Che succede?

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Cosa pensare cosa fare di fronte alle migrazioni dai Paesi africani?
13 Gennaio 2023 by Giampiero Forcesi | su C3dem

Siamo scandalizzati quando Giorgia Meloni parla di “blocco navale” (ora, sembra, non più), o quando il ministro Piantedosi rende dura la vita alle Ong. Ma cosa pensiamo veramente che si debba e possa fare? Porre un argine alle migrazioni, accompagnato da una impegno complessivo di tutta la comunità nazionale per aprirci a un’accoglienza seria e di reciproco vantaggio e ad una cooperazione stabile, senza interventi predatori o complici di classi dirigenti locali corrotte, è un obiettivo ineludibile. (Nella foto una pietra ricorda il massacro di 1.500 cristiani copti compiuto dall’esercito italiano nel maggio 1937 in Etiopia)

Critichiamo i decreti sicurezza, quelli di Minniti prima, poi di Salvini, oggi di Piantedosi, ed è giusto. Questo ultimo, con la sua dichiarata ostilità alle Ong che operano i salvataggi in mare, appare davvero irricevibile. Però stentiamo ad assumere un punto di vista complessivo su questo grande e drammatico problema.

Mi sembra che, mano mano che passa il tempo, ci si accorge che una risposta che sia in qualche misura adeguata, o comunque ragionata e responsabile, è davvero difficile. Di qui parto per qualche considerazione personale.

Sappiamo che ciò che spinge tante persone, dall’Africa sub-sahariana, come dal Nord Africa e dal Medio Oriente, è un insieme enorme di problemi. Da un lato, in alcuni casi, conflitti armati gravi oppure oppressione insostenibile da parte di governi dittatoriali (un esempio l’Eritrea); dall’altro lato, la perdurante povertà, lo sconvolgimento di intere regioni provocato dai cambiamenti climatici, la mancanza di speranza di una vita migliore in Paesi che sembrano condannati ad avere classi dirigenti per lo più incapaci o corrotte (talvolta anche per colpa di imprese multinazionali se non anche di governi occidentali).

Questa distinzione . certo spesso difficile a farsi – tra profughi e cosiddetti migranti economici penso che non possa essere elusa. Innanzitutto perché ci mette di fronte a un preciso dovere, quello di dare asilo ai profughi, secondo le sacrosante norme del diritto internazionale. Su questo punto si dovrebbe essere assai più chiari, a livello di consapevolezza, di normative ad hoc e di organizzazione per un’accoglienza intelligente e davvero solidale. L’asilo politico è una cosa seria e va fatta con altrettanta serietà

Per quanto riguarda coloro che chiamiamo “migranti economici” la questione è diversa. Non solo non ci sono obblighi di diritto internazionale all’accoglienza, ma c’è un gigantesco problema di numeri. Quanti? Quanti sono? Quanti potranno essere? E c’è un altrettanto grande problema di tenuta sociale da parte delle comunità civili europee, e quella italiana già in affanno, chiamate ad affrontare le difficoltà dell’accoglienza, dell’integrazione, della convivenza (certo non ci sono solo le difficoltà, ci sono anche esperienze e prospettive di arricchimento umano, e non solo…).

Dicevo che, a fronte dei migranti economici, non ci sono norme di diritto internazionale (ci sono però certo quelle che impongono di salvarli in mare!). E però ci rendiamo conto che il desiderio di dare una chance alla propria vita e a quella dei propri figli è forte, è umanissimo, e non può essere ignorato. A questo desiderio corrisponde un’istanza fondamentale di libertà: gli uomini sono liberi di cercare una vita diversa e migliore, di tentare di farlo; e i confini tra le nazioni non debbono essere muri invalicabili.

