Pace, Pace, Pace
Rocca è online!
Quando viene Natale.
L’editoriale di Mariano Borgognoni*
Capisci che s’avvicina il Natale da qualche timida luminaria davanti alla casa di gente frettolosa e impaziente o dinanzi ad un negozio ruffiano ed ingenuo. Ma soprattutto lo avverti dal saltibeccare nei vari pollai televisivi di Vespa e Mieli, Veltroni e Vattelapesca a propinarti la politica in un pragmatismo che lobotomizza l’anima. Eppure una crescente disuguaglianza sul piano globale e dei singoli Paesi e una benedetta inquietudine antropologica chiama a responsabilità. Non basta la forza cieca del mercato ad aggiustare il mondo. L’assorbimento della politica nell’economia non può produrre che libri da intorto per dirla col mitico Maestrone, signore di Pavana e coltivatore dei nostri sentimenti migliori.
E anche dal fatto che cambia il tempo e c’è nebbia in Val di Tara. Ma di questo non voglio parlare: sarebbe umiliante entrare nel merito. Poi c’è la guerra qui da noi, in Europa. E Gesù bambino se proprio al freddo e al gelo ha da nascere, non può farlo che lì. Se ne accorgeranno in pochi, more solito. Non ne parlerà nessuno come nessuno parla di pace. Chi ne parla poi non ha divisioni da mettere in campo. Eppure dovremmo cercare di combattere per una pace giusta anche dentro questo senso di impotenza che tende a paralizzarci, nella consapevolezza che, come amava ripetere Paolo De Benedetti citando i maestri d’Israele: «Non sta a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene».
Come dovremmo fare di più per sostenere la grande, eroica lotta delle donne iraniane contro la tirannia fondamentalista che nega i diritti essenziali ad una vita dignitosa e libera. È di grande conforto vedere insieme a loro tanti uomini, nelle vie di Teheran e di altre città. E quel silenzio dei calciatori iraniani al momento dell’inno vale più di un mondiale. A queste donne e a questi uomini abbiamo voluto dedicare l’ultima copertina dell’anno, con un titolo che vorrebbe far riflettere su come anche le regole del linguaggio, figlie di una lunga storia, possano essere ribaltate dalla forza di una speranza difficile che, quella storia, cerca di cambiare. «Sorelle tutti» può diventare in tante circostanze il modo più profondo per dire «Fratelli tutti».
In ogni caso quello che sembra mancare a questi piccoli e grandi fronti e gesti di lotta per alleggerire il mondo dall’ingiustizia
è un orizzonte. Un ideale e una convinzione che si possano costruire società diverse: più libere e più ugualitarie. Pesa il fallimento dei vecchi sogni e il chiudersi del caos, convulse costellazioni di «particulari» che non fanno sintesi. La profezia di Fukuyama sulla fine della storia giunti, dopo l’89, al migliore dei mondi possibile, sta mostrando la corda. Bisognerà immaginare una radicalità di pensiero e di azione che torni, in modo nuovo, sulle grandi speranze che continuano a covare in quel «guazzabuglio del cuore umano». Sono affezionato ad antichi nomi cristiani e socialisti ma se ne cerchino pure di nuovi, se si vuole, per dare gambe e forza ad un cammino di umanizzazione.
In questo tempo di Avvento, che ci porta verso il Natale, noi cristiani siamo invitati a cogliere e vivere la dimensione dell’attesa. Un’attesa vigile, attenta, perseverante, fiduciosa, operosa. Attesa che è anche attendere qualcosa, non solo attendere Qualcuno. Attesa è non addormentarsi ma continuare a pensare, a fare, a costruire. Sapendo che questo è «il cammino dell’uomo» per dirla con il titolo di un magnifico libretto di Martin Buber. Non sentirsi mai arrivati, mantenere un’apertura, che è un grimaldello critico per scardinare ogni ossificazione ideologica e ogni sacralizzazione del presente.
C’è una fecondità laica nella cifra dell’Avvento che, nella storia, resta un orizzonte irraggiungibile e per questo prezioso, perché muove speranze e al contempo marca un limite. Ed è proprio dentro questo limite che donne e uomini definiscono la loro identità.
Infine, per noi cristiani, in questo cammino comune con le donne e gli uomini del nostro tempo, resta da sussurrare la fede che il Regno verrà nella sua pienezza per tutti, ma soprattutto per gli umiliati e gli offesi di ogni tempo. Quelli che nessuna rivoluzione potrebbe salvare. Quelli senza il cui riscatto nessuna giustizia sarebbe possibile. Buon Natale!
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*ROCCA 15 DICEMBRE 2022
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Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri.
