RECENSIONE
PICCOLA FENOMENOLOGIA DEL CICLISMO SU STRADA
di Gianni Loy
Caro Paolo,
ho ricevuto e già gustato, a lunghi sorsi, la tua “Piccola fenomenologia del ciclismo”, che poi tanto piccola non è. La lettura mi ha riportato indietro degli anni, un poco più in là di quelli della tua iniziazione alle discipline sportive. Io, per esempio, Fausto Coppi l’ho visto dal vivo (si fa per dire, ero ancora bambino) in occasione di un circuito esibizione svoltosi a Cagliari nella seconda metà degli anni 50. Ed ho vissuto dal vivo anche quello strano campionato del mondo di Reims del 1958, minuto per minuto sulla stampa e in televisione. Aspettavamo, forse, Fausto Coppi, anche se sapevamo quanto fosse impietoso lo scorrere del tempo; ed invece usci inaspettatamente dal mazzo un cronoman, Ercole Baldini. Ma più probabilmente, per tornare alle tue categorie, fu la vittoria di una squadra, Fausto in testa, che riuscì a bloccare la corsa alle spalle dei fuggitivi. Il più grande? Il più forte? Merckx era ancora di là da venire il paese era diviso tra i tifosi di Bartali e quelli di Coppi. Io, seppure ancora bambino, ero tra questi ultimi e plaudivo al refrain che circolava al quel tempo: “Prima Coppi e poi Leoni, e dopo un’ora di distacco, arriva Bartali distaccato”. Ma cosa mi spinse tra i tifosi di Coppi, tuttavia, proprio non lo so. Sensazioni?
Ciò, in principio, per dirti quanto mi trovo in sintonia con il tuo gradevole e divertente (sì, anche divertente) manuale sul ciclismo.
[segue]
Ho un fratello che, a 15 anni, ha abbandonato la scuola per il ciclismo, ha corso tra gli esordienti e tra gli allievi, prima di ritornare sui banchi di scuola, due anni più tardi, e laurearsi in medicina: una vittoria dell’ostruzionismo dei genitori contro il ciclismo inteso come professione. Ha però continuato in qualità di amatore – l’unico terrore i cani lungo il percorso – sino a pochi anno orsono (ne ha quasi ottanta) senza trascurare di cimentarsi con alcune classiche, come l’eroica, e di scalare il Mortirolo.
Ha tentato insistentemente di contagiarmi quella sua passione, regalandomi maglietta e calzoncini da gara e lasciando parcheggiata nel mio garage, di tanto in tanto, la sua bicicletta con licenza d’uso. L’ho utilizzata, solo qualche volta, prima di comprarmene una a mia volta, ma il virus non ha attecchito, ché la mia predilezione era rivolta verso altre discipline. A partire dai 13 anni me ne andavo da solo ad allenarmi nella corsa campestre, e poi piccoli tornei di calcio, di pallavolo, di basket. Sinché a 16 o 17 anni, il medico non mi proibì, spaventandomi, ogni attività sportiva a causa di una grave (così diceva) disfunzione cardiaca. In realtà, pare fosse un semplice soffio funzionale ….
Così, ho sublimato con la panchina. Ho preso il tesserino di allenatore di basket e, per qualche anno, ho allenato una squadra femminile.
Più tardi, una quindicina d’anni dopo, ho ripreso a giocherellare a pallacanestro, giusto qualche piccolo torneo amatoriale. Passati i 55 anni, la passione per la corsa si è rifatta prepotente e, visto che l’organismo non sembrava risentirne, ho anche ripreso a gareggiare. La prima volta in campionato italiano di corsa per dipendenti universitari, ad Alghero; poi ho insistito e partecipato a diverse “mezze” e tre maratone (due a Madrid e una a Roma). Sono stato fermo per qualche anno, a causa di una malattia, poi il richiamo della foresta ha avuto il sopravvento; a partire dallo scorso anno, ho ripreso con la partecipazione ai campionati dei dipendenti universitari, lo scorso ottobre a Firenze. Piccoli trofei che mi gratificano.
Quanto alla bicicletta, l’ho rispolverata nell’estate di qualche anno fa, suscitando la curiosità degli amatori incuriositi per il fatto che circolassi con una bicicletta d’antiquariato.
Condivido, con te, anche la passione per tutti gli sport, con qualche graduazione, ma per tutti. Ho cominciato, anche in questo caso, qualche anno prima. Il 1960 è stato esaltante. La Rai regalava un volumetto che indicava tutte le gare dell’Olimpiade, date, ora, e addirittura una casella in bianco dove scrivere il risultato.
