Che succede?

coordinamento-dcostdisperazione AladinLa tragicommedia dei porti semichiusi

Con un semplice tratto di penna sono stati evocati gli spettri della “selezione” fra “i sommersi ed i salvati”, ed è stata attuata una prima sperimentazione della cultura dello scarto, trasformando delle persone vive in materiale di scarto (carico residuo appunto) di cui sbarazzarsi, come si fa per i rifiuti tossici.
di Domenico Gallo (​11.11.2022)

Un provvidenziale certificato medico ha consentito lo sbarco a Catania di tutto il “carico residuo” rimasto a bordo della navi umanitarie Humaniti 1 e Geo Barents, dopo la prima “selezione” che aveva consentito lo sbarco di donne e minori e soggetti fragili. In questo modo il nuovo esecutivo è stato salvato dall’umiliazione di doversi rimangiare i due fantastici decreti con i quali, dopo due settimane di attesa, aveva concesso alle due navi ONG il permesso di: “sostare nelle acque territoriali italiane..(non) oltre il termine necessario per assicurare le operazioni di soccorso ed assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali ed in precarie condizioni di salute”, con l’obbligo di allontanarsi dalle acque territoriali con il “carico residuo”.

Con un semplice tratto di penna sono stati evocati gli spettri della “selezione” fra i meritevoli di essere salvati e quelli destinati ad essere rigettati all’inferno, in pratica una nuova versione de “i sommersi ed i salvati”, ed è stata attuata una prima sperimentazione della cultura dello scarto, trasformando delle persone vive in materiale di scarto (carico residuo appunto) di cui sbarazzarsi, come si fa per i rifiuti tossici.

Quello che conta è il linguaggio che, in questo caso, serve a definire un’identità. In un certo senso il nuovo esecutivo, con il decreto Rave e con i decreti sui porti semichiusi, ha indossato la camicia nera, pur essendo consapevole che stava realizzando una sceneggiata.

L’importante è mandare il messaggio, che “la musica è cambiata”, che questo governo è intransigente nella difesa dei confini, che è capace di imporre a tutti “il rispetto delle regole”, e di tutelare “l’interesse nazionale”. Consacrare una nuova “postura” (di bullismo) nei rapporti interni e nei rapporti internazionali è un’ottima arma di distrazione di massa rispetto ai problemi reali di governo del paese, che non si possono risolvere spezzando le reni a chicchessia.

Ovviamente una cosa è la narrazione, altra cosa è la realtà. Il Governo italiano non poteva prolungare il braccio di ferro con la Commissione Europea che più volte ha richiamato l’Italia, invitandola a «minimizzare la permanenza delle persone a bordo delle navi» (da ultimo il 10 novembre con una nota ufficiale), come peraltro prescrivono il diritto internazionale del mare e il Regolamento europeo n.656 del 2014. Per questo è stato costretto ad assicurare un porto per lo sbarco. Né poteva impedire lo sbarco di tutti i naufraghi a bordo delle navi che hanno effettuato il salvataggio.

La pretesa di effettuare la “selezione” fra i salvati e i sommersi non avrebbe potuto trovare attuazione pratica perché inevitabilmente sarebbe stata stroncata dalla giurisdizione amministrativa e da quella ordinaria, se non dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Vi è un catalogo di norme e principi di carattere nazionale, costituzionale e sovranazionale che non possono essere stracciati impunemente, neanche da un governo “forte”. A cominciare dallo stesso testo unico sull’immigrazione (art. 10 ter) che prevede che le persone salvate in mare devono essere condotte nei centri di prima accoglienza e devono essere informate del diritto di chiedere la protezione internazionale, essendo il diritto d’asilo un diritto fondamentale garantito dall’art. 10, comma 3 della Costituzione. Per non parlare dell’impossibilità di reinviare in acque internazionali il “carico residuo”, poiché l’espulsione collettiva di stranieri è vietata dall’art. 4 del Protocollo n. 4 della CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Insomma il certificato medico è stato una manna dal cielo che ha tolto le castagne dal fuoco al Governo salvandolo da una imbarazzante retromarcia. A questo proposito la reazione stizzita del Presidente del Consiglio non si comprende se sia frutto più di inesperienza o di supponenza.

