Riflessioni odierne e “antiche”

bambino con teschioDal Blog di Enzo Bianchi
​Fondatore della comunità di Bose

Il senso di responsabilità
L’involgarimento del gusto, l’imbarbarimento dei modi, la mediocrità e la rozzezza pervadono ogni ambiente della nostra società
La Repubblica – 03 Ottobre 2022

di Enzo Bianchi
L’emergenza dovuta alla pandemia che ha ristretto il campo della nostra osservazione, la preoccupazione per la guerra ai confini dell’Europa – una guerra tra Russia e Occidente, come si è subito rivelata –, le difficoltà dovute alla recessione economica che stiamo attraversando, ci hanno impedito di leggere ciò che stiamo vivendo nel quotidiano a livello individuale e sociale. Ma se si cerca di farne una lettura formulandone un giudizio ci rendiamo subito conto che l’involgarimento del gusto, l’imbarbarimento dei modi, la mediocrità e la rozzezza (quest’ultima chiamata da Robert Musil “prassi della stupidità”) pervadono ogni ambiente della nostra società. Il clima in cui viviamo è ormai per molti di noi un’insostenibile pesantezza, perché deteriora e compromette la qualità della vita personale e collettiva, l’“io” e il “noi”. A questo appiattimento acritico su modelli spesso importati, a una cultura segnata da competitività, aggressività, negazione del diverso, sembra non sia possibile reagire efficacemente in campo educativo, per cui l’involgarimento è dilagante.

Sappiamo tutti elencare le crisi che stiamo attraversando, ma forse alla radice di molte di queste dovremmo riconoscerne una: la crisi del senso di responsabilità. Essere responsabili significa tenere costantemente presente il volto dell’altro, degli altri, perché il volto sempre si volge a me con una domanda, un’attesa, la richiesta implicita di una risposta che è la prima forma di responsabilità.

Ma per arrivare a possedere il senso di responsabilità certamente occorre resistere all’esproprio dell’interiorità, tentata dalla dominante colonizzazione della cultura di massa, sempre più tecnicizzata. Senza una vita interiore in cui possano sorgere le domande, riesca trovare spazio la critica, si possa misurare la capacità di resistenza, chi mai potrà tentare vie di libertà? Anche l’educazione, la trasmissione del sapere, come potrebbero avvenire in modo efficace e fecondo senza la formazione dello spirito o della vita interiore?

Troppo scarsa è l’attenzione che si dedica alla preparazione alla vita, alla formazione del carattere, all’esercizio del pensare e del discernere, e va anche denunciato come sia mancata una trasmissione da parte di quelli che dovevano essere “trasfusori di memoria”. Abbiamo avuto invece dei rottamatori che ci hanno lasciato solo rovine, e ora il panorama si presenta desertificato, senza più qualcuno che viva la passione per un compito, una missione.

È soprattutto nella vita della polis che si mostra il senso di responsabilità che impedisce il regnare della demissione. Sì, la demissione di fatto non può essere chiamata con altro nome che con quello di “stupidità”. Scrive Dietrich Bonhoeffer nelle lettere dal carcere: “Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità ci si può opporre con la forza… ma contro la stupidità non abbiamo difese … in determinate circostanze gli uomini vengono resi stupidi, o si lasciano rendere tali. Il potere di alcuni richiede la stupidità degli altri”.

Parole che dicono l’urgenza di opporre resistenza, di impegnarsi in una vita interiore, per essere dotati del senso di responsabilità.
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Beni comuni e amministrazione condivisa • Il punto di Labsus
L’Amministrazione condivisa per sostenere la nostra febbricitante democrazia

Proposte per forme innovative di impegno politico capaci di recuperare gli spazi (perduti) della democrazia

di Pasquale Bonasora su Labsus
4 Ottobre 2022

«Quel giorno non comprendevo fino in fondo l’importanza di quello che stava succedendo, anche se ero molto fiera di recarmi alle urne. Con gli anni ho compreso meglio. Oggi sono orgogliosa di poterlo raccontare ai miei figli e nipoti. È stato un traguardo importantissimo per le donne e la democrazia in generale». Sono parole che raccontano un giorno storico, quello del 2 giugno 1946. Sono parole che raccontano le emozioni di Francesca Costella, tra le prime donne in Italia ad aver esercitato il diritto di voto.

Il primo partito italiano

La realtà oggi sembra molto diversa e decisamente meno entusiasmante. Quello dell’astensione è il primo partito in Italia e mentre, con ogni probabilità, avremo per la prima volta una donna alla guida del Governo, il livello della partecipazione al voto si abbassa sempre più. Il dato dell’astensione, del resto, sembra non preoccupi abbastanza i protagonisti della vita politica. È un tema buono per la prima dichiarazione a urne appena chiuse, quando ancora non ci si può sbilanciare sui risultati elettorali, ma sembra già dimenticato il giorno dopo le elezioni.