È proprio vero, come dici, che le tecniche di ripresa televisiva hanno esaltato alcune discipline, tra queste il ciclismo. Ricordo le primissime trasmissioni di sci, dove si percepivano soltanto macchie in bianco e nero in mezzo alla nebbia (non quella atmosferica, ma quella prodotta dal tubo catodico) che barcollavano tra le bandierine. Ed ancor oggi mi viene un sussulto di nostalgia quando, nel rivedere squarci di sport d’altri tempi, osservo come si vestiva diversamente. Ricorderai i calzoncini cortissimi e le magliette attillate. A guardarli sembra sia avvenuto un mutamento antropologico.
Hai proprio ragione, la tecnica esalta la fruizione, in qualità di spettatori, di diverse discipline. Nel ciclismo, il passaggio dall’aeroplano all’elicottero è stato spettacolare. Le immagini che descrivi, quelle lunghe file di girini sospese tra terra e cielo, mi hanno sempre entusiasmato, Ma non è finita, il bello deve ancora venire, anzi, già bussa alla porta. Avrai avuto modo di osservare, in alcune discipline sportive, l’ utilizzo dei droni, che consentiranno di viaggiare fianco a fianco con il girino di turno e, volendo, interrogandolo prima dello scatto.
Tuttavia, non si possono dimenticare gli eccessi. Grazie a piccole telecamere piazzate dappertutto, non di rado, regie inavvedute, anziché accompagnare il gesto sportivo fanno sfoggio delle meraviglie della tecnica, demoralizzando così l’aspettativa dello spettatore, interessato, prima di tutto, al gesto sportivo. Per non parlare di telecronisti. Ah, quelli di un tempo! Un gioco che praticavamo da bambini era quello di imitare la radiocronaca di una partita di calcio; cioè, manco a dirlo, tentare di replicare la fantasmagorica sequenza di passaggi, rapidi e precisi, che illuminavano i pomeriggi domenicali con la voce di Nicolò Carosio e si concludevano, immancabilmente, con il gol, la parata o il quasi “quasi gol”.
Oggi, anche nel ciclismo, siamo spesso lasciati in balia delle immagini, mentre due telecronisti e l’ospite chiacchierano tranquillamente, senza avvedersi, a volte, di uno scatto, di una caduta, di un ricongiungimento … Senza niente togliere, in questo hai ragione, alla didattica del paesaggio, della storia e dell’arte, che meritoriamente, ormai da qualche tempo, accompagna le prime ore della telecronaca.
Il mondo è cambiato, altre esigenze si affacciano, lo scrivi. Tuttavia, non hai voluto affondare la lama sulla lenta mutazione genetica che interessa non poche discipline sportive. Le regole vengono modificate non in funzione dell’evoluzione, ontologica, della disciplina stessa – che sarebbe ed è apprezzabile, perché tutto scorre – ma in funzione neppure dello spettacolo, che sarebbe ancora accettabile, bensì degli interessi economici, sempre più forti, che si muovono dietro le quinte dello sport. È per esigenze economiche – sia nell’accezione dell’organizzazione del palinsesto che del preponderante interesse della pubblicità – che diversi sport hanno rivoluzionato i propri regolamenti. Così il tennis si è votato al tiebreak, si affaccia il punto killer, nella pallavolo è scomparso il cambio palla.
La pallacanestro ha raddoppia i suoi tempi, declinano i tre secondi in area ma arrivano i canestri da tre… Anche il ciclismo, almeno nella pista, è in continua evoluzione. Il tandem di Beghetto e Bianchetto – come dimenticarli – è andato in soffitta da oltre un quarto di secolo per lasciare il posto a sempre più variegate discipline nel tentativo di riportare spettatori sugli spalti dei velodromi. Il surplace di Maspes poteva anche risultare eccessivo, lasciare il telecronista senza parole, e persino annoiare qualche spettatore, non lo nego, ma era la competizione allo stato puro, senza esclusione di colpi.