Resta il fatto che ostacolare l’attività di soccorso in mare effettuata dalle navi umanitarie, che intervengono in una zona di mare dove sono stati ritirati tutti gli assetti navali di Frontex, non è una forma di contrasto all’immigrazione illegale, né di “protezione” dei confini. Le navi ONG intercettano, infatti, solo una minoranza dei profughi che arrivano dal mare: poco più di 10.000 su 87.000 sbarcati negli ultimi 10 mesi, l’11,5% del totale. La maggior parte dei c.d. “migranti illegali” arriva su mezzi propri che non possono essere bloccati, né respinti in alto mare.

L’intervento delle navi ONG fa la differenza perché consente l’arrivo in Italia di quelle persone che con i mezzi propri non ce l’avrebbero fatta. In pratica c’è una selezione naturale fatta dal mare dove, secondo l’OIM, sono almeno 2.836 i morti e dispersi registrati nel Mediterraneo centrale dal 2021 al 24 ottobre 2022. Le navi delle ONG si intromettono in questa selezione naturale mitigandola, portando in salvo quel flusso di persone che non ce l’avrebbero fatta: o sarebbero annegati, o sarebbero stati catturati dalle motovedette libiche e riportate nell’inferno dei lager.

Impedire quest’attività di soccorso significa pianificare la morte per annegamento di migliaia di persone come strumento ordinario della politica di gestione dell’immigrazione. Evidentemente nei suoi primi vagiti il governo ha riesumato il motto dei franchisti: Viva la muerte!
———————————————-
f4ab00b9-a793-4143-a334-bacfa6ae0dc6Tante piazze per la pace perché non possiamo stare a guardare
di Alfiero Grandi​
(11 Novembre 2022)

