Ricordando Marco Bisi, attore
Su Teorema, rivista sarda di cinema: https://teoremacinema.com/iii-canto-del-paradiso-verso-37-a-marco-bisi/
III° CANTO DEL PARADISO, VERSO 37 (A MARCO BISI)
di Gianni Loy
[segue]
Marco, al principio dell’estate, ha scritto la sceneggiatura di un possibile cortometraggio: Il fiore dell’agave. Un titolo evocativo dal forte sapore autobiografico. Ne abbiamo ragionato, attorno al tavolo della trattoria Da Serafino. Una bella scrittura, senza dubbio, Ma la conclusione non mi convinceva, non convinceva neppure il terzo convitato, Carlo, regista di professione, che avrebbe potuto realizzare quel progetto. Marco – il quale, durante la sua vita, aveva pizzicato le corde di altre arti, la poesia, la musica, la recitazione – si cimentava per la prima volta con la sceneggiatura.
Il protagonista – un famoso batterista che le circostanze della vita hanno ridotto allo stato di barbone – viene riconosciuto da una intraprendente giornalista bisognosa di uno scoop per salvare il proprio posto di lavoro. La giornalista, con paziente insistenza, lo convince a ritornare sul palco, almeno per una volta. Il batterista-barbone, dapprima riluttante, finisce per stringere un patto con la giornalista: accetterà di esibirsi, ma per una volta soltanto. Quindi, si rimette a lucido, riprende in mano le bacchette e si prepara per il concerto.
L’esibizione sarà un successo. Al termine dello spettacolo, il batterista, con ancora nelle orecchie l’eco degli applausi, non appena rimasto solo nel camerino – così sta scritto nel copione – “si accascia con le mani sul braccio sinistro, e cade disteso”.
Marco, geloso di quella sua ultima opera prima, ha opposto fiera resistenza al suggerimento di modificare il finale; ha obiettato che, probabilmente, non avevamo ben inteso le sue intenzioni, né quanto di intimo, di personale, fosse filtrato in quelle poche pagine. Si è persino risentito per l’incomprensione. Poi – suo malgrado e senza nascondere la delusione – ha finito per arrendersi. Dopo aver riflettuto – abbiamo avuto occasione di riparlarne nelle settimane successive – mi ha detto che avrebbe riscritto la parte finale. Con l’aiuto di Benny, ha rimesso in bella copia il manoscritto corretto. Lo ha lasciato sopra il rullante della batteria, quella batteria che aveva occasionalmente ripreso ad accarezzare dopo lunghi anni di inattività. Lo ha lasciato nel belvedere da single che si affaccia sul porto, in attesa della prima occasione per riprendere il filo del discorso.
Ma quell’occasione non è mai arrivata – e mai arriverà – perché Marco, un giorno di fine estate , mentre se ne stava da solo – in quella casa che abitava in solitudine – “si è accasciato con le mani sul braccio sinistro ed è caduto disteso”.
Benny, qualche giorno più tardi, mi ha consegnato la seconda, inutile, versione corretta; non ho voluto leggerla, perché arrivata oltre quella immaginaria unità di tempo che il teatro, in qualche modo, talvolta ancora venera.
Marco Bisi è sconosciuto ai più. È arrivato tardi al teatro, dopo una vita passata a dare il ritmo con la batteria ad orchestre in tutto il mondo – a lungo nelle grandi navi da crociera, – spesso piegandosi ai capricci di quel pubblico, ma conservando, nell’anima, la primitiva passione per il jazz.
È sbarcato a Cagliari, diventandone cittadino, per seguire l’itinerario lavorativo di Giovanna, sua moglie. Dalle banchine della sua nuova residenza si è, poi, nuovamente imbarcato, al seguito di Francesco Origo, ligure come lui, per una nuova avventura, stavolta per il teatro, il teatro di mare.
L’ho incontrato molto più tardi, non molti anni fa, quando Giovanna era già andata via, all’improvviso; anche lei portandosi le mani sul braccio sinistro ed accasciandosi.
L’ho incontrato in preda alla depressione causata da quella perdita, l’ho incontrato non perché attore nella nuova imbarcazione, ma come il vicino di una casa che aveva venduto all’indomani della tragedia, che non era ancora riuscito ad elaborare il lutto. Abbiamo perduto il tempo, in principio, tra i tavolini di una bar, a chiacchierare di letteratura e di cinema. E di poesia, e trovavo strano, e, allo stesso modo, entusiasmante, poter ragionare con qualcuno di una passione che, il più delle volte, si coltiva in solitario. Marco era colto, molto colto. Aveva anche pubblicato, da giovane, un libro di poesie, prima di dedicarsi anima e cuore, a dare il tempo agli orchestrali. Avevo persino trovato similitudini e comunanze, in quelle liriche, con quanto anch’io scrivevo negli stessi anni lontani. Del resto, eravamo coetanei e il mondo che ci ruotava attorno era lo stesso.
Era piacevole insomma, chiacchierare, tra un aperitivo ed un caffè, scacciando i piccioni insolenti che pretendevano le briciole che cadevano sul tavolino, confidenze che si sospendevano, di tanto in tanto, in una breve pausa di silenzio, per un voluttuoso tiro all’immancabile sigaretta elettronica. Se al ristorante, invece, – di solito Da Serafino, ma con qualche eccezione – si chiudeva con un bicchierino di grappa barricata.
Era piacevole, insomma. Poi, è capitato di sapere della sua esperienza con il teatro di mare, di come la nebbia avesse invaso il suo orizzonte, da quando Giovanna non poteva più stargli al fianco, di come avesse appena visto andar via il suo capitano. Le amicizie, tuttavia, le aveva mantenute solide, venerava gli amici.
Al teatro siamo giunti quando abbiamo incominciato a scambiare dei fogli che, chissà perché, erano rimasti nel cassetto. Quasi per gioco, una piccola rappresentazione, ma qualcosa cominciava a sbloccarsi. Aveva ripreso il mare con Francesco Origo, aveva ricominciato a collaborare con Alessandro Olla. E, poi, nel cinema, un’icona: il suo volto nell’Ultima habanera di Carlo Licheri. La sua ultima voce nell’audiolibro Eva e Petra.
Insomma, il famoso batterista, che le contingenze della vita avevano portato sull’orlo del baratro, era riuscito, con fatica, a imboccare l’uscita del labirinto. Si era ripreso la scena. Da ultimo, si cimentava persino nel ruolo – che non gli conoscevo – della scrittura cinematografica.
A questo punto, un finale a lieto fine sarebbe stata la naturale conclusione. Ed invece, Marco ha sostenuto sino all’ultimo, con caparbia, un’altra versione dei fatti, e non ha voluto modificare l’epilogo.
Spesso, in occasione della prima, vien chiesto ad una autore quanto di autobiografico vi sia nel suo ultimo lavoro.
Nel caso di Marco, ahinoi, c’è troppo!
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