I primi, romantici, sponsor sono stati sostituiti da potenti gruppi multinazionali. Sembra, a volte, che l’interesse sportivo passi in secondo piano. Nel calcio ed in alcune discipline è ormai di tutta evidenza. In luogo di una competizione sportiva si spinge verso l’organizzazione di un circo spettacolo ad inviti. Si avverte, un po’ anche nel ciclismo. Il rapporto economico determina le gerarchie. A chi è stato assunto con le mansioni di gregario, a volte, non è consentito tagliare il traguardo prima del proprio capitano. Ho il dubbio che qualche tour, o giro d’Italia, senza la tirannia delle gerarchie, sarebbe stato vinto da un gregario, si fa per dire. Quando vedo un gregario faticare tappa dopo tappa, tirare come un forsennato il gruppo in tutte le salite e poi classificarsi ai primissimi posti della classifica generale, mi chiedo cosa avrebbe potuto fare se lasciato libero di gestire la propria gara. Probabilmente, è proprio per qualche clausola del contatto che alcuni campioni non sono mai diventati campioni. Il libero mercato, lasciato senza governo, non ha mai portato niente di buono, neppure nel ciclismo. Lo strapotere economico, se esente da controlli, è in grado di influire sulla classifica fiale più di qualche tratto di pavé o di una salita alpina. E questo non ci piace. La riduzione del numero dei componenti che compongono la squadra potrebbe essere almeno un correttivo.
Armstrong, lo lasci intendere senza reticenze, non è certo il santo della tua devozione.
Condivido l’opinione. Non tanto, o non solo, perché ha costantemente fatto uso – diciamo così – di “prodotti proibiti”, ma per l’ipocrisia a livello collettivo – per continuare ad utilizzare le tua categorie – e per l’arroganza sul piano individuale. Il collettivo, innanzitutto, perché la sistematica violazione dei regolamenti ha potuto aver luogo grazie al silenzio complice di una parte del mondo che ruota attorno al ciclismo, compresi alcuni segmenti deputati proprio al controllo. Non ti sfugge, certamente, che la vera guerra al doping arriva dall’esterno del mondo del ciclismo, dalla gendarmeria francese.
Probabilmente, c’è una ragione se proprio in Francia, e sul piano della giustizia civile, e non di quella sportiva, si sono manifestati i primi forti segni di reazione ad un fenomeno che, ipocritamente, covava sotto la cenere. Anche sul piano individuale, ché non possiamo dimenticare con quanta arroganza il campione inattaccabile ha voluto punire, sino
all’umiliazione, un passista che aveva preteso di andare in fuga in una tappa del Tour dopo essersi dissociato dal coro confessando di aver acquistato sostanze dopanti da un medico che Armstrong ben conosceva. Filippo Simeoni non compare nella tua fenomenologia, perché un campionato italiano in linea è ben poca cosa rispetto ai requisiti da te richiesti per essere ammessi nell’Olimpo del ciclismo. Tuttavia, almeno una piccola citazione a piè di pagina, quel gregario lo meriterebbe.
La quesitone del doping non riguarda solo il ciclismo, lo ricordi opportunamente.
Abbiamo visto lo spogliatoio di qualche stadio di calcio trasformarsi in farmacia. È problema etico e, purtroppo, anche espressione di un mondo dello sport sempre più dipendente dagli interessi economici. Mi chiedo, a volte, come dovremmo valutare l’impresa sportiva ottenuta, con alta probabilità, grazie all’aiuto di qualche sostanza; cosa
debba rimanere della gloria di chi, grazie al doping, abbia conquistato l’aureola del campione. È tema delicato, anche perché la responsabilità non può essere attribuita a tutti allo stesso modo. Alcuni dei trasgressori, non sembri un paradosso, in realtà sono vittime.
Non possiamo certo graduare la responsabilità di ciascuno, ma le modalità ed il comportamento di chi abbia gonfiato i risultati con pratiche illecite ci aiuta, per quanto possibile, a differenziare. Il rispetto della persona, pertanto, non può mai venire meno. Ci è stata insegnata, da tempo, la differenza tra il peccato ed il peccatore, è bene continuare a tenerla presente. Si può ritirare il titolo conseguito con la violazione delle regole, ovviamente, ma molti di essi possono continuare ad essere ricordati come campioni.
Come campioni, ma non come modelli, non come esempi da imitare per i giovani che intraprendono un’attività sportiva. Eppure, non so se l’hai percepito, purtroppo, per eccesso di zelo, ciò accade. Non è consentito canonizzare e proporre per la santificazione, a cuor leggero chi abbia superato quei limiti “al di qua e al di là dei quali – come insegna
Orazio – non può esistere la rettitudine.”