Questo desiderio e questa libertà spingono molti – generalmente non i più poveri, ma quelli con qualche minima risorsa – a tentare ogni strada possibile. E qui veniamo alla questione dei cosiddetti trafficanti e degli scafisti. Una questione scabrosa. Mi stupisco che non si rifletta sul fatto che, certamente, queste persone che fanno traffici per consentire ai migranti di attraversa migliaia di chilometri e poi il mare per giungere in Europa sono per lo più gente immorale, che sfrutta, che a volte tortura, gente talvolta disumana, ma sono anche l’unico e indispensabile mezzo che hanno i migranti per fare il loro viaggio. Sono, diciamo le cose come stanno, necessari per chi vuole affrontare un’impresa così difficile. Impresa che non si potrebbe certo tentare di fare ricorrendo alle norme in vigore (passaporti, visti d’ingresso, biglietti aerei etc.). Avere, quindi, come obiettivo politico la lotta ai trafficanti e agli scafisti significa poco, e ha la sua parte di ipocrisia.

Io credo che, in ogni caso, qualsiasi misura si riuscirà a prendere per affrontare, in modo che sia almeno serio e coraggioso, il problema, questo tentativo illegale di migrare proseguirà nel tempo. E, per quanti scappano per salvare la vita, è una “fortuna” che possano trovare un trafficante che consenta loro di mettersi in salvo. Però, la responsabilità nostra di provare ad affrontare il problema in modo, appunto, serio resta.

Mi sono sempre venuti i brividi quando sento parlare certi esponenti della destra di come affrontare questo problema. Fino all’altro giorno si sentiva parlare di blocchi navali. Ma a sinistra, mi sembra, si dice poco. E anche in Europa si dice poco di convincente. La parola “blocco” è dura, semplifica; e poi, fatto in mare dalle navi, il blocco è impresa è impensabile e rovinosa. Ma, se andiamo al cuore del problema, l’idea che si debba porre un argine a questa migrazione disperata è valida. Ma è un argine che va costruito con infinita cura e pazienza nei luoghi più vicini ai Paesi di migrazione, e soprattutto nella consapevolezza delle popolazioni locali e delle loro istituzioni. Va posto con una presenza – costosa, impegnativa – di uomini e mezzi, non solo in funzione di polizia e di repressione, ma soprattutto di dialogo, di informazione e anche di capacità di portare sollievo nei casi personali più delicati.

Questo argine deve andare insieme, strettamente e contestualmente, a una presa di coscienza, nel nostro Paese, nella nostra società, nell’opinione pubblica, del fatto che abbiamo sia il bisogno sia la possibilità di accogliere e integrare ogni anno decine di migliaia di migranti stranieri nella nostra comunità. Bisogno, perché sappiamo bene quanti lavori cosiddetti umili non trovino più i nostri cittadini disponibili a svolgerli; bisogno, perché abbiamo una bassa natalità e stanno venendo a mancare le nuove leve di lavoratori, in tutti i campi, necessari tra l’altro per portare in equilibrio il sistema pensionistico. E, per questa accoglienza, abbiamo le possibilità. Siamo un Paese sufficientemente ricco e benestante, con comunità territoriali in grado di far posto ai nuovi venuti. Vi sono molteplici esperienze positive in questo senso. Certo, vi sono anche quelle negative. Ma per questo parlo di una “presa di coscienza” collettiva, necessaria per affrontare con serietà questo grande problema, questa realtà non eludibile. Certo, ci vuole una classe politica più coraggiosa, che promuova questa presa di coscienza, che ne faccia un suo obiettivo imprescindibile.

Il modo per consentire che migliaia di migranti, provenienti dai paesi africani, possano venire in Italia è quello dell’incremento dei numeri di accessi legali. Una misura, questa, che va studiata insieme al mondo produttivo, alle istituzioni locali e al terzo settore, e che va accompagnata da concrete iniziative che consentano inserimenti dignitosi nei vari territori, tempi e luoghi di formazione e di prima integrazione.

