La guerra vicina, che già ci coinvolge
Pagliarulo ANPI: “Siamo vicini a scenari catastrofici, dovremo essere in tanti alle nostre manifestazioni con Europe for Peace del 24/26 febbraio”
4 Febbraio 2023
Lettera del Presidente nazionale ANPI agli iscritti all’Associazione: “La pace, garantita in Europa per più di 70 anni, è stata il risultato di un lungo percorso politico, istituzionale e giuridico seguito alla devastazione di due guerre mondiali. Abbiamo bisogno di riprendere immediatamente quella visione e quel progetto, frutto della Resistenza al nazifascismo, e lascito dei nostri resistenti e dei nostri partigiani”
Care amiche e cari amici iscritti all’ANPI, care compagne e cari compagni,
vi invio questo messaggio che, mi rendo conto, è piuttosto inusuale, perché vorrei farvi partecipi di una preoccupazione, meglio, di un vero allarme per quello che sta succedendo e che può succedere in un prossimo futuro nel nostro Paese, in Europa, nel mondo.
Come avevamo previsto nel nostro Congresso nazionale nel marzo dell’anno scorso, stiamo assistendo all’impazzimento della guerra avviata dalla irresponsabile invasione russa dell’Ucraina. Da quel momento abbiamo assistito a una continua escalation con una tragica espansione di vittime e di distruzioni.
Ma ciò che sta avvenendo da qualche settimana avvicina ancora di più la possibilità di scenari catastrofici. Da un lato la Federazione russa aumenta costantemente il numero di militari e di armamenti in Ucraina intensificando gli attacchi e i bombardamenti; dall’altro crescono i rifornimenti militari occidentali al governo ucraino con armamenti sempre più offensivi. Dall’Europa e dall’America arriveranno vari tipi di carri armati; Zelensky chiede i cacciabombardieri F16 e i sommergibili; si riparla sempre più in modo irresponsabile dell’uso di armi nucleari “tattiche”. In questa situazione il ministro della Difesa Crosetto si è spinto a dire che se i russi arrivano a Kiev scoppia la terza guerra mondiale.
Dall’Iran ad Israele ai territori palestinesi alla Siria vengono notizie di un incendio che dilaga.
Le spese di riarmo crescono in modo osceno ovunque, come avvenne prima delle due guerre mondiali, mentre i governi europei – compreso il nostro – diventano sempre più autoritari verso chiunque si permetta di criticare questa mostruosa deriva bellicista, nonostante i sondaggi dicano che la maggioranza degli italiani (e anche degli europei) è contraria all’invio di armi e all’intervento della NATO. Nelle carceri russe sono reclusi centinaia e centinaia di dissidenti ed una durissima repressione è in corso in Russia ormai da molto tempo.
Intanto a causa del gioco fra sanzioni e controsanzioni è aumentata l’inflazione a livelli sconosciuti nel nuovo secolo, il costo dell’energia ha generato difficoltà enormi ad imprese e famiglie ed in generale sono peggiorate le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini europei e italiani.
Non basta: il presidente degli Stati Uniti e il segretario generale della NATO indicano nella Cina il prossimo e più potente nemico da affrontare, se necessario, anche sul piano militare.
Anche di questo discuteremo nell’assemblea nazionale dell’ANPI che svolgeremo fra pochi giorni a Cervia; ma ci tenevo ad anticiparvi un quadro drammatico a cui non si può rispondere né con la rassegnazione né col fatalismo. Occorre razionalmente prendere atto di questa realtà e di impegnarsi in ogni modo per contrastarla, per far andare indietro le lancette dell’ora X della guerra nucleare, che nei giorni scorsi gli scienziati del mondo hanno immaginato alla metaforica e ravvicinatissima distanza di 9 minuti.
C’è bisogno dell’impegno consapevole, piccolo o grande che sia, da parte di tutte e di tutti, per fermare il treno della follia e della morte che sta correndo a tutta velocità verso l’autodistruzione.