Oltre che rigoroso storico e attento esegeta di quel mondo, si comprende che sei, allo stesso tempo, un appassionato sportivo, e non solo del ciclismo. Potrei definirmi anch’io un appassionato sportivo. Tifoso, non più, almeno per il calcio. Mi chiedo che senso abbia “tifare” per una società per azioni. Mi è chiaro che la spinta dell’investitore che mette su una squadra di calcio, o una megagalattica squadra ciclistica in grado di competere, in contemporanea, nelle manifestazioni di diversi continenti, non può essere la passione che sosteneva, un tempo, il patron di una squadra ciclistica. E quanto al doping, tutte le volte che assisto all’impresa di un giovane campione, mi riferisco al ciclismo ma anche ad altre discipline, atletica compresa, mi viene da commentare: Speriamo che sia tutto frutto della sua preparazione; ché non posso mettere la mano sul fuoco sulla limpidità di nessuna prestazione sportiva e mi tormenta l’idea di dover convivere con il dubbio sull’autenticità del risultato. È per questo che tifoso non posso più esserlo, semmai lo sia mai stato veramente, piuttosto un appassionato che continua ad amare l’estetica del gesto sportivo e lo sforzo agonistico. Anche se, ogni tanto, continuo a compiacermi per la bella prestazione di un atleta che vesta di azzurro.
Caro Paolo, prendo atto che, nelle conclusioni, non resisti alla tentazione di formulare una graduatoria di merito tra i campioni del ciclismo, quelli di oggi e quelli di ieri. Impresa pressoché impossibile – mi sembra che tu ne sia consapevole – per mancanza di criteri obiettivi e la presenza di troppe variabili. Del resto, la classifica è parte costitutiva dello sport agonistico. Ogni competizione richiede un vincitore; l’ex equo – per quanto a volte
inevitabile – è sempre un ripiego. Le categorie che proponi – costruite sulla tipologia e la frequenza dei successi – sono intriganti, consentono una buona visione d’insieme e rinfrescano la memoria di chi, seppure ben accomodato nella poltrona del salotto, si è guadagnato il titolo di suiveur. Ma poi, cedendo alla domanda finale, da un milione di
dollari, non ti ritrai dalla tentazione di scegliere il vincitore assoluto. Sino all’ultimo, tuttavia, cerchi di schivare la domanda introducendo un dualismo: le categorie, solo in parte coincidenti, del “più forte” e del “più grande”. Così ci consegni due finalisti: un “campionissimo” di casa nostra ed un “cannibale”, né fiammingo, né vallone.
Arzigogolando tra diverse etimologie – “il più forte” o “il più grande” – confessi un dubbio amletico; ma hai in testa, non v’ha dubbio, il nome del vincitore unico. Non lo rivelerò, per non togliere ai lettori la suspence.
Se dovessi riscrivere la parte finale del tuo saggio, probabilmente, scaccerei la tentazione di stabilire chi sia stato il più grande. Il ciclismo su strada, differentemente da quanto avviene in altre discipline, come l’atletica, non si presta ad esser misurato coi minuti o coi centimetri. È vero che molti campioni della strada si sono misurati sul record dell’ora, particolare non insignificante dei rispettivi possono , quasi a voler testimoniare di
essere corridori capaci di competere in tutte le specialità, ma il numero delle vittorie non è comparabile all’oggettività del tempo impiegato per correre 200 metri o i centimetri che si è capaci saltare, o la distanza, obbiettiva, che raggiungono un peso, un disco, un giavellotto. Per diversi motivi. Intanto per le circostanze di tempo, ché non è possibile comparare il tempo in cui nacque la punzonatura, quella vera, con i percorsi odierni,
neppure ripristinando tratti di pavé. Poi per le circostanze, gli anni neutralizzati per il secondo conflitto mondiale, lo ricordi per Coppi, ma hanno tolto chances anche al vecchio Bartali, e ad altri. E poi la sfortuna, per alcuni, di gareggiare in contemporanea con grandi campioni. L’hai ricordato a proposito di Gimondi, ma non è il solo; ricordo, ad esempio, Poulidor, persino con tenerezza. E poi l’importanza della squadra. L’analogia con il diritto del lavoro regge. Lo sciopero è un diritto individuale ad esercizio collettivo, anche il ciclismo su strada, in un certo senso. Solo che nel caso dello sciopero vince o perde il collettivo, nel ciclismo su strada vince o perde il capitano, l’individuo.
Il volume è edito da Aras edizioni, ha il prezzo di 16 euri. La lettura, per chi abbia la almeno un po’ di passione per il ciclismo, vale davvero la pena. Grazie Paolo.
Gianni Loy
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