Infine, l’argine di cui ho detto, e che a mio avviso va posto, ha un altro grande fondamento, altrettanto indispensabile: quello della costruzione di una nuova stagione delle politiche di cooperazione e di dialogo con i Paesi africani e del Vicino Oriente. Ora Giorgia Meloni parla di “piano Mattei”, nel senso di una cooperazione industriale paritaria e non vessatoria. Posizione sensata, che tocca un aspetto importante. Ma la questione è più complessa. Cooperare con buona parte dei Paesi dell’Africa, sia a nord che a sud del Sahara, è estremamente difficile perché le loro classi dirigenti sono scarsamente affidabili. Certo non si può aggirarle andando a stabilire rapporti diretti con le comunità locali (è difficile anche per le Ong di cooperazione allo sviluppo); ma si possono stabilire dialoghi con le classi dirigenti locali (franchi e senza sconti), porre condizioni, offrire stimoli e opportunità di formazione ai vari livelli.

E bisogna molto investire in questa direzione, con la consapevolezza che molto del nostro futuro avrà a che vedere con questa capacità di porsi con coraggio e intelligenza in dialogo con il mondo a sud del Mediterraneo, e che saperlo fare darà all’Italia un ruolo di rilievo nell’Unione europea. E ci farà crescere in umanità. Ci farà anche perdonare, almeno un po’, quella stagione imperialistica che ci ha portati, a fine ‘800 e nella prima metà del ‘900, a compiere misfatti e crimini in tante parti del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Somalia) e in Libia. Certo, non abbiamo compiuto solo crimini; abbiamo anche fatto alcune cose buone (che sono state ricordate a lungo dalle popolazioni locali); ma poi, una volta venuti via, ci siamo per lo più dimenticati di quella storia, di quei legami, di quelle responsabilità, ed oggi assistiamo a, anche proprio in quei Paesi, a un totale disfacimento politico e civile, e a continue tragedie. Dovremmo tornare, in modo nuovo, sui nostri passi.

Giampiero Forcesi
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Gli italiani e lo Stato: un rapporto da decifrare meglio
15 Gennaio 2023 by c3dem_admin | su C3dem

Non è così vero che gli italiani siano sempre più sfiduciati nei confronti della cosa pubblica e delle sue istituzioni. Un recente rapporto di ricerca mostra dati ancora certamente preoccupanti, ma anche segnali significativi di una certa risalita rispetto agli anni scorsi. Servirebbe un dibattito meno catastrofista da parte di mass media e opinione pubblica per cogliere questi esili segnali positivi e impegnarsi a rafforzarli. Il Paese ha un grande bisogno di recuperare fiducia e generare speranze attive

Sulla base di quali informazioni possiamo provare a comprendere la situazione del comune sentire dei cittadini del nostro Paese, per coglierne lo spirito, le idee, gli orizzonti, le visioni e per poter poi valutare, almeno per accenni, cosa fare per una politica lungimirante? Detto che è comunque (oggi più che mai) un’operazione complicata, proviamo a farlo a partire da alcune ricerche e sondaggi (fatti con criterio) che possano dare utili coordinate. Di sicuro il XXV Rapporto su “Gli italiani e lo Stato”, pubblicato a dicembre 2022 e curato della società di ricerche Demos&Pi (http://www.demos.it/), del sociologo Ilvo Diamanti, è fra questi. Anche se, è bene precisare, le letture che ne sono seguite nei giorni a ridosso dell’uscita, non sempre hanno colto bene alcuni aspetti.

Intanto emerge il dato al momento forse più “politicamente” rilevante, e abbondantemente rimarcato da alcuni articoli: una larga maggioranza dei cittadini (62%) afferma che il Paese dovrebbe essere guidato da un “leader forte”. E inoltre più dei due terzi dei cittadini esprimono apertamente il proprio favore verso l’elezione diretta del Presidente (69%). Segno, questo, che si viene così palesemente a confermare la sfiducia verso le tradizionali forme del nostro sistema politico che abbiamo condiviso dalla Costituzione in poi? Non direi. Vediamo altri dati.

Vediamone prima due di carattere più generale, ma che mi sembrano significativi e che sono stati un po’ trascurati dalle veloci esigenze della cronaca.