Newsletter n.285 del 1 dicembre 2022
LE ARMI NON FINISCONO MAI. GLI UCRAINI INVECE SÌ.
di Raniero La Valle
Cari Amici,
mentre nell’azione di governo i “valori dell’Occidente” appaiono in via di estinzione, in nome dei “valori dell’Occidente” governo e Parlamento si apprestano a mandare altre armi all’Ucraina, Questo vuol dire che la guerra non finirà mai perché, come dice Lucio Caracciolo, America Russia e Cina si sono messe d’accordo di non usare l’arma atomica e perciò, data questa garanzia, la guerra può continuare all’infinito. Infatti una guerra può finire o con un negoziato, o con la vittoria o perché finiscono le armi, o perché finiscono i soldati. Nel nostro caso il negoziato è escluso da Zelensky, e la Russia, che pur ne avrebbe bisogno per la catastrofe che le sta procurando una guerra incauta e sbagliata, ci deve rinunziare. Con la vittoria non può finire, perché nessuno ne è capace e chiunque vincesse, perderebbero tutti e si innescherebbe una tragedia senza pari. Quanto alle armi, all’Ucraina non possono finire, perché l’America e tutto l’Occidente ne rimpiazzano continuamente gli arsenali, mentre Ursula von Der Leyen, Stoltenberg e tutto il corteggio dei loro seguaci non fanno altro che attizzare l’odio per la Russia, necessario per la guerra ad oltranza. Ma se non finiscono le armi, saranno gli Ucraini a finire. E continuare la guerra finché non finiscono gli Ucraini, a quali “valori” corrisponde? Che valori sono quelli per i quali si manda a morire un popolo intero sull’altare di un sacrificio i cui officianti si gloriano della loro laicità, per i quali l’icona del condottiero si innalza su città distrutte, bambini uccisi, eserciti decimati, speranze infrante, per i quali senza esclusione di colpi si combatte la lotta tra “democrazie” e “autocrazie”?
Dovremmo avere qualche remora ad appellarci ai valori dell’Occidente, non solo per il loro cattivo uso, ma perché proprio nell’affermarli, essi si dissolvono. Essi sono fatti consistere nella loro superiorità e differenza rispetto a quelli dell’Oriente, e anzi del resto del mondo. E ciò succede fin da quando si sono messi a confronto con quelli delle Indie appena scoperte, dei “popoli della natura” contro “i popoli dello spirito”, secondo le classifiche di Hegel. Dovrebbero essere invece i valori dell’universalità, che quando si rivendicano come propri, antagonisti ed esclusivi, proprio allora in quello stesso istante si perdono.
Dovrebbero essere infatti i valori semplicemente umani: quelli per i quali padre Balducci diceva che chi aveva bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentazioni sul proscenio delle culture non lo cercasse, perché non era che un uomo, e Alberto Einstein costretto ad emigrare negli Stati Uniti, scrisse: razza umana, sul formulario che alla dogana gli chiedeva di denunciare di che razza fosse, e Kant affermava che gli eserciti sono in se stessi, ancor prima del loro uso, minaccia agli altri popoli.
Essi intanto sono valori in quanto non rinnegano e non discriminano nessuno, non il nemico, non i paria, alla cui condizione Biden vuole ridurre i Russi. Ci sarebbe un modo invece per finire la guerra: non mandare più armi e in contropartita chiedere alla Russia di congelare le sue, e allora la guerra si esaurirebbe da sé. Ma purtroppo questa ipotesi è ben lontana dal potersi realizzare, ed è per questo che ci viene promessa una guerra infinita. Ma fino a quando?
Nel sito pubblichiamo un articolo di Domenico Gallo sull’invito alla guerra da parte dei Parlamenti dell’UE e della NATO.
Un cordiale saluto,
www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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Martedì a Cagliari bella assemblea con il Presidente dell’ANPI Pagliarulo: ecco l’intervento.
Si è svolta martedì 29 cm a Cagliari un’affollata assemblea con il Presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo. Sono intervenuti, oltre ai dirigenti sardi dell’Anpi, il segretario regionale della CGIL e quello dell’Arci, dando vita ad un interessante confronto sui temi del lavoro, della guerra e della pace nonché della crisi socio-culturale del Paese. Ha concluso il presidente nazionale dell’ANPI, con un intervento, di cui pubblichiamo una sintesi, ricordando che Pagliarulo ha tralasciato i temi già trattati negli interventi di apertura.
Svolgiamo questo incontro in un tempo drammatico, quello di una sconfitta di portata storica. E ha fatto bene chi mi ha preceduto a porsi e a porre una serie di interrogativi, a cominciare dal fatto che è cambiato il mondo. Mi permetto di aggiungere a queste riflessioni qualche parzialissima considerazione.