La manifestazione per la pace di Roma è andata molto bene, partecipata, multiforme e questo è un pregio non un difetto. Diversi orientamenti si sono uniti nella richiesta alta e forte di puntare con decisione ad una tregua e ad una trattativa che ponga fine alla guerra in Ucraina. Guerra che continua a diffondere germi pericolosi che possono spingere ad un conflitto mondiale, perfino nucleare.
Resta la grave responsabilità di Putin di avere scatenato l’aggressione all’Ucraina e di avere innescato un rilancio del riarmo a livelli mai visti dalla seconda guerra mondiale. Un solo esempio: la richiesta Nato di spendere per la cosiddetta difesa (parte degli armamenti vanno in Ucraina) almeno il 2 % dei bilanci pubblici dei suoi membri è praticamente un dato acquisito negli orientamenti dei vari governi, resta al massimo il problema dei tempi per arrivarci. La Germania ha addirittura messo in bilancio 100 miliardi di euro per armamenti.
La guerra ha travolto le relazioni tra gli Stati
Il cambiamento nei rapporti internazionali tra gli Stati è ben descritto dalla differenza (allarmante) tra il vertice di Glasgow (Cop26), avvenuto solo un anno fa per concertare a livello mondiale le iniziative contro il cambiamento climatico (con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura del pianeta entro 1,5 gradi) e il vertice mondiale in Egitto (Cop27) che ha registrato assenze importanti (India, Cina, Russia), con difficoltà enormi nel gestire perfino gli impegni già presi e finora non realizzati, come il sostegno finanziario.
La guerra ha travolto nel mondo le relazioni tra stati e relegato la questione clima in secondo piano. La crisi climatica oggi non è più il centro, malgrado le sue conseguenze gravissime si susseguano sotto i nostri occhi, non ultime quelle economiche, in particolare sulla transizione dall’energia fossile a quelle rinnovabili, che era un punto centrale della discussione a Glasgow.
Non è il clima che è migliorato, è il consesso degli stati che ha relegato questo obiettivo vitale per il futuro dell’umanità in secondo piano. Non possiamo rassegnarci.
La risposta alla guerra non può essere proseguire nel riarmo, bruciando risorse e vite umane. E’ un errore mettere al centro la scelta tra Putin e l’Ucraina, come se si trattasse di una partita, perché è evidente che questo disgraziato paese sta subendo distruzioni e perdite di vite umane ma che la sua tragedia non troverà soluzione per via militare, con la guerra.
La guerra infinita non è una soluzione ma una crisi senza via d’uscita, per questo occorre invertire il precorso e creare nel mondo il clima e le iniziative che possono portare a tregua e trattative di pace. La conferenza di Helsinky del 1975 resta un riferimento importante.
Finora si è parlato molto e solo di guerra, ben pochi hanno parlato di pace, che anzi viene descritta come impossibile perché i diretti interessati – si dice – vorrebbero continuare la guerra e puntano a risolvere per via militare il conflitto.
La differenza è anzitutto qui. Può essere che Russia ed Ucraina non siano in grado di trovare da sole il modo per avviare una trattativa diretta. Per ora è stata mediata dalla Turchia la soluzione di singoli aspetti. Proprio per questo è il resto del mondo che deve trovare la forza e il coraggio per aiutare, convincere, costringere i contendenti ad affrontare le difficoltà di una trattativa per la pace.
Il resto del mondo non può ridursi a spettatore o a fornitore di armi ai contendenti, perché questo è un dramma umano e politico che riguarda tutta l’umanità e che potrebbe portare il pianeta, tutti noi, al disastro.
Essere per la pace non impedisce di avere chiare le responsabilità, ma vuol dire concentrarsi su questo obiettivo che è l’unico modo per non rimanere prigionieri delle difficoltà, per cercare una soluzione futura stabile ad una situazione che oggi è di guerra.
L’invio di armi non è l’unica via
Non sarà sufficiente la manifestazione del 5 novembre, che anzi ha bisogno di continuità, mettendo in campo altre e più ampie iniziative, come del resto hanno detto gli oratori nei discorsi in piazza San Giovanni: allargare alle altre capitali nel mondo le manifestazioni, diffonderle in modo sempre più ampio in Italia, convincere che le trattative non hanno alternative.
Allargare, estendere, intensificare, sono i compiti che la manifestazione di sabato ha affidato a tutti noi.
Non a caso contro questa manifestazione è iniziato preventivamente (e prevedibilmente) un tentativo di sminuirne la portata, proseguendo a raccontarla in modo strumentale. La critica di chi sostiene che l’invio delle armi è l’unica via per arrivare alla pace è semplicemente una coazione a ripetere, per di più fingendo di dimenticare che la Russia è una potenza nucleare. In altre parole questo vuol dire puntare a vincere la guerra costi quel che costi per umiliare l’avversario.
Questo è un dramma anzitutto per l’Ucraina, ormai diventata campo di sperimentazione di tutte le nuove diavolerie per uccidere, inventate e costruite per la guerra.
La foglia di fico dietro cui ci si è nascosti finora è stata avanti con le forniture di armi perché è l’Ucraina che deve decidere se ci sono le condizioni per la pace. L’Ucraina ha diritto a decidere per sé stessa, ma non può decidere di creare una situazione che può portare ad un conflitto mondiale e peggio ancora al conflitto nucleare. Sappiamo bene che questo è solo un alibi per giustificare la continuazione delle forniture di armi e la guerra.