Per questo mi permetto di invitarvi a partecipare ad ogni iniziativa che abbia come obiettivo finale il ristabilimento della pace. L’impegno più immediato è per il 24 febbraio, primo anniversario dell’invasione russa, e per i due giorni successivi. Si svolgeranno manifestazioni in tante capitali europee. In queste tre giornate l’ANPI darà vita assieme a Europe for Peace a una rete di iniziative locali in tutta Italia. Ma non ci fermeremo qui. Cercheremo sempre la più larga unità con tutti coloro che, pur con opinioni diverse sulle responsabilità di questa guerra, sull’invio o meno di armi, sull’erogazione o meno di sanzioni, condividano il nostro allarme attuale: fermiamo la guerra.
L’ONU deve essere la sede istituzionale necessaria, il suo Consiglio di Sicurezza è lo spazio per tracciare la strada verso un trattato internazionale che ponga fine alla guerra e ristabilisca un pacifico ordine mondiale.
L’ANPI propone che il governo italiano e l’Unione Europea avanzino finalmente una seria proposta di avvio di negoziati, cosa mai avvenuta fino ad oggi, per trovare un realistico punto di incontro fra le parti e comunque per frenare la frenetica escalation in corso; propone una Conferenza internazionale per concordare la sicurezza di tutti i Paesi coinvolti; propone che si avvii la smilitarizzazione dei confini fra la Russia e gli altri Paesi europei con l’obiettivo di una progressiva diminuzione di tutti gli armamenti nucleari; propone, in sostanza, di ricostruire un clima di coesistenza pacifica e di collaborazione fra gli Stati e i popoli in Europa e nel mondo.
La pace, garantita in Europa per più di 70 anni, è stata il risultato di un lungo percorso politico, istituzionale e giuridico seguito alla devastazione di due guerre mondiali. Abbiamo bisogno di riprendere immediatamente quella visione e quel progetto, frutto della Resistenza al nazifascismo, e lascito dei nostri resistenti e dei nostri partigiani.
Lo ha detto Papa Francesco: “Questa guerra è una follia”. Aiutiamoci tutti, l’uno con l’altro, a fermarla. Ne va del futuro dell’umanità.
Un abbraccio,
Il Presidente nazionale dell’ANPI
Gianfranco Pagliarulo
1 febbraio 2023
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Non sono solo canzonette
03-02-2023 – di: Domenico Gallo su Volerelaluna
Da tempo immemorabile il Festival di Sanremo rappresenta la più seguita manifestazione popolare italiana. Ogni anno milioni di persone seguono lo spettacolo trasmesso in mondovisione dalla Rai. Che piaccia o meno, il Festival esprime anche sul piano internazionale un aspetto della nostra identità culturale. Del resto l’Italia ha lanciato da Sanremo successi planetari che celebrano la vita, la felicità e l’amore. Non sono solo canzonette, il palcoscenico del festival è un’occasione ambita per messaggi di costume e di cultura varia che contribuiscono a delineare una sensibilità comune, uno specchio nel quale possono riconoscersi ampi strati della popolazione italiana. Entro certi limiti Sanremo svolge una funzione di educazione popolare, se noi pensiamo, per esempio, ai monologhi di Paola Cortellesi e Laura Pausini sulla violenza alle donne, di Pierfrancesco Savino con la poesia dei migranti, di Benigni o di altri artisti incentrati sui valori civili.
Proprio per questa sua funzione mediatico-popolare, ci inquieta profondamente apprendere che, in una delle serate clou dell’evento, presumibilmente sabato 11 febbraio, interverrà Volodymyr Zelenskij, capo di Stato di uno dei due paesi che oggi si affrontano in una guerra sanguinosa e atroce. Da Zelensky, impegnato in una guerra senza quartiere contro la Russia per conto della NATO e degli USA, possiamo attenderci solo parole di esaltazione della guerra e di odio mortale contro il nemico. Un odio così profondo da fargli rifiutare ogni negoziato e accettare qualunque sacrificio della sua gente per prolungare la guerra, inseguendo il sogno di una vittoria impossibile contro una potenza nucleare. In questo modo in una manifestazione di cultura popolare verrebbe innestata una assurda apologia della guerra. Durante il fascismo si educavano le giovani generazioni con lo slogan “libro e moschetto”, adesso rischiamo di orientare la cultura popolare verso l’esaltazione della guerra. Dal 24 febbraio dell’anno scorso i principali mass media hanno indossato l’elmetto e ogni giorno hanno cercato di anestetizzare nella coscienza collettiva l’orrore dei massacri, riabilitando la guerra come cosa buona e giusta, con una campagna martellante per arruolare l’opinione pubblica nel conflitto attraverso l’identificazione manichea amico/nemico. Questa propaganda di guerra a reti unificate non ha avuto un effetto travolgente se il popolo italiano, a differenza di altri popoli europei, resta in maggioranza contrario all’invio di armi e all’incremento delle spese militari. Sanremo, evidentemente, è un’occasione ghiotta per accrescere l’influenza del pensiero unico sulla guerra nella coscienza popolare.