Credo che occorra ragionare su due parole: sovranisti e conservatori. Il termine sovranismo di estrema destra è un neologismo che richiama immediatamente la più classica parola nazionalismo. Certo, è cambiato il contesto: non siamo più all’inizio del Novecento o negli anni 20 o negli anni 30. Il sovranismo attuale mi pare in gran parte motivato da una reazione ad alcuni aspetti della globalizzazione. Non prevale per ora la violenta aggressività politica e anche militare del nazionalismo novecentesco. Al contrario il sovranismo sembra caratterizzato dall’idea di una chiusura nei propri confini come a definire una priorità di valori e di interessi: “American first” o “Prima di tutto gli italiani” sono slogan di chi si immagina in una fortezza assediata con il nemico alle porte, a cominciare dall’UE che di per sé non gode affatto di buona salute.
Eppure del nazionalismo classico l’attuale sovranismo sembra conservare alcuni tratti distintivi, come la propensione all’autoritarismo, la tendenza a superare i confini costituzionali, l’idea spesso inespressa della presunta superiorità di quel determinato popolo, di quella patria, di quell’insieme di terra e sangue – terra e sangue! – nel cui nome fu scatenato il più drammatico conflitto della storia dell’umanità, la Seconda guerra mondiale.
Conservatori è invece una parola antica e non a caso Giorgia Meloni è presidente dei Conservatori riformisti europei. Ma il significato di questa parola è molto cambiato. Conservatore è l’ex leader inglese Johnson, conservatrice è Liz Truss, entrambi caratterizzati da una radicalità molto lontana dal tradizionale costume dei tories. Neocon, neoconservatori, è il nome di quella corrente americana che si incarnò nel governo di Bush Junior e nella teoria dell’esportazione manu militari della democrazia. A suo modo conservatore è Donald Trump, portatore di una politica protezionista e isolazionista. In sostanza oggi la parola conservatore è relativamente indefinita e sovente si sposa con le parole oscurantista, nazionalista e, spesso, isolazionista. C’è un grumo di idee, emozioni, giudizi e pregiudizi diverso da Paese a Paese ma comune in tanti Paesi che racchiude una miscela composita di “ismi”: oscurantismo e nazionalismo, come già detto, e assieme razzismo, autoritarismo, neofascismo, neonazismo, con una spiccata propensione al rifiuto delle conquiste della scienza, all’irrazionalismo, qualche volta al misticismo religioso o profano, quella cosa premoderna che alcuni chiamano “pensiero magico”.
Conservazione in questa nuova indefinita accezione e sovranismo come una sorta di novello nazionalismo sono quindi, a mio avviso, le parole chiave dell’estrema destra attuale nel mondo e in Italia.
Tutto ciò non è nato da ieri a oggi, non è una Minerva che nasce miracolosamente dal cervello di Giove, ma ha una lunghissima incubazione, presumo quantomeno una trentina d’anni. Da quanti decenni la Lombardia è in mano al centrodestra? Tutte le regioni del nord Italia sono in mano alle destre dal 2020. 14 regioni sono dal 2020 al centrodestra e cinque al centrosinistra. E i Comuni? E ancora: quanto è cambiato il Paese dal 1994 con Silvio Berlusconi che vinse le elezioni? Voglio dire che la Meloni non è frutto del destino cinico e baro, ma l’esito di una lunga fase preparatoria e assieme – penso – l’avvio di una nuova fase.
Questa lunghissima incubazione coincide con eventi che hanno profondamente cambiato il mondo e che sono interconnessi: dalla rivoluzione tecnologica-informatica ai cambiamenti dell’organizzazione e in alcuni casi del lavoro. Se questo processo ha assunto forme diversissime da Paese a Paese, in un punto è relativamente costante: il progressivo e sempre più veloce aumento delle diseguaglianze sociali. Non è un mistero che la maggioranza degli elettori popolari si riconosce nei partiti di destra in Italia, o che a maggior ragione negli Stati Uniti il consenso di Trump è acquartierato di gran lunga nella grande provincia.