La fiducia? Non è cosa rara…

Partiamo da una non secondaria “soddisfazione per la democrazia”. Dopo il crollo che ha visto passare dal 42% di soddisfatti del marzo 2008, a un misero 28 del marzo 2013, vi è stata una costante risalita fino ad un sorprendete 53 del novembre 2022. Poco? Forse, ma è comunque un trend che sembra contraddire il pensiero diffuso della “crisi drammatica” della democrazia. Certo, sono questi anche gli effetti delle cattive “prestazioni” delle cosiddette autocrature di alcuni Paesi ben noti, ma di fronte a questo dato (soprattutto perché frutto di un percorso in crescita) occorre riflettere, invece della sterile lamentela, per consolidarlo e farlo crescere.

Secondo elemento, in un certo senso collegato al primo: il tema della cosiddetta “tecnocrazia” (che richiama il tema del merito). Alla domanda se un governo di tecnici sia da preferire a quello di politici (convinzione che per lo più porta a delegittimare partiti e istituzioni, ritenuti incapaci di fare scelte giuste perché affidate a criteri di alleanze e fedeltà politiche) il risultato, se non proprio sorprendente, lascia spazio a qualche interrogativo: sono pari al 47 per cento sia i cittadini che preferiscono che a governare siano i tecnici sia quelli che preferiscono i politici (a fronte di un 6% che non ha risposta). Come dire: da un lato, la democrazia deve essere fondata sul valore, ma dall’altro il meccanismo di scelta tramite il voto popolare è un elemento non rinunciabile

Le istituzioni riemergono dal tunnel?

Poi ci sono le domande esplicite che riguardano il tasso di fiducia dei cittadini nei confronti dei principali soggetti della scena pubblica. Non viene dato direttamente un giudizio, ma lo si fa intendere.

Vengono rilevati due dati rispetto a questo tasso di fiducia: uno relativo alla variazione tra il 2022 e l’anno precedente, l’altro riferito alla variazione tra il 2012 e il 2022. Ebbene, non manca qualche sorpresa. In particolare, per i dati sulla fiducia in partiti e istituzioni.

Cresce la fiducia per il Presidente della Repubblica, sia nel primo che nel secondo raffronto (facile aspettarselo visto il consenso che riscuote Sergio Mattarella ad ogni uscita). Ma cresce anche la fiducia verso istituzioni sempre apparentemente “sotto schiaffo”. Il Comune: solo +3% nella prima rilevazione, ma +10% nella seconda nel secondo). L’Unione Europea: +1% in entrambe. Cresce persino la fiducia nella Regione: ben +17% nel dato “storico”. Ma ecco una vera sorpresa: cresce persino la fiducia che riguarda il tanto vituperato Parlamento: +16% dal 2012 (seppure un tasso sempre bassissimo, il 23%, rispetto ai dati di altre istituzioni). E persino, udite udite, la fiducia nei partiti: una briciola, +1 per cento, nel dato ad un anno di distanza e ben +8% sul 2012 (dati sempre assai bassi – solo un complessivo 14 per cento, segno che i tanto decantati anni “ruggenti” forse sono proprio lontani, o andrebbero riletti bene).

Passiamo allo Stato. Rispetto all’anno scorso la fiducia decresce dell’1 per cento, ma dal 2012 è in risalita del 14%, ottenendo un alto gradimento per il 36 per cento del campione dei cittadini. Poco, per fare massa positiva, vero, ma continuerei a sottolineare il percorso, troppo trascurato da una “legenda” sempre incline al pessimismo. Un dato, inoltre, che fa il paio con il riscontro relativo al gradimento di alcuni importanti servizi: assistenza sanitaria pubblica, scuola pubblica, ferrovie, trasporti urbani, che per tanti cittadini danno volto alle istituzioni nella vita privata. Tutti in crescita rispetto agli inizi del decennio, ma in leggero calo per Assistenza e Scuola pubblica, rispetto al 2021. Qui pandemia e il relativo lockdown hanno lasciato il segno, è bene tenerne conto. Ma complessivamente ci si può chiedere: il settore pubblico, allora, può ancora ottenere consensi? Certo, va fatto funzionare bene….

