Rocca.
Rievocando la metafora che Carl Gustav Jung applica alle dinamiche della vita individuale tra il mattino, il mezzogiorno, il pomeriggio, si potrebbe dire che anche la Chiesa cattolica conosce ora la crisi del mezzogiorno rappresentata dalla modernità con i suoi effetti di secolarizzazione, laicità e pluralismo che ne trasformano le fondamenta tradizionali. Tra queste anche la pratica ai riti. [segue] Secondo alcuni studiosi stanno scomparendo i riti nelle società contemporanee e anche nelle Chiese. È quanto affronta Byung-Chul Han in La scomparsa dei riti (2021). La tesi del noto filosofo di Berlino pare però contraddire con il contesto attuale immerso nei riti e nelle cerimonie di ogni tipo, laiche e religiose, collettive e private. Dagli anziani ai bambini nessuno pare possa farne a meno, obbedendo a quanto dicono gli antropologi, secondo cui ogni rito è la riaffermazione simbolica di un qualche mito. E, soprattutto, anche chi li nega, vive immerso nel mondo dei ‘riti del non rito’. In questo contesto diminuiscono i frequentanti ai riti religiosi ufficiali, sostituiti dai like, dai friend, dai follower i quali però non creano comunità con una dimensione corporea, ma rafforzano solo l’eco di
Nelle Chiese a sostituire i riti ufficiali sono i riti di passaggio che di tanto in tanto radunano ancora gruppi e parentele. In questo contesto emerge la figura del credente non praticante. Nel mondo cattolico oltre il 90% non partecipa più alla messa domenicale, ancora obbligatoria per i cattolici. Ma nei grandi momenti della vita quasi tutti ritornano in Chiesa per chiedere una celebrazione. È l’attuale svolta rituale: crollo della partecipazione ai riti festivi della domenica ed esplosione dei riti di passaggio (battesimi, riti di crescita dei bambini, matrimoni, riti funebri).
Per la quasi totalità dei cattolici la fede si trasforma in un «religioso festivo stagionale» e si struttura attorno a riti e cerimonie che i sociologi definiscono riti «di passaggio» o «stagionali» perché attorno a essi avviene la socializzazione dei cicli familiari del nascere, del crescere, del formare una famiglia, del morire. Sono dati che indicano, oltre che la povertà rituale e simbolica delle celebrazioni laiche attorno ai grandi passaggi della vita, la permanenza del bisogno di trascendere la vita quotidiana, trasfigurandola in chiave festiva.
C’è in questo bisogno la ricerca del potere simbolico unificante dei riti, che sono da sempre il fondamento della comunità. Essi rappresentano la preminenza della forma festiva ed estetica del rito, tanto da poter dire che è il medium che produce il messaggio, e in questo consiste la forza dei riti. Si comprende così il bisogno, anche nelle società secolari, dei «riti di passaggio». Per spiegare tale bisogno di riunirsi solo di tanto in tanto e non di essere sempre riuniti – come richiederebbe il rito domenicale ogni settimana – vale ancora la conclusione di Émile Durkheim nella sua opera classica Le forme elementari della vita religiosa: «Il culto è costituito essenzialmente dal ciclo delle feste che tornano regolarmente in epo- che determinate. Possiamo ora comprendere da dove derivi questa tendenza alla periodicità; il ritmo al quale obbedisce la vita religiosa non fa che esprimere il ritmo della vita sociale, e deriva da esso. La società può rinnovare la consapevolezza che ha di sé soltanto a condizione di riunirsi. Ma non può tenere perpetuamente le sue assise. Le esigenze della vita non le permettono di restare indefinitamente allo stato di congregazione; essa si disperde per riunirsi di nuovo quando torna a sentirne il bisogno. È a queste alternanze necessarie che corrisponde il regolare avvicendamento di tempi sacri e tempi profani» (1).