Innanzitutto, cambiare la legge elettorale

La percentuale dei cittadini che non è andata a votare alle politiche del 1983 era dell’11,99% (la prima volta con numeri in doppia cifra), nell’ultima tornata elettorale ha raggiunto il 36,09%. In soli cinque anni, dal 2018 ad oggi, quasi il 10% in più. Un lento inesorabile declino della voglia di partecipare attraverso l’esercizio del diritto di voto da parte degli italiani. Qualcosa nei sistemi politici attuali sembra non funzionare più vista la difficoltà delle forze politiche tradizionali a raccogliere consenso e governare. Tra le cause che alimentano la disaffezione al voto non sembra trovare riscontro nella classe politica quella di una legge elettorale che da tempo ha sottratto agli elettori il diritto di scelta dei propri rappresentanti, indicati dalle segreterie di partito e molto spesso catapultati in territori che non conoscono e scelti in base a più o meno attendibili garanzie di “obbedienza” al capo politico.

Una lettura semplicistica dell’astensionismo

Nessun riferimento alle criticità dell’attuale sistema elettorale lo si trova nemmeno nel Libro bianco per la partecipazione dei cittadini al voto promosso dal Ministero per i rapporti con il Parlamento, pubblicato nell’aprile di quest’anno, dove però troviamo una sorprendente definizione dell’astensionismo di protesta inteso come «quelli che possiamo considerare gli alienati che vanno da coloro che dissentono esplicitamente dalle politiche governative, a quelli che contestano la classe politica con posizioni chiaramente anti-establishment, a quelli che non hanno fiducia nel metodo (elettorale) democratico, a quelli con posizioni radicali, anche neo-autoritarie». Mi sembra una lettura semplicistica e per certi versi autoassolvente di un sistema che forse dovrebbe porsi come obiettivo quello di contrastare soprattutto le diseguaglianze crescenti nel mondo come nel nostro Paese.

I poveri non sono interessati a votare

Del resto, alcune interessanti letture mostrano un evidente collegamento tra le aree più povere e depresse e quelle con la maggiore astensione dal voto, quasi sovrapponibili. Significa che chi vive quotidianamente la precarietà, la mancanza di risorse, l’assenza di speranze non ha più riferimenti e crede sempre meno nella democrazia come processo che garantisca il benessere e la felicità di ciascuno e non di un numero sempre più ristretto di privilegiati.

Nuovi spazi per l’esercizio della democrazia

È un tema che riguarda tutti, da destra a sinistra. La verità, forse, sta nella necessità di recuperare gli spazi della democrazia in un processo che non può dirsi mai compiuto e leggere e sostenere quello che di nuovo sta nascendo, in forme diverse dal passato, ma con la capacità di definire identità nuove, mobilitare energie per la tutela di interessi generali, riconoscersi in principi e valori condivisi. Le tradizionali forme di partecipazione politica, invece, vivono ormai da tempo un processo di trasformazione e mutamento, nate per ricoprire innanzitutto una funzione di integrazione sociale e aggregazione delle domande a cui dare risposte attraverso la rappresentanza politica, per sopravvivere nel mercato elettorale puntano sempre più sulla personalizzazione e sul ricorso agli strumenti tipici delle strategie commerciali.

Saper riconoscere i nuovi soggetti diffusi, per dare loro fiducia

La ricerca spasmodica del consenso impedisce, non sempre ma spesso, di riconoscere tanti soggetti diffusi, apparentemente deboli ma molto radicati sul territorio, che stanno ridefinendo i confini dell’agire pubblico. Sono quei cittadini, organizzazioni collettive, gruppi informali, associazioni riconosciute e legittimate dal principio di sussidiarietà orizzontale. Tocca alle istituzioni “favorire” l’autonoma iniziativa dei cittadini ma, senza dimenticare l’impegno e l’abnegazione di tanti, soprattutto amministratori locali tecnici e politici, siamo ancora lontani dal significato che la costituzione all’articolo 118, IV comma attribuisce a quel “favoriscono”.
Sembra prevalere ancora l’idea che le esperienze di Amministrazione condivisa attraverso la cura dei beni comuni, sempre più diffuse in tutto il Paese, siano certamente positive ma sostanzialmente amatoriali. Buone per alimentare il senso civico dei cittadini ma senza quella capacità di incidere sui grandi problemi del nostro tempo, primo fra tutti quello delle disuguaglianze. Utili, forse, per migliorare la fruizione di alcuni beni, ma ancora poco efficaci nel migliorare la qualità della vita nei territori. È necessario, allora, che le istituzioni pongano maggiore fiducia in queste esperienze e nelle forme di gestione dei beni comuni che solo l’Amministrazione condivisa è capace di promuovere.