Da più parti si sono levate voci contrarie alla partecipazione di Zelensky a Sanremo, anche da parte di esponenti del partito della guerra. La motivazione prevalente è che non è accettabile mischiare la guerra con i cugini di campagna, che non si può accostare il sacro (l’orrore della guerra) con il profano (le canzonette). Ebbene, non è questo il problema. Sanremo e gli altri eventi musicali non sono solo canzonette. Da sempre attraverso la musica (e le parole) vengono trasmessi sentimenti profondi che albergano nell’animo umano, non solo l’amore in senso erotico, ma anche l’amore per l’umanità, la compassione per le sofferenze causate dalle guerre, la speranza collettiva per una società liberata dagli oltraggi della violenza e del potere, l’aspirazione profonda alla pace che unisce gli umani al di là delle bandiere. Possiamo forse dimenticare che la lotta dei giovani americani contro la guerra nel Vietnam è stata scandita sulle note di Where have all the flowers gone, cantata da Joan Baez e di Blowing in the wind, cantata da Bob Dylan? Temi e sentimenti ripresi anche da interpreti italiani, come Gianni Morandi, con C’era un ragazzo, che ha portato il ripudio della guerra anche nel mondo delle canzonette. Possiamo dimenticare l’insegnamento poetico di Fabrizio De André con motivi intramontabili come La guerra di Piero o Se verrà la guerra? (Girotondo)
Gli stessi sentimenti sono stati interpretati e resi popolari dal poeta e cantautore Vladimir Semënovič Vysockij, con la sua canzone Dal fronte non è più tornato, mirabilmente interpretata in italiano da Eugenio Finardi, che esprime lo sgomento per la vita dei giovani sacrificati in guerra. Infine l’aspirazione dell’umanità alla pace e il sogno di un mondo libero da ogni oppressione non poteva essere meglio espressa che da Imagine di John Lennon, un vero inno internazionale alla pace.
In questi tempi oscuri in cui si costruiscono nuovi cimiteri a ritmo forsennato e due popoli fratelli sono precipitati in un vortice di distruzione e morte, da un evento musicale importante come Sanremo ci saremmo aspettati non messaggi preregistrati di propaganda bellica, ma parole di speranza, come quelle di Fabrizio De André: «Lungo le sponde del mio torrente / voglio che scendano i lucci argentati / non più i cadaveri dei soldati / portati in braccio dalla corrente».
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CHE FARE?
Il tempo delle rivolte
23-01-2023 – di: Marco Sansoè su Volerelaluna.
Anche qui come altrove nel mondo occidentale la democrazia sembra assumere le forme di un sistema ambiguo e vuoto di prospettive. Pare che la società contemporanea non abbia più bisogno delle garanzie della democrazia, anzi una democrazia autoritaria e armata pare lo strumento più efficace per dare forza all’accumulazione capitalista. La precarizzazione del lavoro, la frammentazione della società, le piazze digitali dei social media, le piazze fittizie dei centri commerciali, la gentrificazione delle città, i sistemi di videosorveglianza, tracciamenti telematici e Big Data, il daspo e i divieti preventivi alle manifestazioni politiche sembrano le normali pratiche di gestione della vita quotidiana dei cittadini: strumenti per il controllo personale, politico e sociale. La politica appare lo strumento di gestione di piani economici globali internazionali oppure l’operatrice del controllo sociale ravvicinato. Esibizione autoreferenziale di un potere che risponde a interessi economici diversi e si riproduce attraverso un consenso elettorale sempre più ristretto ma garantito dalle alchimie istituzionali dei premi di maggioranza.