Il cittadino non appare distratto

Altri campi di indagine, significativi per chi si occupa di società civile, sono quelli relativi al tema della partecipazione. Si era registrata una comprensibile contrazione dovuta alla paura del virus e ancor più al lockdown. Ora, però, riprende la voglia di esserci. Scrivono i curatori del Rapporto: «È vero che la partecipazione elettorale ha sofferto dell’astensione più alta della storia repubblicana, ma su altri fronti si osserva un certo dinamismo. Se si confronta il quadro di oggi con quello pre-pandemico, la distanza appare ancora importante, ma gli italiani stanno recuperando in termini partecipativi. Il volontariato è tra le attività più praticate (42%). Le tematiche ambientali, del territorio e della città hanno mobilitato un cittadino su tre (32%). Anche le azioni più esplicitamente politiche, come partecipare a manifestazioni di partito, proteste e flashmob, hanno coinvolto una componente non trascurabile di italiani (17%). Più dello scorso anno, ma un po’ meno del 2019». Ma allora: sullo stato della democrazia nel nostro Paese perché i giudizi sono sempre scettici e preoccupati? C’è una “narrazione” diffusa e assecondata che vuole lasciare in mano di alcuni (esperti? tecnici? facoltosi? potenti?) le leve del potere? Leggiamo ancora (da Democrazia e (tiepido) orgoglio nazionale di Fabio Bordignon e Alice Securo): «Nonostante tutto, la soddisfazione sul funzionamento della democrazia è cresciuta, negli ultimi anni. Per la prima volta diventa maggioranza (53%) la quota di intervistati che si esprime positivamente. (…) Analizzando i dati del rapporto, tuttavia, sembra mancare una definizione comune di cosa intendiamo, quando pensiamo alla democrazia. (…) È significativo notare come il favore per il governo tecnico cresca soprattutto fra gli under trenta. Sono gli stessi giovani a dichiararsi, in percentuale più ampia, a favore di un “leader forte”. (…) Si intiepidiscono, per contro, i sentimenti di orgoglio nazionale. Tanti gli intervistati che passano dal dirsi “molto” (44%) orgogliosi di essere italiani al più incerto “abbastanza” (39%). Il rapporto era di 65 a 29 all’ingresso nel nuovo millennio. Segno che, anche ai tempi della destra di governo, l’identità italiana non risulta ancora così solida (…) Su una cosa, però, le persone interpellate sembrano essere d’accordo: siamo un Paese dalla corruzione politica endemica, tenace. I cittadini che la percepiscono come più (o ugualmente) diffusa rispetto a Tangentopoli non sono mai scesi sotto l’80% in tutti gli anni di rilevazione»-

Conclusioni

Abbiamo, infine, lasciato da parte il giudizio relativo alla fiducia “concessa” alla istituzione Chiesa. Già non era molto alta nell’anno di rilevazione 2012, (44% per cento), non alta almeno rispetto ad altre istituzioni, scuola, presidente, forze dell’ordine; sebbene più alta di stato, magistratura e sindacati), ma in ulteriore calo del 3 per cento nel 2022. Scandali? Controversie interne? Desacralizzazione degli eventi? O cos’altro? Ci si rifletta su nell’anno del Cammino sinodale.

Ma così come occorrerebbe riflettere con più attenzione anche riguardo alle istituzioni civili. Le modalità di discussione e dibattito andrebbero affrancate da quel giudizio “comodamente” negativista che impregna spesso i nostri pensieri sul comune sentire, e adeguatamente rinforzate da una visione più fiduciosa e possibilista (seppure non scevra dallo spirito critico). Di certo faticosa e responsabilizzante, ma proprio per questo, forse, corretta e foriera di speranze attive.

Vittorio Sammarco

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