la vicarious religion dei riti di passaggio
Questa conclusione di Durkheim contrasta, anche nella Chiesa cattolica, con la valutazione negativa dei «riti di passaggio» se celebrati da «credenti non praticanti». È la critica che le Chiese fanno alla vicarious religion cioè a quel tipo di religione praticata da una minoranza attiva, ma per conto di un numero molto più grande di altri che, almeno implicitamente, capiscono, condividono e approvano ciò che la mino- ranza sta facendo, ma non vi partecipano regolarmente (2). Anche nel contesto italiano si direbbe che le parrocchie cattoliche sono sempre più incaricate da parte di molti cattolici non più praticanti di mantenere a nome loro – cioè vicariamente – feste, riti, credenze e principi morali. Questi cattolici non partecipano alle attività religiose nella loro vita quotidiana, ma in certi momenti ‘pretendono’ di riferirvisi. Questa è l’essenza della vicarious religion che rappresenta il nodo sempre più conflittuale tra il sistema rituale ufficiale della Chiesa cattolica e quanti richiedono di partecipare periodicamente ai suoi riti. L’irritazione di chi vede il ritorno dei fedeli solo quando hanno bisogno di una celebrazione per loro, contrasta con la tesi di Durkheim citata sopra secondo cui tutte le culture e religioni non possono non prevedere una forma ciclica di alternanza rituale tra riunione e dispersione.
Di fronte a questa svolta in atto nelle chiese che si riempiono di fedeli «quando la campana suona per loro» è necessario l’approfondimento di questa forma rituale introdotta da Arnold van Gennep in I riti di passaggio (1907). Il significato di tali riti sta nel fatto che essi ricorrono in situazioni di grande ansia e di «crisi vitale» e concorrono a organizzare le fasi nella vita degli individui, così come le stagioni nell’arco dell’anno.
È nella celebrazione dei riti di passaggio che l’individuo è spinto a sperimentare livelli più profondi di quelli della vita quotidiana. In essi la religione assume la funzione di religare, cioè di legare e mettere in comune gli elementi e i valori che animano una comunità; di raccontarli riferendoli al più generale disegno della vita, nel quale ogni giorno si arricchisce di un senso particolare. Il luogo stesso in cui avvengono i riti di passaggio acquista il senso di «casa» comune, così come è l’etimo di sinagoga, dal greco synagein, condurre insieme. Un luogo ben diverso da quelli del lavoro, del mercato, del tempo libero, che non conoscono la comunità, il silenzio e il riposo contemplativo, ma la massa. Tra i cristiani, quando scompare la celebrazione della messa domenicale, i riti di passaggio sono le forme residue del symballein, cioè del «mettere insieme» e del creare un legame tra gli individui, formando una totalità.
I riti di passaggio – come scrive Han Byung- Chul nel volume citato – sono tecniche simboliche di accasamento e di stabilità della vita religiosa che trasformano l’essere – nel – mondo in un essere – a – casa e fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Come le stagioni, i riti di passaggio rimangono le soglie che strutturano la vita degli individui. Il sociologo francese Gabriel Le Bras li descrisse in L’église et le village (1976) con l’immagine propria del piccolo villaggio costruito sotto il campanile: sono i riti che richiamano il fedele «quando la campana suona per lui».
Quando succede un episodio tragico, una catastrofe, o si celebrano grandi eventi collettivi, anche gli individui della vicarious religion chiedono di partecipare al sistema rituale della loro religione storica, riferendosi al clero locale per celebrare in chiesa tali eventi. La chiesa diventa il centro della liturgia, alla cui preparazione tutti intendono partecipare con interventi e proposte. Ogni qual volta questa relazione positiva non avviene, le reazioni dei cattolici della vicarious religion sono irritate poiché considerano normale che il clero sia delegato a vivere vicariamente le speranze e anche i valori che la maggioranza della popolazione non segue più nella vita ordinaria. I casi più frequenti in cui intere collettività di cattolici non praticanti richiedono di usufruire dei servizi della Chiesa sono appunto i «riti di passaggio» della nascita, dell’adolescenza, del matrimonio, della morte e delle grandi commemorazioni.