La politica che chiamiamo democratica e di sinistra ha in gran parte smarrito i legami sociali e la connessione sentimentale con gran parte del suo popolo e si è allontanata dal mondo del lavoro, che a mio avviso rimane il cuore del problema. Se ci avviciniamo al nostro Paese osserviamo che i partiti costituenti sono tutti scomparsi; il più vecchio partito oggi presente in Parlamento è la Lega; i partiti attuali hanno smarrito la funzione fondativa che avevano svolto dal dopoguerra fino agli anni 70, e che era fondamentalmente duplice: erano l’anello di congiunzione fra la società e lo Stato, fra il popolo e le istituzioni operando così una virtuosa correzione a un difetto storico del nostro Paese fin dai tempi dell’unità. E svolgevano anche un ruolo fondamentale di formazione civile educando alla politica milioni e milioni di persone in particolare attraverso i grandi partiti di massa. Tutto questo non c’è più e oggi siamo, per così dire, nudi alla meta nella inedita circostanza del primo governo repubblicano a guida di estrema destra post fascista. Aggiungo a questo proposito che non mi pare corretto parlare di un governo fascista tout-court e anche di un partito fascista tout-court, Fratelli d’Italia. Uso le parole di Alberto Olivetti quando ha parlato di Fratelli d’Italia come di un partito con elementi di fascismo in sospensione. Il che non esclude affatto né la presenza di vocazioni autoritarie, come si più leggere nell’infelicissimo decreto cosiddetto anti-rave e nelle dichiarazioni programmatiche sul semipresidenzialismo e sull’autonomia differenziata, né esclude possibili future degenerazioni. Questa nuova conformazione dei partiti rende spesso asfittiche, parziali o del tutto assenti le loro capacità di proporre analisi articolate della realtà, com’era invece costume dei partiti di massa.
Il mondo dell’associazionismo, che per sua natura non tende ad essere né partito né istituto di ricerca, si trova nella particolare condizione di provare a riempire questo vuoto dando vita a momenti o a luoghi di riflessione e di analisi come per esempio state provando a fare voi, come stiamo provando a fare noi, come stanno provando a fare altri soggetti associativi.
Ma nella particolarissima situazione attuale, nel pieno di una guerra che sembra sempre più pericolosa e vicina, quando tutti sentiamo che possono essere messi in discussione i pilastri del vivere comune, e cioè la Costituzione e i suoi princìpi di libertà e di eguaglianza, si ridefinisce nella realtà quotidiana anche una parte dei nostri compiti: per ciò che riguarda l’ANPI agli obblighi legati alla memoria e anche ai sacrosanti riti laici ad essa legati, come le commemorazioni, i giri con le corone, l’ossequio commosso alle lapidi, si aggiunge – sottolineo: si aggiunge, non si sostituisce – un plus di impegno civile e sociale teso sia all’attività di formazione civica – le scuole – e culturale, sia alla ricostruzione di un rapporto di fiducia fra popolo e istituzioni democratiche. A quest’ultimo proposito la drammatica consumazione di quel rapporto di fiducia si manifesta sia con quanto di protesta c’è stato nel voto per l’estrema destra, sia in quel 40% di elettori che non ha votato o che ha annullato la scheda. Credo, in sostanza, che questa sia la grande sfida a cui noi, voi, l’intero mondo dell’associazionismo, sia pur con toni diversi a seconda della natura delle Associazioni, siamo chiamati.
In questa situazione una più generale prospettiva di unità deve rapidamente passare dal libro dei sogni al sogno che si concretizza, anche perché a ben vedere il Novecento ci ha insegnato questo nel male e nel bene. Nel male quando il fascismo prevale dal ’22 in poi anche grazie alla divisione fra le forze antifasciste del tempo. Nel bene quando dal ’43 in poi la politica dei Comitati di Liberazione Nazionale fu alla base della vittoria della Resistenza e dei primi anni successivi alla Liberazione.
Finisco.
Nella nebbia che da tempo ci avvolge, il tema della deportazione politica, come giustamente ha detto chi mi ha preceduto, troppo spesso è stato oscurato o addirittura dimenticato. Forse c’è un punto di malizia politica in questa rimozione, connessa ai tentativi di delegittimare la Resistenza. Si tratta di un ulteriore argomento di riflessione tutto sommato proprio dell’insieme delle Associazioni antifasciste e resistenziali a cominciare dall’ANPI. Ricordo anch’io la grande importanza della costituzione del Forum delle associazioni perché per la prima volta dopo tanti decenni stiamo provando a mettere a valore tutto ciò che ci unisce e senza dubbio, con tutte le difficoltà e le contraddizioni della vita reale, questo processo andrà avanti in una prospettiva unitaria di cui non conosciamo tempi e modalità ma che è oramai tracciata. Voi tutti siete una parte essenziale e insostituibile di questo processo unitario ed è interesse non solo vostro, ma dell’ANPI, del Forum, del mondo dell’associazionismo, del nostro Paese, che il vostro patrimonio non vada disperso. Perché? Perché prima d’essere un pezzo di storia d’Italia è un pezzo di storia degli italiani; è un patrimonio di sofferenza, di vita e di pensiero, unico e insostituibile.
Carissime compagne e compagni, buon lavoro!
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