Da qualche tempo partecipa alle elezioni poco più della metà degli aventi diritto; governano coalizioni che non rappresentano la metà +1 degli elettori, perché le leggi elettorali attribuiscono ai vincitori più peso parlamentare di quello che gli è stato dato dai cittadini. La coalizione che governa oggi in Italia non ha ottenuto il 50%+1 dei consensi ma occupa 2/3 del Parlamento; il partito di maggioranza relativa ha ottenuto più o meno il 16% dei consensi degli aventi diritto al voto, ma occupa un terzo circa dei seggi parlamentari. Se questi sono “i trucchi” per tenere in vita la democrazia rappresentativa è evidente che c’è qualcosa che non va. Se poi al Parlamento vengono sistematicamente sottratte le proprie funzioni, impedendo che sia il luogo della discussione e del confronto sulle leggi, relegando la discussione alle Commissioni parlamentari e ricorrendo poi al voto di fiducia (come sta avvenendo da molto tempo), di quale democrazia rappresentativa stiamo parlando?
La politica si avvita su se stessa, si associa, si separa, si mescola, si traveste con il solo obbiettivo della governabilità. Ha perso l’orizzonte del progetto di trasformazione o anche solo di riforma, si addestra esclusivamente alla gestione del compito prestabilito, che passa uguale di governo in governo, dando vita a un’oligarchia, solo in superficie multiforme, presente a vari livelli nelle istituzioni politiche, economiche e giudiziarie. Così la tecnica sostituisce la politica perché il suo compito è solo quello di soddisfare le compatibilità del sistema: la libertà del mercato, la competizione, la meritocrazia, l’identità nazionale, la fedeltà atlantica; e di far rientrare nei ranghi ciò e chi sta fuori, per mantenere intatto il quadro generale. Non serve nemmeno più lo sforzo di produrre una ideologia che giustifichi tutto questo, ci pensa il mercato con la sua forza di persuasione e il potere pervasivo dei media digitali. La politica è morta, sostituita da un meccanismo di comando che discende direttamente da quelli che vengono considerati gli interessi del sistema. Il popolo non è più il fondamento della democrazia, è una variabile dipendente dalle scelte dominanti, espresse da una vasta oligarchia senza cultura, omologata e modulare.
La crisi dei partiti ha aperto la crisi della democrazia rappresentativa: un processo irreversibile che ha bisogno di risposte coraggiose. Ormai sono molti quelli che pensano che l’unico “voto utile” sia quello di non andare a votare. Una decisione sofferta, soprattutto per chi crede nella forza culturale e politica della nostra Carta costituzionale, ma necessaria. Un ultimo grido di dolore e di rivolta nei confronti della politica così come si manifesta nei palazzi diffusi nel paese, nei quali si esercita in vario modo il potere.
Si deve avere il coraggio di dichiarare che si è chiuso un ciclo storico, quello nato dalla Rivoluzione francese, che ha dato vita ai partiti, alle istituzioni democratiche, alla democrazia rappresentativa. La politica deve essere riscritta, non può più essere intesa come uno strumento o una pratica di gestione del potere. Bisogna ricercare, con rigore e fantasia nuove forme di democrazia e percorrere strade, anche inesplorate, che possano garantire la democrazia attraverso la partecipazione dei cittadini alla vita politica. Ma non ci sono tavoli intorno ai quali si possa ricomporre un nuovo disegno democratico o ricostruire coalizioni politiche. Solo la pratica dei conflitti, capace di tenere insieme persone, bisogni e territori, può aprire spazi alla costruzione di nuove pratiche democratiche partecipate e disarmate. Solo le rivolte possono mettere fine al declino della democrazia e dare spazio ad esperienze capaci di riscrivere i contorni della politica. Ma le rivolte non si programmano, non hanno luoghi in cui si decidono, non hanno “gruppi dirigenti” né “avanguardie” che le guidino. Le rivolte stanno dentro le classi, dentro i gruppi sociali che vivono una comune condizione, che hanno un desiderio e/o uno scopo. Si possono mettere insieme le persone, averne cura, comprendere le condizioni comuni, far crescere i desideri, condividere le esperienze, praticare la critica della società contemporanea, dare vita ai conflitti, aprire vertenze, lottare, dare corpo alle rivolte. Questo si può fare. I tempi della politica che cambia sono lunghi, non hanno scorciatoie, sono da inventare, saranno difficili.
In testa, proposto da Volerelaluna: Honoré Daumier, La rivolta, 1860, olio su tela, Phillips Collection, Washington
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