Nel colloquio con i responsabili delle grandi parrocchie si rileva l’irritazione di molti parroci di fronte alle richieste dei fedeli della vicarious religion, difficilmente catalogabili entro le regole precise degli ordinamenti liturgici. Le pratiche (testi, rituali, musiche) proposte ai celebranti nei vari eventi (funerali, matrimoni, anniversari) trascolorano spesso nelle pratiche della vita quotidiana delle persone che sono al centro della celebrazione. Da una parte, testi e pratiche che disegnano mondi conosciuti e che consentono giochi di creatività, di produttività e di performatività. Dall’altra parte, mondi possibili entro cui potersi immergere emotivamente con il piacere di pratiche comunitarie e rituali che coinvolgono i partecipanti nel rivivere collettivamente nel rituale quanto tutti conoscono già: testi, musiche, pratiche, oggetti. Quanto sta succedendo oggi è il moltiplicarsi di simili «cerimonie miste» tra il sacro e il profano. Sono liturgie in cui sono presenti sia un ministro religioso e la struttura istituzionale della celebrazione, sia anche numerosi altri elementi non propri del sistema rituale liturgico. Sono eventi/esperienze vissuti da una collettività non formale né delimitabile in precisi confini istituzionali, ma capaci di far vivere ai partecipanti emozioni individuali e sociali. Le pratiche di cui si compongono provengono spesso da altri contesti laici, ma si ricompongono per dare modo di vivere insieme grandi emozioni collettive. Possiamo definire «liturgiche» queste celebrazioni, nelle quali sono compresenti anche pratiche profane?
Quando una collettività chiede di essere riconosciuta all’interno di una liturgia, prefigura una nuova comunità ‘spirituale’. La nascita e la morte – ma anche i matrimoni e altri riti di passaggio – sono i più ricorrenti tra questi eventi di natura emotiva ed esperienziale, due dimensioni costitutive di tutti gli eventi collettivi. L’accento
posto sulla libertà e creatività di queste esperienze non fa dimenticare i vincoli e le restrizioni strutturali e culturali del contesto, quale quello dei riti di passaggio che è
rappresentato dalla liturgia cattolica. Si tratta quindi di considerare entrambi i poli: la creatività spirituale della collettività della vicarious religion e il potere del contesto istituzionale entro il quale tale creatività si pone.
conclusione
La conclusione di questo testo prende avvio dalla vistosa svolta statistica della partecipazione rituale nella Chiesa cattolica: da un lato il crollo della partecipazione alla messa domenicale e, dall’altro, la partecipazione di oltre i due terzi degli italiani ai riti di passaggio della vicarious religion. Sempre meno cattolici a messa la domenica e sempre più partecipanti ai riti personali di festa. Per la maggioranza dei cattolici la loro fede rimane un «religioso festivo stagionale» strutturato intorno ai riti sui quali si incentra la socializzazione dei cicli familiari di nascita, adolescenza, formazione di una famiglia, morte. Al di là di queste celebrazioni, l’appartenenza e la partecipazione alla comunità parrocchiale è sempre più debole (3).
Come interpretare il cristianesimo festivo dei riti di passaggio dell’assise dopo la dispersione prefigurato nella definizione di Durkheim? Forse è necessaria una svolta rituale contrassegnata dalla preminenza della forma rasserenante ed estetica del rito di passaggio nelle fasi fondamentali della vita. Ma è possibile una Chiesa post–tridentina che si strutturi in prevalenza sui riti di passaggio, anziché sulla celebrazione ogni domenica?
Luigi Berzano
Università di Torino
Su Rocca n.6/2023
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Note
(1) É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa (1912), Meltemi, Roma 2005, p. 367. (2) È la definizione di G. Davie al termine di una ricerca sul mondo anglicano in The Sociology of Religion, Sage, London 2010.
(3) L. Berzano, Senza più la domenica. Viaggio nella spiritualità secolarizzata, Effatà, 2023.
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