco a poco. Insomma, nonostante un’evoluzione legislativa, della quale non potremo che dir bene, poco è cambiato.
Di leggi, a dire il vero, ce n’erano anche prima. Don Lorenzo Milani lo gridava ai quattro venti più di mezzo secolo fa: “Si. Le leggi ci sono. Solo che queste leggi, e molte altre, sono violate ogni giorno, in 1200 stanzoni e 4500 telai, sotto gli occhi dei tutori dell’ordine. E non c’è neanche da dire che il telaio sia una macchina che si possa nascondere. Si sente di lontano. Pare impossibile che nessuno senta quel canto disperato delle macchine che chiamano, che urlano, che accusano”.
La causa è da cercare in una cultura economica che mette in conto i morti sul lavoro quale prezzo da pagare (da parte dei lavoratori, naturalmente) per la massimizzazione del profitto. Un progresso che – per dirla con le parole di Victor Hugo, in piena rivoluzione industriale – “dà un’anima alla macchina e, allo stesso tempo, la toglie all’uomo”.
I più recenti avvenimenti, le sentenze della magistratura, son conferma di come, in alcuni dei più tragici avvenimenti, i responsabili di grandi imprese fossero consapevoli di esporre a grave rischio i propri dipendenti – di incidente o di lenta intossicazione, cioè di mandarli a morire – senza impedirlo per non intaccare il profitto.
Tema attuale, quindi, che ci consente di affermare che le morti sul o per il lavoro – sia per incidente che per malattie professionali – non dipendono né da carenza legislativa, né da carenza di tecniche, bensì dal perdurare di un sistema di sfruttamento che scarica ogni rischio sul soggetto più debole, che non è più il minatore, in via d’estinzione in Sardegna, ma non nella nostra memoria. Sono, piuttosto, le nuove figure del “moderno” sistema di organizzazione del lavoro che non soltanto ricevono un compenso insufficiente ad un tenor di vita dignitoso, nessuna garanzia sulla stabilità del lavoro, ma sono anche esposti ad un elevato rischio di incidenti, di cui nessuno risponderà anche perché vengono spesso considerati, ipocritamente, “imprenditori di sé stessi” e quindi i soli responsabili della propria incolumità.
E l’imprevisto, il caso, la fatalità”? Certo, esistono anch’essi! Ma sono piccola parte delle croci che ogni giorno continuiamo a piantare. La più parte sono un tributo all’ingordigia del profitto e ad un fraintendimento culturale che, non di rado, confonde l’imprudenza, con il coraggio o con la “balentìa”.
C’è poi un secondo motivo. La morte delle 4 donne nella miniera di Genna Arenas ci ricorda di come quel convulso processo di produzione del profitto sfruttasse, impietosamente, anche le donne, ed i bambini. Ad incentivare l’impiego delle donne nei lavori all’esterno delle miniere in qualità di cernitrici – per la separazione del materiale inerte da quello nobile – era stato, anni prima, il direttore della miniera, Achille Georgiades, lo stesso che nel 1904, dopo aver arbitrariamente ridotto di un’ora la pausa dei minatori, per massimizzare il profitto, aveva poi chiamato l’esercito che aveva sparato sui minatori che protestavano.
La retribuzione delle donne non arrivava neppure alla metà di quella di un maschio e il lavoro non era meno faticoso, né meno penoso, né privo di rischi.
Dobbiamo ricordarlo perché ancora permangono odiose forme di discriminazione nei confronti delle donne che lavorano. Non soltanto per quanto riguarda il salario – la retribuzione delle donne continua ad essere mediamente inferiore rispetto a quella dei colleghi maschi – ma anche perché soggette al maggior peso del lavoro a causa del doppio ruolo, perché vittime di discriminazione e di licenziamento a causa della gravidanza o per l’impossibilità di conciliare la vita lavorativa e quella familiare, o perché vittime di molestie.
Dobbiamo ricordarlo anche perché la Costituzione – che proclama solennemente l’uguaglianza tra uomo e donna, anche con esplicito riferimento alla retribuzione – non ha ancora trovato compiuta attuazione. Ce lo ricordano quattro rose bianche ai piedi del monumento dedicato alle cernitrici, a quattro donne che chissà quante cose avrebbero potuto ancora fare, se quelle pietre ricche di minerale, misero valore di scambio, non fossero cadute loro addosso.
Né possiamo, semplicemente, classificare quell’evento luttuoso tra le statistiche degli incidenti. I caduti nel lavoro, o a causa del lavoro, non sono numeri, sono uomini e donne – come in questo caso – ciascuna con un diverso colore degli occhi, un diverso sorriso, una propria storia. La morte – o l‘incidente che l’abbia resa invalida – cambia fatalmente il corso della storia, della loro storia individuale e, insieme, di quella di chi resta: dei bambini rimasti orfani, costretti ad imboccare una strada diversa da quella che per essi era stata preparata, e poi di quel composito universo – al quale non sempre prestiamo la dovuta attenzione – che ruota attorno al quotidiano di una donna.
Non lo possiamo dimenticare, infine, perché è parte della nostra identità di popolo. Il lutto che colpisce chi appartiene alla nostra comunità ci tocca in maniera particolare. Sono pagine dolorose della nostra storia, di noi tutti. Quante volte, anche noi, abbiamo dovuto appendere le cetre, abbassare il capo in silenzio, e poi di nuovo rialzarci per riprendere la marcia che la storia ci impone.
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In testa un disegno di Francesco del Casino, tratto dal libro di Gianni Loy Eva e Petra, Edizioni Domus de Janas
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Per correlazione.
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