Non si possono dipingere come filo Putin tutti quelli che parlano di pace, facendo risorgere un nuovo maccartismo, senza avere il coraggio e la forza di dire che per arrivare alla pace occorre pensare alla pace. Per di più con una sudditanza europea preoccupante e alla lunga pericoloso per il suo ruolo nel mondo e il suo futuro.
Lo slittamento verso una guerra senza fine e un suo potenziale allargamento al mondo rischia di diventare l’unica strada effettivamente percorribile. Durante la guerra fredda, ad esempio negli anni 60, si arrivò diverse volte vicini al dramma nucleare ma poi ci si fermò sulla base della convinzione che una guerra mondiale avrebbe portato l’umanità ad un disastro e che la coesistenza doveva per forza di cose riguardare regimi diversi tra loro. Altrimenti se le relazioni fossero solo con paesi più o meno simili si dovrebbe parlare di alleanze non di coesistenza.
Oggi va ricostruita questa semplice ma decisiva verità. Paesi diversi, con regimi diversi, che possono non piacerci e che abbiamo diritto di criticare, non possono essere l’obiettivo di un cambiamento politico dall’esterno, occorre evitare che la competizione tra sistemi diventi ragione di guerra, in particolare se dovesse coinvolgere paesi con armi atomiche, perché gli incubi peggiori potrebbero diventare una spaventosa realtà.
Quindi occorre che le sedi internazionali, a partire dall’ONU, svolgano a pieno il loro ruolo, coinvolgendo le potenze fondamentali che hanno una responsabilità nel governare le relazioni internazionali, partendo da una tregua nella guerra in Ucraina e insieme avviando una trattativa per la pace, difficile fin che si vuole ma che è l’unica via per uscire da questo cul de sac.
Chi con sicumera insiste sulla guerra senza fine dovrebbe ricordare che in Afghanistan gli Usa sono rimasti 20 anni, spendendo cifre incredibili e con una presenza militare diretta enorme, con perdite umane importanti, eppure ad un certo punto, senza neppure avvertire gli alleati, gli Usa hanno deciso che la guerra andava conclusa e sappiamo che è finita con l’abbandono delle speranze (e delle persone) al loro destino.
Nessun organo di informazione importante ha fatto la diretta della manifestazione di Roma, altri si sono dilettati in derisioni, critiche, insistendo sulle differenze, senza comprendere che la convergenza di diversi su una piattaforma é una forza non una debolezza. Tutto previsto e puntualmente arrivato.
Passare dal sostegno alla guerra, senza chiedersi quale possa esserne lo sbocco, alla iniziativa per la pace non è uno scherzo, richiede un cambio radicale di priorità e di atteggiamento verso i soggetti in campo.
Chi chiede solo armi deve sapere che non può continuare così. Chi continua la distruzione sistematica e provoca vittime deve sapere che non può continuare così. La coazione a ripetere è durata anche troppo. Ora basta, parliamo di pace come obiettivo principale.
Altra eredità decisiva della manifestazione sta nella testimonianza di chi ha contribuito come Sant Egidio a superare condizioni di guerra terribili nel mondo e oggi è di nuovo testimone della volontà di pace.
Mettere insieme le tante voci diverse
Ora occorre non solo estendere le manifestazioni ma iniziare concretamente a individuare le sedi, i percorsi e le soggettività che possono contribuire a creare un clima di fiducia sufficiente per avviare le trattative di pace. Sappiamo da tempo che l’autorità morale di papa Francesco può aiutare (anche se le sue divisioni militari non esistono) ma non è l’unica autorità che può contribuire. Sono diversi i pulpiti importanti che fanno capire di essere per la pace, malgrado questo la trattativa non si avvia, non scatta ancora il meccanismo positivo.
Estendere le manifestazioni ovunque e fare maturare più in fretta possibile la trattativa sono le due sfide che la manifestazione di Roma consegna a tutti noi.
Inoltre va detto che al di là dello sbracciarsi per attribuirsi primazie sulla manifestazione resta il fatto che i protagonisti che hanno organizzato e riempito il corteo e la piazza sono esponenti della società, sono associazioni e persone che sono determinate alla pace.
Se questa manifestazione fosse stata convocata da settori politici non avrebbe avuto lo stesso risultato, mentre la convocazione da parte di 600 associazioni grandi e piccole ha dato all’appello di convocazione la credibilità necessaria per mobilitare tanti, diversi tra loro, e questa è una forza non una debolezza.
Questo debbono ricordarlo tutti, sia quelli che hanno partecipato per non perdere il contatto con questo mondo, sia altri che si sono messi in evidenza per intestarsi il risultato.
Non ci sono ancora né iniziative, né credibilità della politica sufficienti per recuperare un rapporto di rappresentanza con la parte maggioritaria delle italiane e degli italiani che vogliono che questa guerra finisca prima possibile, senza umiliazioni e creando un clima giusto di convivenza tra diversi.
La società ha oggi una responsabilità enorme ed è l’unica che può mobilitare le persone e uscire dagli schemi fin qui percorsi, che hanno dimostrato di non essere in grado di indicare una via di uscita dal clima di guerra verso una difficile ma indispensabile pace.
Chi ha ascoltato i discorsi durante la manifestazione sa che la piattaforma di convocazione e le posizioni espresse dagli oratori, in particolare da don Ciotti, Riccardi e Landini hanno una valenza politica che gli esponenti politici non riescono ad avere perché la maggioranza dell’opinione pubblica del nostro paese sta con i protagonisti del 5 novembre.
————————-

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>