Una gestione condivisa anche di servizi di interesse comune

Quanto è lunga la lista degli spazi dimenticati delle nostre città? Aree dismesse, cinema abbandonati, scuole chiuse, edifici pubblici e privati inutilizzati tutti in attesa di una nuova identità che potrebbe trasformarli da costo a investimento per l’amministrazione pubblica. Non solo, oggi si è fatta strada la possibilità che sia possibile attivare la gestione condivisa anche di servizi di interesse comune che mettono al centro la persona affinché possa sentirsi parte integrante di una comunità in un percorso centrato intorno alla pratica quotidiana della cura. È necessario superare l’idea che solo la gestione pubblica sia in grado di garantire l’accesso a beni e diritti fondamentali, a favore di modelli e forme di gestione condivisa e partecipata da parte dei cittadini.

Proposte per forme innovative di impegno politico

La stessa Corte costituzionale nella pronuncia 131/20 ha definito l’Amministrazione condivisa come «un canale alternativo a quello del profitto e del mercato», è un riconoscimento che la politica deve saper cogliere e fare proprio, c’è bisogno di trovare strade nuove per superare l’insofferenza crescente rispetto alle forme della democrazia. Forme innovative di impegno politico che interpretano in chiave contemporanea il diritto di ogni cittadino di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49 Costituzione), oggi passano dalla capacità di riconoscere alcuni elementi essenziali, non solo di natura tecnica e amministrativa, dei processi di Amministrazione condivisa:

sono centrati sulle persone e sulla cura del pianeta. I beni comuni sono al tempo stesso locali e globali ma solo chi vive nel territorio dove quel bene si trova può concretamente prendersene cura per consentire a tutti gli altri esseri umani presenti e futuri di goderne i benefici;
hanno la capacità di valorizzare i processi dalla piccola alla grande scala. Nello spazio, dall’effetto della singola azione di cura alla visione generale di impatto sostenibile e nel tempo, dal presente al futuro;
alimentano la creatività e lo scambio di idee facendo emergere nuove prospettive;
sono orientati all’inclusione e alla condivisione delle differenze riconoscendo l’interdipendenza tra le generazioni e le culture;
sono circolari e generativi perché liberano le risorse esistenti – fisiche e sociali – per nutrirle e farle crescere.
L’azione sussidiaria dei cittadini, dunque, ha una sua dimensione politica capace di produrre e alimentare quelle risorse di socialità indispensabili per sostenere la nostra febbricitante democrazia.

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beato-angelico-san-pietro-martire-ingiunge-il-silenzio-dettaglio-affresco-ca-1442-lunetta-nel-chiostro-detto-di-santantonino-del-convento-di-san-marco-museoLa fatica e il coraggio di essere uomini.
di Salvatore Loi, Guamaggiore 1971.
Mi hanno sempre colpito due frasi del Vangelo: una è di San Luca “ma il Figlio dell’uomo, alla sua venuta, troverà forse la Fede sulla terra?” (Lc. 18,8) e l’altra è di San Matteo “per il moltiplicarsi dell’iniquità si raffredderà la carità di molti” (Mt. 24,12).
A pensar bene sono due frasi drammatiche: sembra che Gesù veda con amarezza tempi in cui fede e amore entreranno in agonia. E l’agonia della fede e dell’amore coincide con l’agonia di Dio nel mondo, ma anche con l’agonia dell’uomo.
Forse oggi essere uomini significa vivere accettando la terrificante condizione umana senza lasciarsene vincere.
Se abituassimo i nostri occhi a superare le barriere dell’apparenza e il nostro cuore ad avere il coraggio di guardare fino in fondo anche ciò che non vorremmo vedere, ci accorgeremmo che siamo povera gente presa dalla paura di tutto.
Il peggio è che questo tutto te lo senti di fronte e di spalle e di fianco e non riesci ad afferrarlo, te lo senti in fondo al cuore e non sai che sia.
Siamo spesso come il povero ebreo errante che sente su di sè il peso di una vita che non riesce a portare, come il pellegrino in viaggio verso una terra che desidera e teme. Gente seduta alla porta di casa a sognare e mentre sogna si accorge che arriva la fine e che il sogno finisce.
La nostra esperienza non è stata voluta per uscire dalla condizione di ogni uomo: guai a coloro che per essere cristiani dimenticano di essere uomini.
È stata voluta come un momento in cui insieme potessimo ricuperare dal fondo del nostro essere quella nostalgia di fede e di amore che ci facessero sperare che è ancora possibile essere uomini veri, con Dio e in Dio.
Il mistero dell’uomo, ha scritto il Concilio Vaticano II, trova spiegazione alla luce del mistero di Cristo. Perciò abbiamo cercato di porre Cristo al centro della nostra esperienza: la sua Parola, il suo Sacrificio e la sua Carità.
Non è che la sua presenza abbia reso la nostra vita più superficialmente tranquilla.
Io non mi so dire perché Dio preferisca piangere con l’uomo piuttosto che dargli una gioia che l’uomo non ha la felicità di costruirsi, ma so, voglio sapere che Dio non è tanto occupato da non ascoltare il pianto di chi non sa ricevere, come di chi non sa dare.
La presenza di Dio: ora consolante e ora sconvolgente, però tale che non ci toglierà la fatica di essere uomini.
Ci darà solo il coraggio di esserlo fino in fondo, se noi vorremo.
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È online
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